LA MIA RABBIA AMBIENTALE

Non è vero che alle volte è meglio non sapere. Magari sul momento, è meglio per il nostro umore, non sapere la verità, non conoscere il vero. Ma alla lunga tutto ritorna, e quasi sempre ha conseguenze molto più negative che se avessimo conosciuto la verità prima, appena possibile.

Questo mi è venuto in mente pensando al cambiamento climatico, al disastro che sta accadendo sotto i nostri occhi, sulla nostra terra, anche se noi continuiamo ostinati a rifiutarlo, a negarlo, a distrarci cercando disperatamente delle scuse, delle colpe da dare a qualcun altro. E invece no: è colpa nostra, di tutti noi, del genere umano di cui, fino a prova contraria, facciamo parte. È facile addossare tutta la colpa a chi ci governa, e in parte, secondo me, non è nemmeno totalmente sbagliato. I politici al potere seguono per lo più la logica del profitto, dei soldi, del guadagno, della produttività, della velocità, del “minor costo/sforzo, massimo risultato”. Tutto questo non è compatibile con la terra e con il suo ecosistema, non va di pari passo né con la nostra salute, né con quella del pianeta. E nonostante ciò, non sono/siamo in grado di pensare alle conseguenze delle nostre azioni a meno che non siano immediate. E il fatto è che sono immediate, accadono a milioni di persone, costrette a lasciare le loro abitazioni per disastri naturali, per impossibilità di vivere su un suolo diventato sterile. 

Ma fino a che non capitano a noi, non ci preoccupano. Non meritano la nostra attenzione

Vorrei che tutti noi ci rendessimo conto che è necessario fermarci, ora. Smettere di maltrattare la terra, ma, se vogliamo essere più egocentrici ed egoisti e individualisti, aggettivi che mi sembra descrivano bene la società odierna, dobbiamo smettere di maltrattare noi stessi. A cosa è servito evolvere così tanto la scienza, se poi non ci fidiamo? Siamo pieni, pieni di dati che dimostrano che mangiare la carne proveniente da allevamenti intensivi ci fa male, siccome gli animali sono imbottiti di antibiotici; che mangiare frutta e verdura proveniente da chissà dove e non biologiche, ha conseguenze sulla nostra salute per l’uso di sostanza tossiche per l’organismo; che mangiare la carne più di tot volte a settimana, i salumi, non fa bene, ma peggiora la salute del nostro organismo. Nonostante tutti questi dati, ci tappiamo le orecchie e andiamo avanti. Troppo abituati all’idea del “si è sempre fatto così”; del “sono cresciuto così”, del “non è mai morto nessuno”, del “tanto sono solo animali, non sono uomini”, del “è una cosa eccessiva e troppo radicale”, della critica continua, del giudizio continuo. Senza informarsi! Senza avere prove a sostegno della propria opinione, ma solo per parlare, parlare, parlare. Cercare la ragione solo con la parola ma senza il significato. Io non reggo questa contraddizione, questa società in cui mi ritrovo a vivere, in cui tutti vogliono avere ragione, in cui tutti vogliono prevalere. Dove è finito l’ascolto?  Dove è finito l’aiuto reciproco? Nemmeno l’amore esiste più, perché se esistesse, i genitori avrebbero a cuore il futuro dei propri figli, e la loro priorità sarebbe quella di accertarsi che essi possano avere una vita felice, e lunga, e sana. Cosa che, se continuiamo così, non accadrà. Io penso che ci manchi il coraggio e la voglia di cambiare idea e prospettiva. La voglia e il coraggio di mettere al primo posto questo, è la nostra salute! Si dice sempre “la salute prima di tutto”, ma se si guarda ai fatti, sembra una battuta. Nessuno si interessa di tentare di fare del bene, anche se nel suo piccolo. Tutti si sminuiscono troppo, paradossalmente, quando si tratta di fare qualcosa, quando si tratta di agire consapevolmente e, probabilmente, controcorrente. Perché è una minoranza quella che ha coscienza di tutto ciò, e che si impegna, nel suo piccolo, e che si informa. 

A mio parere, se riuscissimo già solo a risolvere il problema della disinformazione, sarebbe una grande vittoria. Rendere tutti, obbligatoriamente, coscienti della situazione della terra, che poi quella della nostra salute, e che quindi dovrebbe essere, come ho già detto, la nostra priorità. Dovrebbe essere la principale preoccupazione dei politici, del governo, dello stato, di chi ci tutela. Immagino come farebbe aprire gli occhi alla comunità e al popolo italiano vedere, per esempio, il documentario che ho appena visto al cinema “Food for Profit”. Dovrebbe essere obbligatorio e no, non lo dico perché sono un’estremista, una pazza, no. Lo dico perché sento dentro di me una rabbia così energica che non posso far altro che cercare modi per buttarla tutta fuori. E sono convinta quando dico che vorrei che tutti sapessero. Perché la verità ora è che pochi, troppo pochi sanno. Non dico di stravolgere la nostra vita: dico che bisogna darsi la possibilità, siccome c’è, di conoscere. L’uomo è fatto di conoscenza, l’uomo è curioso, vuole sapere, solo sapendo si arricchisce, migliora, evolve, cresce. E l’uomo deve in qualche modo recuperare quella consapevolezza vecchia come Socrate, del “so di non sapere”. Deve fare un passo indietro. Deve essere umile. Deve avere il coraggio di mettersi dietro a cose che non conosce. Ammettere che non le conosce. E avere al contempo, quindi, la voglia di conoscere. Lo stimolo. 

Basta questa indifferenza, basta questa ipocrisia del dire “non è normale questo caldo, non è normale che non nevichi”. Se non è normale, perché stiamo fermi? Ce lo facciamo passare sopra senza cambiare nulla, senza pensare di poter fare la differenza. 

Immagino come sarebbe stupendo se, dopo aver preso coscienza dei fatti, smettessimo di comprare quel petto di pollo ultrascontato al supermercato. Se smettessimo, quindi, di finanziare quelle enormi lobby che provocano, da sole, un’enorme parte di inquinamento atmosferico. In quelle fabbriche di morte, che non esagero a paragonare a campi di concentramento per animali, non vi è nulla che giochi a nostro favore. Niente che giovi alla nostra salute fisica, al nostro benessere mentale, alla nostra vista, al nostro olfatto. Alla nostra morale, alla nostra etica. 

Io scrivo queste cose per difendere una e una sola cosa: l’informazione. Non è vero che è meglio non sapere. Bisogna avere il coraggio di guardare negli occhi ciò che ogni giorno finanziamo, contribuiamo a far continuare, consumando prodotti che provengono da allevamenti intensivi. Guardare negli occhi e con gli occhi cosa stiamo facendo. Perché siamo noi, e non è vero che la colpa è di chi ci governa. I soldi li versiamo noi, fino a che continueremo a pagare per far sussistere queste fabbriche enormi, allora saremo nel torto quando diremo “e ma il cambiamento climatico”, “e ma è colpa dei politici che non sanno governare”. 

Scrivo con questa energia e questa rabbia perché CREDO che possiamo ancora cambiare. Se non ci credessi sarei rassegnata e non mi sprecherei a scrivere. Ma siccome sono giovane, sono colma di speranza, di energia, di buona volontà, sono propositiva, io spero. Io combatto, fino a che ho le energie. 

Chi se non noi? Chi se non io? 

Tutti, tutti, tutti possiamo fare la differenza. Se non inizi tu, non inizierà mai nessuno. Ora.

 

Come una ragazza

Ancora oggi, quando chiediamo a qualcuno di “correre come una ragazza” o “battersi come una ragazza”, che si tratti di un uomo, una donna, un bambino o una bambina, spesso la risposta che si ha è caratterizzata da movimenti aggraziati e risatine isteriche. Perché ci hanno insegnato che “è così che fa una ragazza”

Fin da piccoli, infatti, siamo stati abituati ad una differenza abissale quanto concettuale, quella tra maschio e femmina: all’asilo, per esempio, le bambine avevano il grembiulino rosa, con ricamata una ballerina o una principessa, mentre i maschietti grembiulini blu con immagini di supereroi o automobili. Crescendo, poi, ci siamo accorti che, in realtà, anche le ragazze possono guidare un’automobile, e Catwoman e la Vedova Nera ci hanno insegnato che anche le supereroine possono salvare il mondo.

Eppure, con il tempo, fare le cose “come una ragazza” è diventato non solo un modo per caratterizzare il genere femminile, ma anche per sbeffeggiare il genere maschile; perché dire a un uomo di “battersi come una ragazza”, o peggio “come una femminuccia”, significa, nel senso comune, privarlo di quella che pare essere l’unica caratteristica che lo rende davvero forte e rispettabile: l’essere uomo, “maschio”, appunto. 

Questa caratterizzazione negativa del femminile, che va avanti da tempi remoti e di cui già Aristotele scriveva, si insinua nel tessuto della nostra società, e ci porta inconsciamente a categorizzare gli atteggiamenti femminili in maniera superficiale e sessista. Perché, se ci si ferma ad osservare la realtà, una ragazza corre esattamente come un ragazzo: mette in movimento un piede dopo l’altro, attiva gli stessi muscoli; lo fa per sport, per divertirsi, per scappare da situazioni di pericolo. E lo stesso vale per qualunque altra situazione quotidiana. Non esiste un modo di fare da ragazza o da ragazzo, esiste semplicemente un modo di fare da esseri umani. 

Eppure, l’istinto ci porta a pensare ad azioni diverse, con modi e finalità diverse e con diversi livelli di credibilità. Questo istinto non inficia, però, la sola lingua parlata, ma porta a considerare le attività femminili come attività di serie B, e, per osmosi, le ragazze come capaci di svolgere sole attività di serie B. Relegate alla sfera della cura, della gestione della casa, alla sfera dell’emotività e tagliate fuori da quella della forza (fisica, ma anche morale), le donne sono viste come “esseri speciali e aggraziati”, come se la loro umanità non appartenesse alla stessa categoria umana maschile. 

È tempo di uscire da questo schema duale non comunicante, e di aprire gli occhi alla realtà: uscendo di casa, guardando la televisione, leggendo i giornali, non vediamo donne che fanno cose da donne e uomini che fanno cose da uomini, ma uomini e donne che fanno cose da persone umane. Il distinguo sta tutto qui: continuare ad utilizzare la locuzione “come una ragazza” in maniera spregiativa porta ad una più o meno conscia svalutazione del femminile. Essere consci di questo risvolto potrebbe portarci a comparare in maniera molto più realistica gli atteggiamenti femminili e maschili, riconoscendo che fare le cose “come una ragazza”, in effetti, permette di raggiungere i propri obiettivi, superare i propri limiti e andare oltre le differenze, e che, quindi, funziona

Perché non c’è niente di male o svilente nell’essere una ragazza, quindi non dovrebbe esserci alcunché di svilente nemmeno nell’agire “come una ragazza”.

Pace, etica e felicità

La pace ha bisogno di un’umanità intera che ci lavori sopra, per esistere. Si sentono e si leggono persone che dicono che questa guerra è tutta colpa di un dittatore e dei suoi scagnozzi, e che il mondo ha il fiato sospeso pendendo dalle sue labbra. Ma nessuna guerra è mai colpa di una o dieci o venti persone. Chi lo dice dimentica la complessità del meccanismo, e si scorda anche delle scene e delle frasi del processo di Norimberga diventate iconiche e su cui la Arendt scrisse La banalità del male. La guerra esiste perché esistono persone che decidono di fabbricare armi; persone che poi decidono di vendere queste armi; persone che scelgono (molte altre, purtroppo, non scelgono, come in questa guerra) di imbracciare quelle armi. Queste sono le condizioni di possibilità dei conflitti, che rendono realtà ciò che inizialmente era soltanto l’ordine verbale di un presidente o un generale. Sulla guerra in Ucraina Tomaso Montanari ha scritto un bellissimo articolo che potete leggere qui.

La cultura della pace si forma a partire dal basso e dalla quotidianità: richiede un’inversione di rotta nel modo di pensare, perché, come diceva Einstein, i problemi non possono essere risolti con la stessa logica che li ha creati. Occorre sviluppare un pensiero divergente a tutto tondo e creare una nuova Weltanschauung, una nuova visione del mondo. Perché si costruisca la pace, il pensiero dominante non può continuare a incoraggiare la sete per la ricchezza e il potere, così come non è accettabile che si sia aumentata la spesa militare al 2% del PIL mentre quella per l’Università e la ricerca è allo 0.5%. La pace è innanzitutto una condizione interiore caratterizzata dalla tranquillità, ed è forse assimilabile alla beatitudine: accettare ciò che si ha, e cercare di migliorare la propria vita senza danneggiare chi ci sta accanto. Ma la pace è solida anche se c’è un’altra condizione: l’amore per l’etica – questa sconosciuta soffocata dal cinismo capitalista. L’etica quotidiana, quella che ci fa scegliere che cosa comprare, dove, che cosa leggere, come usare il tempo libero: non è una banalità, perché la consapevolezza delle proprie azioni è già responsabilità. Per gli Antichi la vita condotta nella moralità era la maggiore preoccupazione filosofica: si trattava di vivere secondo la legge morale, ricercando la tranquillità e la virtù. Oggi tutto questo è scomparso, e nella nostra cultura non ha più alcuna importanza.

Eppure etica, felicità e pace sono le tre Grazie che danzano insieme. L’unica medicina contro la guerra è educare l’essere umano. Per questo è urgentissimo insegnare ai nostri figli a soddisfare i loro desideri nel rispetto degli altri e ad accettare i limiti dell’esistenza. E, soprattutto, la grande sfida che non è più possibile rimandare è questa: ricercare la felicità prima di ogni altra cosa; la felicità vera, quella che si sposa con l’etica e che genera una solida tranquillità interiore. Questa è la strada vitale che bisogna imboccare per costruire finalmente una cultura della pace.

Guerra e pace: l’Europa come modello di sicurezza?

«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra»

(Dichiarazione Schuman, 9 maggio 1950)

L’Europa ha vissuto gli ultimi settant’anni in una bolla dorata di pace e sviluppo economico: dopo la Seconda Guerra Mondiale, la nascita delle Comunità Europee e poi dell’Unione Europea ha gettato le fondamenta per una comunità di sicurezza i cui attori non considerano più la guerra come uno strumento per risolvere le controversie, ma preferiscono usare la diplomazia e gli accordi per prorogare una convivenza pacifica duratura. Il problema, però, è che questa comunità di sicurezza non è estesa a tutto il mondo, ma le guerre continuano ad esistere e ad uccidere. Sempre più raramente parliamo di tradizionali conflitti tra stati: le nuove guerre, infatti, coinvolgono più attori e, in misura sempre crescente, i civili. 

Come ogni fenomeno improvviso, è difficile rendersi conto della condizione di privilegio in cui si vive finché questo privilegio non viene minacciato: nel momento in cui un conflitto viene a bussare alle porte dell’Europa occidentale, stracciando quel velo fasullo di eguaglianza che copre la trasmutazione di diritti in privilegi, esso ci ricorda di essere cittadini del mondo prima ancora che cittadini d’Europa, un mondo imperfetto e turbolento, che non potremo tenere fuori dalla porta per sempre. 

Il conflitto è una condizione naturale dell’umano: Hobbes parla di uno stato di natura dell’uomo caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti e dalla legge della giungla, per cui solo il più forte, alla fine, vince. Gli uomini, per porre fine a questa condizione sgradevole e pericolosa, hanno dato vita alle società organizzate e agli Stati, ma la componente conflittuale insita nella natura umana ha continuato ad esistere, trasferendosi dall’individuo alla società, e la guerra degli uomini è diventata una guerra tra popoli e stati. 

Come uscire dal loop del conflitto? L’Europa ci ha provato, ma sfidando la base delle relazioni internazionali tradizionali: la centralità dello Stato. Solo mettendo in secondo piano, in primo luogo, l’individuo e in secondo luogo lo stato, cooperando per un bene comune superiore (la pace) si può davvero costruire una comunità di sicurezza capace di eliminare il conflitto. Ma non possiamo di certo dire di aver raggiunto questo livello di stabilità né fuori dall’Europa né, visti i recenti sviluppi, al suo interno. Finché saranno la strategia e la brama egemonica a controllare le relazioni tra gli Stati così come tra le persone, i conflitti non cesseranno di esistere e l’umanità non cesserà di essere in pericolo. 

Riconoscere il fatto che il conflitto non sia sparito con la Seconda Guerra Mondiale, ma esista tuttora in molte parti del mondo e non troppo lontane, è un punto di partenza fondamentale per affrontare davvero in profondità il tema della guerra: dal 30 luglio 2020 al 30 luglio 2021 il nostro Pianeta ha vissuto quasi 100.000 situazioni di conflitto. Lavorare sui motivi dello scontro prima che sui suoi effetti, e dunque sulla natura umana in quanto tale e sulla natura degli Stati nazione, potenziare il progetto dell’Unione Europea e proiettarlo sull’intero sistema internazionale, potrebbe essere l’origine di un nuovo Leviatano, radicato nella pace e nella cooperazione, un “Leviatano di sicurezza”. 

 

Filo d’erba

«Ma ti rendi conto di quanto è bello? Che non porti il peso del mondo sulle spalle, che sei soltanto un filo d’erba in un prato. Non ti senti più leggero? […] C’era qualcosa di incredibilmente rasserenante nell’essere solo un filo d’erba, che non faceva la differenza per nessuno, che non aveva la responsabilità di tutti i mali del mondo».  (Strappare lungo i bordi, Zerocalcare)

Parole che toccano il cuore e arrivano a colpire la sensibilità di ciascuno di noi, che viviamo in una società dove l’apparenza è diventata la nuova divinità a cui consacrare tutto, anche il proprio sentire, anche i propri limiti costitutivi. L’ansia da prestazione coinvolge tutti, come se la possibilità di una vita tranquilla fosse irrimediabilmente perduta. Eppure il modello occidentale e capitalista non è l’unico possibile; se la pensiamo così, siamo sbandieratori di TINA (There is no alternative). Liberi di esserlo, ma, per le persone che su questo pianeta devono rimanerci (si spera) ancora una cinquantina di anni almeno, pensare che non ci sia possibilità di cambiamento diventa decisamente opprimente.

Non mi riferisco a un cambiamento mondiale, che, per quanto auspicabile, non dipende totalmente dalle scelte di fili d’erba, quali noi siamo. Parlo di un cambiamento personale, con cui imparare a staccarsi un po’ dal mondo che ci circonda e ci obbliga a vivere in modi che a volte non ci fanno stare bene. La carriera è importante, soprattutto per il successo personale ed economico che ne deriva. Ma non tutti sono fatti per arrivare al successo: ci sono persone che non ce la fanno a sostenere certi ritmi di vita; che arriverebbero al successo, in un mondo più lento, ma non in questo. Certo, imparare a superare i propri limiti è occasione di crescita e di scoperta di sé. Ma forse lo è anche imparare a conviverci, con quei limiti. Imparare a guardarli con amore, anziché con aria di sfida; ad accettarli, anziché nasconderli. Perché ciò che davvero riempie la vita non è la dimostrazione data agli altri, ma la pace con se stessi, che deriva dalla constatazione che dopotutto siamo solo un filo d’erba in un prato, che deve fare bene la sua parte, ma da cui non dipende totalmente la bellezza dell’intera radura.

Qualcuno dice che quando moriremo Dio ci farà solo due domande: la prima, «sei stato felice nella tua vita?». La seconda, «hai reso felice qualcuno?». Non ci sarà chiesto se abbiamo reso felici due, cinque o venti persone, no. Una persona: è sufficiente una. La prima domanda di Dio è se siamo stati felici noi, non importa con quali mezzi, se con il lavoro, l’amore o lo studio; ciò che conta è il risultato: sei felice? Questa è La Domanda dell’esistenza, è il punto interrogativo per cui siamo vivi. E sarebbe bellissimo se alla fine del nostro percorso sulle strade del mondo potessimo rispondere di sì, che siamo stati felici. Anche se non siamo stati una quercia maestosa e solitaria nel bel mezzo della foresta, anche se per tutta la vita ci siamo accontentati. Anche se siamo stati un filo d’erba.

La FOMO: il turbamento del XXI secolo

Stare al passo è diventato difficile, quasi impossibile. Ma stare al passo di che cosa? 

L’offerta di prodotti culturali considerati imperdibili continua a crescere, e, allo stesso tempo, non sembra mai abbastanza. Il continuo aggiornamento di blog, piattaforme streaming e canali Youtube genera, soprattutto nella popolazione giovane, un fenomeno nuovo quanto diffuso. Se prima la FOMO (acronimo dell’inglese Fear Of Missing Out, paura di essere tagliati fuori) caratterizzava per lo più l’ansia di perdersi eventi fisici e prime esperienze, adesso, in un mondo in cui le informazioni viaggiano alla velocità della luce e la proposta culturale si arricchisce continuamente, sovrapponendosi ai grandi classici del passato, il tempo libero si trasforma anch’esso in una corsa per non restare indietro.
Sul piano scientifico la FOMO risulta essere composta da due elementi: l’ansia relativa alla possibilità che gli altri possano avere esperienze piacevoli e gratificanti a noi precluse, e il desiderio persistente di essere “sul pezzo”. È proprio attraverso i social, infatti, che le informazioni, le novità e gli “eventi imperdibili” si diffondono, generando negli utenti un’ansia da prestazione tale da raggiungere livelli di stress che mai avevano oltrepassato i confini del tempio inviolabile dell’otium, dello svago. Ma la corsa alla conoscenza, all’aggiornamento e all’ultima novità è una corsa che una volta iniziata non si ferma, e che soprattutto si diffonde a tutti gli strati della società e a tutti i livelli di complessità.
Un esempio concreto: un tempo la mia ansia più grande era legata al fatto che nel corso della vita non sarei mai riuscita a leggere abbastanza libri. Ogni volta che ne iniziavo uno, puntualmente ne usciva uno nuovo, e la mia corsa nel tentativo di completare la lettura di una serie di classici, dell’intera letteratura di un autore o, banalmente, del maggior numero di manuali utili alla mia formazione e al mio ambito di interesse, assumeva sempre più l’aspetto di una maratona infinita.
Con l’età la mia FOMO è cresciuta proporzionalmente ai miei interessi, e allo stesso tempo l’avvento di piattaforme di streaming, pagine social di informazione, podcast e divulgatori, ha creato davvero un oceano di possibilità, in cui, però, spesso, sento di non saper nuotare. 

Non mi stupisce, quindi, che i giovani di oggi siano sempre più stressati: se un tempo l’unico modo di rimanere informati era comprare il giornale o guardare quei tre telegiornali trasmessi al giorno, oggi le newsletter offrono informazione quotidiana continua, così come i podcast e le pagine web. Se fino a qualche anno fa le serie tv uscivano con una puntata alla settimana, oggi vengono caricate online tutte insieme, creando una corsa infinita a chi le finisce per primo, terrorizzato dagli spoiler o dal rimanere escluso dalle congetture sull’ultima puntata di Squid Game
È una corsa all’oro, in cui si rischia di rimanere indietro anche correndo veloci come Bolt, e l’unico modo per poter rimanere umani in una rincorsa all’ultima news, all’ultimo evento e all’ultimo album di Kanye West è abbassare le aspettative: la scelta aumenterà sempre, le serie tv e i film si moltiplicheranno, i podcast “da non perdere” diventeranno sempre più numerosi e scegliere un libro tra i mille best seller sarà sempre più difficile. Ma è anche vero che mentre le attività di intrattenimento e di informazione aumenteranno, e la nostra paura di rimanere tagliati fuori diventerà ordinaria amministrazione, noi continueremo ad essere umani e in quanto tali continueremo ad essere razionali, sì, ma anche passionali, e dunque tutti diversi.
L’aumento di domanda e offerta di intrattenimento, quindi, non deve spaventarci, ma al massimo stupirci: il fatto che oggi chiunque, indipendentemente da età, livello di formazione, interessi e priorità possa trovare qualcosa che faccia per lui su una qualsiasi piattaforma online, o semplicemente aprendo una pagina di Google, deve e può generare molto più che semplice disorientamento: viviamo nel secolo delle infinite possibilità, e solo se sapremo coglierle senza farci sopraffare potremo davvero continuare a crescere.

Dunque, accettare di non essere superuomini, ma semplicemente uomini e donne, è fondamentale per vivere serenamente il secolo della FOMO, accettandone i limiti ma soprattutto l’illimitatezza, perché forse è proprio per questo tendere verso l’infinito senza mai raggiungerlo che siamo stati creati (o almeno, così direbbe Fichte). 

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