Cesare Pavese

«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.»

E invece, una dozzina d’anni dopo, chi scriveva questa annotazione nel suo diario alla pagina del 23 novembre 1937 si toglieva la vita in un afoso agosto torinese del 1950.

Sto parlando di Cesare Pavese, nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo in provincia di Cuneo, un paesino nelle Langhe che diventerà presto il fulcro del suo percorso interiore, letterario e poetico. In quel paese, infatti, congiungeranno l’universo mitico, l’attrazione verso gli antichi e la sfera della solitudine che lo contraddistingueranno per tutta la durata della sua breve ma intensa esistenza. Pavese ci ha lasciato così infiniti scorci paesaggistici delle Langhe, nonostante abbia trascorso gran parte della sua vita e formazione a Torino. Questi luoghi, più che mai, gli sono cari durante l’esilio da parte del Fascismo a Brancaleone, in Calabria. Pavese qui scrive un romanzo sulla sua condizione di esule, “Il carcere”, sentendosi lontano da ciò che lo circonda, avvertendo che l’unico luogo per combattere la sua battaglia si trova a casa, dinnanzi alle sue terre, perché se non troviamo accoglienza nel luogo che ci ha cresciuti, non la troveremo da nessuna parte.

Un paio di anni dopo il ritorno a Torino, nel 1938, diventa ufficialmente redattore di casa Einaudi. Questo periodo è segnato da infaticabile lavoro e dedizione e presto la casa editrice diventa tutto, nonostante gli sgarbi e le arrabbiature di cui Pavese scrive nei carteggi, spesso ironici, con Giulio Einaudi. Negli ultimi anni ha modo di lasciare una traccia indelebile nella persona di Italo Calvino, di cui intuisce subito la grande intelligenza e l’abilità nello scrivere. Calvino, pochi anni dopo la morte del maestro, lo ricorderà così: «Vero è che non bastano i suoi libri a restituire una compiuta immagine di lui: perché di lui era fondamentale l’esempio di lavoro, il veder come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio d’idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna». 

Pavese, forse più di un importante saggista, traduttore, redattore e scrittore, è stato un poeta e soprattutto un uomo. Le poesie l’hanno accompagnato per tutta la vita, da Lavorare stanca a Poesie del disamore, camminando fianco a fianco durante un percorso colmo di solitudine, nostalgia, dolore e un grande, inestinguibile vuoto. Pavese cerca nella letteratura uno sbocco, una via di fuga per disfarsi dei suoi sentimenti e trovare quella che lui chiama «simpatia totale».

La «simpatia totale» è forse il vero campo di battaglia su cui Pavese combatte tutta la vita; il desiderio di provare amore per una donna, e di legarsi a lei indissolubilmente, diventa così il luogo in cui cercare l’infinito e alleviare il dolore di vivere. La sua vita è un’attesa continua, «interminata», se volessimo citare un altro celeberrimo autore che dialoga col dolore universale che avverte fin dalla più tenera età: Leopardi. Soffocato dentro la sua abitazione a Recanati uno, alimentato dalle Langhe l’altro; i due poeti vengono a collidere nella congiunzione eterna tra amore e morte. Quando non troviamo l’amore, spunta fuori la morte. Pavese scriveva: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Ecco, io continuo a domandarmi quali occhi vedesse riflessi nello specchio l’uomo che, in una torrida giornata estiva torinese, saliva in albergo e ci lasciava perdonando tutti e chiedendo perdono a tutti.

To C. from C. Le cinque nemesi di Cesare Pavese

La fredda cronaca che dà corpo alla tragica notte del 27 agosto 1950 è, oggi, storia ancora più fredda. In una stanza dell’Hotel Roma in via Carlo Felice a Torino, Cesare Pavese ha da poco finito di scrivere, su una pagina dei Dialoghi con Leucò, le sue ultime tredici parole: «Perdóno tutti e a tutti chiedo perdóno. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.». Ripone il libro e la penna sul tavolino accanto al letto. Si sdraia. Ingerisce dieci bustine di barbiturici. L’indomani viene ritrovato senza vita. Nei giorni seguenti, rovistando tra le sue carte, balzano fortunatamente fuori – per l’umanità – dieci poesie che daranno vita alla raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. La quinta poesia della silloge «You, wind of march» esordisce, come si direbbe in musica, con un fortissimo:

«Sei la vita e la morte». Punto.

Tu, in questo caso una donna (una metonimia dell’amore), sei la vita e la morte. Le prime tre parole chiave per comprendere l’opera in prosa e in versi di Pavese. La donna. La vita. La morte.

La poesia, dopo qualche verso, continua così:

«[…] Ora la terra e il cielo

sono un brivido forte,

la speranza li torce,

li sconvolge il tuo passo,

il tuo fiato d’aurora.

Sangue di primavera,

tutta la terra trema

di un antico tremore.»

La terra, intesa come campagna; o a volte chiamata semplicemente la vigna. Ecco la quarta parola chiave nella poetica di Pavese. La terra!

L’ultima parola è nascosta nella poesia seguente: Passerò per Piazza di Spagna

«S’aprirà quella strada,

le pietre canteranno,

il cuore batterà sussultando

come l’acqua nelle fontane –

sarà questa la voce

che salirà le tue scale.

Le finestre sapranno

l’odore della pietra e dell’aria

mattutina. S’aprirà una porta.

Il tumulto delle strade

sarà il tumulto del cuore

nella luce smarrita.

Sari tu – ferma e chiara.»

La città. La quinta parola chiave. È in questi cinque mondi che vive Cesare. Non lo troverete in quello politico, filosofico, sociologico e in nessun altro -ico. Ogni scrittore ha una tragedia da raccontare. La sua è racchiusa in queste cinque semplici parole.

Ora, per dovere di narrazione ritornerò alla fredda cronaca.

Questa – ahimé! per brevità di battute – ha inizio il 1° gennaio di quel 1950. Pavese nel suo diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere, annota:

«Roma […] Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del ’45-’46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. […] Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire.».

È nei giorni successivi a queste parole che conosce l’attrice statunitense Constance Dowling, della quale si innamora. I due vivono una breve storia d’amore – più platonica probabilmente che, parafrasando Nietzsche, dionisiaca – prima che lei tronchi la loro relazione per ritornare definitivamente negli Stati Uniti.

Molti, forse anche troppi, non rispettando le ultime volontà dello scrittore, hanno spettegolato… attribuendo il climax dello spleen pavesiano a questo fulmineo – insperato per lui – abbandono.

È molto romantico, cinematografico quasi, pensarla così. È probabile che Hannah Arendt avesse un’enorme dose di ragione nel teorizzare la banalità del male. Spesso questo è vero: davanti ai fatti più tragici, alle morti più efferate, ai più grandi orrori commessi dall’uomo siamo tanto sopraffatti da doverli motivare per poterli accettare. A volte il male, insomma, è banale! Eccola lì. Quindi è probabile che Pavese si sia davvero suicidato per amore. Forse io la penso diversamente perché sono innamorato di Pavese. Perché, come mi ha chiesto, l’ho perdonato. E la mia motivazione per giustificare la banalità dietro al suo gesto inizia da questa domanda: uno degli scrittori più fulgidi che l’Italia del XX secolo abbia letto, ha tagliato il filo della sua vita per una delusione amorosa? Il male di Pavese era di sicuro banale… ma non così tanto, io credo. Era un male di vivere pervasivo, atavico; come chiunque abbia studiato la sua vita, il suo diario e la sua corrispondenza può intuire.

Ripeto però: è molto romantico rendersi conto che le ultime fatiche da scrittore siano stati i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. La raccolta, infatti, si apre con questa poesia, datata 22 marzo 1950: To C. from C. (A Constance da Cesare), scritta interamente in inglese. Le nove poesie d’amore (otto in italiano e un’altra in inglese) che seguono sono, tutte, l’ovvia testimonianza del suo amore per l’attrice. Nonché il compendio di tutta la sua tragica, celestiale, romantica produzione: la città; la cui insonnia era vista come una medicina per lenire la sua tristezza e al tempo stesso un groviglio nel quale era impossibile vivere. La donna; una sublimazione di un ideale più che carne e ossa; un essere angelico, idilliaco. Eppure, o proprio per questo, avvertito come inavvicinabile, impossibile da raggiungere. La terra, «la vigna» ultimo baluardo, estrema ancora di salvezza a cui aggrapparsi per non soccombere ma luogo stretto, castrante. Tre parole chiave. Tre simboli della Vita e della Morte. Tre materializzazioni della sua incapacità di stare al mondo, di interagire e vivere insieme a queste entità, rendendole parti a sé affini e non in antitesi… delle nemesi contro le quali lottare fino a perdere il senno.

Se fossimo all’oscuro della vita di Pavese, e del suo tragico epilogo, la sua opera sembrerebbe quella di un uomo che non ha ancora bruciato tutta la sua candela. Questi sono, infatti, i versi conclusivi di You, wind of March

«La speranza si torce,

e ti attende ti chiama.

Sei la vita e la morte.

Il tuo passo è leggero.»

Le sue – da quel poco che fin qui avete letto – sono parole ariose, chiare, semplici… Panteistiche come in Whitman a volte. In loro c’è tristezza, è vero.. ma anche tensione di superamento, forte volontà. Leggendole, una ad una, si ha come la sensazione che qualcosa in quella vita si sia irrimediabilmente incagliato; eppure vanno avanti. Camminano con grazia. Sono parole piene di speranza, fiducia, amore.

Le parole di Pavese sono come le sue vigne, come la terra. Tutto muore ma tutto si rigenera. Tutto scorre nei suoi versi. Panta rei. Tutto risorge.

La bellezza interiore della Parola, quando questa è vera e valida, risiede nell’umano desiderio di essere eterno; di sconfiggere il Tempo. Di uccidere la Morte. Pavese è morto… ma se ci sono io qui a scrivere e un tu o un voi lì a leggere, allora la sua candela è ancora accesa.

La fredda cronaca di quel caldo 1950 piemontese è mancante di poco altro. Nell’aprile di quell’anno fu pubblicato uno dei suoi capolavori – per me Il suo capolavoro – in prosa La luna e i falò, dove, sulla seconda di copertina, compare una dedica:

«for C.

Ripeness in all».

A giugno ritira il Premio Strega per il romanzo La bella estate. In agosto, dalla sua residenza estiva, scrive – alla diciottenne Romilda Bollati, con la quale stava vivendo una storia d’amore – queste poche righe, piene di parole vere, lucide, semplici, perfette… come, già detto, tutta la sua Opera.

«Bocca di Magra. Agosto 1950

Cara Pierina,

[…] Il motivo immediato è il disagio di questa rincorsa dove non ballando e non guidando resto sempre perdente. Ma c’è una ragione più vera. Io sono come si dice… alla fine della candela […] se mi sono innamorato di te non è soltanto perché, come si dice, ti desiderassi, ma perché tu sei della mia stessa levatura e ti muovi e parli come, da uomo, farei io, se invece di imparare a scrivere avessi avuto il tempo di imparare a stare al mondo […] Ma tu per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a ventotto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori. Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e precisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perché tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai di là della politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore.».

Il resto della cronaca lo conoscete.

Carlo Di Giovanni

CINQUE MOSTRE DA VISITARE IN PIEMONTE

 

 

Vista la recente riapertura dei musei e delle mostre, nella rubrica di oggi parleremo delle cinque esposizioni d’arte in Piemonte assolutamente da non perdere.

 

  • VIAGGIO CONTROCORRENTE. ARTE ITALIANA 1920-1945 (Torino-GAM)

 

La GAM di Torino ha inaugurato una mostra dedicata all’arte italiana tra la fine della Grande Guerra e il termine della Seconda Guerra Mondiale. Attraverso opere provenienti dalla collezione del museo, dalla Galleria Sabauda e dalla significativa collezione privata dell’Avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, l’esposizione ripercorre una parte della nostra storia nazionale e mette in evidenza il ruolo curativo dell’Arte, quale veicolo di guarigione attraverso la bellezza. Tra i vari artisti in mostra compaiono i grandi nomi di Renato Guttuso, Emilio Vedova e Lucio Fontana. 



  • LE CORBUSIER. VIAGGI, OGGETTI E COLLEZIONI (Torino – Pinacoteca Agnelli)

La Pinacoteca Agnelli ha inaugurato ad aprile la mostra “Le Corbusier. Viaggi, oggetti e collezioni” dedicata all’architetto padre del Movimento Moderno.
L’esposizione organizzata dalla Pinacoteca Agnelli in collaborazione con la Fondation le Corbusier di Parigi si sviluppa al terzo piano della Pinacoteca e ripercorre la vita di Le Corbusier attraverso oggetti derivanti dal restauro del suo appartamento parigino, disegni parte del suo prezioso archivio cartaceo e fotografie. 

Gli oggetti in mostra sono i famosi “objets à réaction poétique”, oggetti a reazione poetica, capaci di stimolare il processo creativo del celebre architetto.


  • ASTI, CITTÀ DEGLI ARAZZI (Asti – Palazzo Mazzetti)

 

Palazzo Mazzetti apre le sue porte al pubblico per una nuova mostra interamente dedicata all’astigiano e alla sua manifattura locale. A partire dalla sua storia, da alcuni grandi personaggi che l’hanno resa nota attraverso i prodotti d’eccellenza dell’arte del telaio, la città ripercorre con 21 arazzi il grande passato artigiano che la caratterizza.
La mostra rendere omaggio all’attività di Ugo Scassa e di Vittoria Montalbano, due delle più prestigiose manifatture astigiane della città a partire dagli anni Sessanta del Novecento.


  • PRIMA CHE IL GALLO CANTI (Guarene – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo)

 

La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo celebra il suo 25 anniversario con l’esposizione “Prima che il gallo canti” curata da Tom Eccles, Liam Gillick e Mark Rappolt. Tramite una selezione di opere significative di artisti internazionali dalla collezione della Fondazione si ripercorre la storia collezionistica di questa istituzione.

Il titolo della mostra, “Prima che il gallo canti”, deriva dal titolo dall’omonima opera di Cesare Pavese che contiene due novelle di Cesare Pavese, Il Carcere e La Casa in Collina, raccolte insieme e pubblicate nel 1948. L’esposizione si riallaccia ad alcuni temi trattati nelle due novelle. Le opere esposte indagano il ruolo dell’arte nella contemporaneità con uno sguardo al presente e ai nuovi orizzonti del futuro.


  • WILLIAM KENTRIDGE. RESPIRARE (ALBA – CHIESA DI SAN DOMENICO)

 

Allestita presso la Chiesa di San Domenico ad Alba, la mostra è volta a promuovere nel territorio cuneese la conoscenza dei lavori artistici presentati dal Museo di arte contemporanea di Rivoli. Protagoniste dell’esposizione sono le opere come Breathe (Respira, 2008) e Shadow Procession (La processione delle ombre, 1999) di William Kentridge, noto artista internazionale. Per quanto datate queste opere sono più che mai attuali legandosi a molte vicende della contemporaneità.

Quell’Africa misteriosa e il bisogno di salvarsi da soli

Con L’amante silenzioso, romanzo pubblicato in Italia nel 2019, l’autrice spagnola più letta ed apprezzata nel nostro Paese, Clara Sanchez, trasporta il lettore non più nella sua Spagna, ambientazione fissa di gran parte delle sue storie, bensì nell’affascinante Africa dal sole abbagliante. E ci racconta una storia piena di mistero, esotismo e suspence, che tiene il lettore incollato alle pagine fino alla fine.

La protagonista è Isabel, una giovane donna di Madrid che ha perso il fratello a causa delle vessazioni psicologiche compiute da una setta in cui il giovane si era inserito durante una grave depressione. Isabel viene ingaggiata da una famiglia molto benestante spagnola che le propone di condurre una specie di missione di salvataggio in Africa, precisamente a Mombasa, in Kenya, per tentare di far ragionare e riportare a casa il loro figlio, Ezequiel. Infatti, dopo la rottura del fidanzamento con la sua ragazza Marta, il giovane è partito per ritrovare sé stesso e si è inserito nell’Orden Humanitaria a Mombasa, una comunità da cui tuttavia non è più tornato. Dal momento della sua partenza non ha più fatto sapere nulla di sé.

La motivazione che spinge Isabel ad affrontare una missione del genere potrebbe sembrare forse un po’ debole per dare input alla vicenda: il fatto di poter in qualche modo, con questo viaggio, salvare l’anima di suo fratello ed alleviare quel senso di colpa che la attanaglia dalla sua morte. È anche vero, però, che la ragazza probabilmente parte per un atto di altruismo ed egoismo allo stesso tempo: salvando qualcun altro, libera anche sé stessa. «Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno». Così recita il frontespizio del romanzo: bellissima citazione da Lavorare stanca di Cesare Pavese.

E quindi Isabel parte, fingendosi una fotografa di livello internazionale che deve fare un reportage in Africa, travestendosi da clone di Marta, per far sì che in Ezequiel si risvegli qualcosa e che il ragazzo possa rinsavire. Ben presto Isabel scopre che il giovane è diventato un affiliato molto intimo di quella che si può definire in tutti i sensi una setta, a capo della quale incombe Maína, un personaggio che la Sanchez ha saputo rendere estremamente intrigante. Manipolatore e approfittatore, Maína ha saputo creare attorno a sé un circolo di persone disperate come Ezequiel, dei relitti distrutti dalla vita, approdati in Africa in cerca di salvezza. Ha fatto loro il lavaggio del cervello e ora li costringe a vivere secondo le sue regole che comprendono il totale e netto distacco con la vita passata. I ragazzi dell’Orden Humanitaria credono veramente di essere totalmente liberi da qualsiasi vincolo che li possa ancora legare alla vita terrena e metropolitana quando invece sono totalmente succubi di questo loro capo che considerano alla stregua di un dio sceso in terra, un modello esemplare e irraggiungibile. La Sanchez ha delineato con chiarezza il fortissimo condizionamento psicologico che si innesta in questi casi, ben osservato dal punto di vista di un personaggio esterno come Isabel, che pian piano entra a far parte del gruppo. Per questi ragazzi dell’Orden tutta la vita ruota attorno a Maína e l’unica cosa che davvero conta è compiacerlo e seguire le sue regole, ripetute spesso come mantra tra le mura di questa casa-comunità in cui Maína svolge anche pratiche rituali con i suoi adepti.

Man mano che la storia procede, Isabel deve affrontare diverse prove che mettono anche a rischio la sua incolumità, senza sapere che si sta inserendo in qualcosa di molto più nascosto e molto più insidioso che un semplice salvataggio di un ragazzo spagnolo. Ezequiel infatti ad un certo punto viene rapito, probabilmente da alcuni terroristi, ma il suo rapimento sarà solo l’ombra di un progetto ben più vasto che Isabel riuscirà a smascherare grazie anche all’aiuto di un personaggio altrettanto misterioso, Said.

In un paesaggio tipicamente africano, tra hotel di lusso e villaggi poverissimi, in una natura benigna e maligna nello stesso momento ma sempre lussureggiante, si snoda una storia che è costruita dalla Sanchez in modo da essere sempre avvincente, andando a sondare gli oscuri anfratti della manipolazione mentale, senza che il lettore possa comprendere, fino alla fine, quali siano veramente i buoni e quali i cattivi. Tutto è incerto e non ci si può fidare veramente di nessuno: bisogna, ancora una volta, salvarsi da soli.

La Torino letteraria

A Torino, dall’8 al 15 di aprile, torna il consueto appuntamento con Torino che legge, evento che prevede una settimana ricca di appuntamenti dedicati ai libri e alla lettura e che, insieme al Salone del Libro di maggio e all’autunnale Portici di carta, corrobora il sodalizio tra il capoluogo piemontese e la letteratura. Il rapporto tra la città sabauda e il mondo librario non è limitato a queste iniziative: sono molti, infatti, gli scrittori che hanno contribuito a fare di Torino un grande ed elegante salotto letterario. Passeggiando per le vie della città, è possibile ripercorrere le loro orme e rievocare alcuni importanti capitoli della storia della letteratura italiana.

Ecco, dunque, alcune tappe imprescindibili del turismo letterario torinese.

 

Il caffè Platti in Corso Vittorio Emanuele, che fu uno dei luoghi prediletti di Luigi Einaudi, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Natalia Ginzburg, Leone Ginzburg e Mario Soldati.

In via Oddino Morgari, nel cuore di San Salvario, si trova, invece, la casa in cui visse parte della propria vita Natalia Ginzburg e che fu protagonista di molte pagine di Lessico famigliare. A ricordare il passaggio della scrittrice vi sono una targhetta e la piazzetta antistante alla chiesa, intitolata a Natalia Levi Ginzburg.

Sempre nello stesso quartiere, in via Pietro Giuria 7 si trova la facoltà di Chimica in cui studiò Primo Levi, mentre la casa in cui l’autore nacque, visse e si tolse la vita, gettandosi nella tromba delle scale, è in corso Re Umberto 75.

Restando in corso Re Umberto, ci si imbatte nella sede della casa editrice Einaudi, trasferita a seguito di un bombardamento che distrusse la vecchia sede di via Arcivescovado 7 e animata, negli anni Trenta e Quaranta, dal fervore intellettuale di letterati del calibro di Cesare Pavese.

L’hotel Roma in piazza Carlo Felice è una sorta di Mecca per i pavesiani più viscerali; qui, difatti, il celebre scrittore langarolo si tolse la vita e molti suoi ammiratori lo commemorano visitando la stanza dell’hotel in cui soggiornò.

Per concludere circolarmente la passeggiata letteraria, un’ultima tappa in via Galliari permette di ricordare Umberto Eco, che trascorse i propri anni universitari nel Collegio Einaudi, di cui non mancò di scrivere.

«Non ricordo se il Collegio chiudeva inesorabilmente alle 11,30 o a mezzanotte. Ricordo che chiudeva. […] Per questo io non ho mai saputo se Amleto sia morto, come se la sia cavata Edipo, chi sia la signora ponza, se Osvaldo abbia o non abbia avuto il sole, se Stanis Kowalsky si sia riappacificato con Stella, se Enrico IV sia rinsavito. Morirò con questi interrogativi sulle mie labbra esangui.

E tuttavia sarei disposto a rinunciare alla rivelazione finale per rivivere gli anni del Collegio Universitario. Essi hanno lasciato su di me tracce profonde».