«Ma ti rendi conto di quanto è bello? Che non porti il peso del mondo sulle spalle, che sei soltanto un filo d’erba in un prato. Non ti senti più leggero? […] C’era qualcosa di incredibilmente rasserenante nell’essere solo un filo d’erba, che non faceva la differenza per nessuno, che non aveva la responsabilità di tutti i mali del mondo».  (Strappare lungo i bordi, Zerocalcare)

Parole che toccano il cuore e arrivano a colpire la sensibilità di ciascuno di noi, che viviamo in una società dove l’apparenza è diventata la nuova divinità a cui consacrare tutto, anche il proprio sentire, anche i propri limiti costitutivi. L’ansia da prestazione coinvolge tutti, come se la possibilità di una vita tranquilla fosse irrimediabilmente perduta. Eppure il modello occidentale e capitalista non è l’unico possibile; se la pensiamo così, siamo sbandieratori di TINA (There is no alternative). Liberi di esserlo, ma, per le persone che su questo pianeta devono rimanerci (si spera) ancora una cinquantina di anni almeno, pensare che non ci sia possibilità di cambiamento diventa decisamente opprimente.

Non mi riferisco a un cambiamento mondiale, che, per quanto auspicabile, non dipende totalmente dalle scelte di fili d’erba, quali noi siamo. Parlo di un cambiamento personale, con cui imparare a staccarsi un po’ dal mondo che ci circonda e ci obbliga a vivere in modi che a volte non ci fanno stare bene. La carriera è importante, soprattutto per il successo personale ed economico che ne deriva. Ma non tutti sono fatti per arrivare al successo: ci sono persone che non ce la fanno a sostenere certi ritmi di vita; che arriverebbero al successo, in un mondo più lento, ma non in questo. Certo, imparare a superare i propri limiti è occasione di crescita e di scoperta di sé. Ma forse lo è anche imparare a conviverci, con quei limiti. Imparare a guardarli con amore, anziché con aria di sfida; ad accettarli, anziché nasconderli. Perché ciò che davvero riempie la vita non è la dimostrazione data agli altri, ma la pace con se stessi, che deriva dalla constatazione che dopotutto siamo solo un filo d’erba in un prato, che deve fare bene la sua parte, ma da cui non dipende totalmente la bellezza dell’intera radura.

Qualcuno dice che quando moriremo Dio ci farà solo due domande: la prima, «sei stato felice nella tua vita?». La seconda, «hai reso felice qualcuno?». Non ci sarà chiesto se abbiamo reso felici due, cinque o venti persone, no. Una persona: è sufficiente una. La prima domanda di Dio è se siamo stati felici noi, non importa con quali mezzi, se con il lavoro, l’amore o lo studio; ciò che conta è il risultato: sei felice? Questa è La Domanda dell’esistenza, è il punto interrogativo per cui siamo vivi. E sarebbe bellissimo se alla fine del nostro percorso sulle strade del mondo potessimo rispondere di sì, che siamo stati felici. Anche se non siamo stati una quercia maestosa e solitaria nel bel mezzo della foresta, anche se per tutta la vita ci siamo accontentati. Anche se siamo stati un filo d’erba.