La libertà delle donne nell’antichità

Spesso quando si parla di violenze sulle donne ci si riferisce spesso al Medioevo o a periodi ancora più antichi della storia. Tuttavia siamo sicuri che tali riferimenti siano corretti?

 

La libertà delle donne nell’antichità ha subito alti e bassi. Per esempio nell’Antico Egitto le donne erano considerate pari agli uomini. Infatti, come ci descrive Erodoto nelle sue “Storie”, spesso le donne gestivano il commercio e ogni altro lavoro alla pari degli uomini. Inoltre non è sconosciuto il fatto che l’Egitto sia stato governato per almeno due volte da due donne. La prima fu Hatshepsut, nel 1500 a.C. circa, che regnò al posto del marito e del di lui figlio Thutmose III. Durante il suo regno l’Egitto riuscí a ricreare le alleanze danneggiate durante il periodo Hyksos. La seconda e più celebre, anche se greca e non egiziana, fu Cleopatra, che rese l’Egitto alleato di Roma, proteggendolo così dalle campagne espansionistiche romane.

 

In Grecia la libertà delle donne variava invece in base alle poleis. Per esempio nella democratica Atene le donne erano confinate in casa ai lavori domestici e all’educazione dei figli. Le uniche occasioni per cui potevano uscire di casa erano le feste religiose o per recarsi nell’agorà, ma solo accompagnate dagli eunuchi o dalle guardie del corpo. Al contrario a Sparta le donne potevano allenarsi nella corsa, nella lotta e nel lancio del disco e del giavellotto. Ciò fu reso obbligatorio dalla legislazione di Licurgo.

 

La donna romana invece si vide concedere e privare diverse libertà nel corso della storia. Infatti, se nella Roma repubblicana la condizione femminile era pari a quella delle donne ateniesi, la situazione cambia durante l’età imperiale, soprattutto sotto l’imperatore Marco Ulpio Nerva Traiano. Infatti egli concesse alle donne piena indipendenza economica sia dal padre che dal marito. Ciò permise alle donne di autogestire le proprie finanze e di divorziare a piacimento dai mariti e divorziare divenne così comune che pare ci fossero donne che si erano risposate otto volte nel giro di tre mesi.

 

In conclusione possiamo affermare che non sempre le donne nell’antichità erano recluse in casa e considerate come oggetti, ma a volte erano considerate pari agli uomini. Per cui non è detto che il passato sia sempre peggiore del presente.



Il conflitto tra Israele e Palestina

All’alba di sabato 7 ottobre un’offensiva via terra, aria e mare è partita dalla striscia di Gaza contro lo stato ebraico. E’ l’inizio di una guerra. Ma come siamo arrivati fin qui? Dove e quando nasce la tensione tra Palestina e Israele? 

Per capire l’origine del conflitto israelo-palestinese bisogna andare indietro alla fine del XIX sec. quando, sulla spinta dei nazionalismi europei e in risposta all’acuirsi dell’antisemitismo, il giornalista austriaco Theodor Hertz elaborò l’ideologia del sionismo, movimento politico che rivendicava l’autodeterminazione del popolo ebraico ipotizzando la Palestina e l’Argentina come possibili destinazioni per l’insediamento dei coloni. 

Fu la connessione culturale con Gerusalemme che spinse il movimento sionista ad optare per la Palestina, all’epoca definita come l’area geografica delimitata ad ovest dal Mar Mediterraneo e a est dal fiume Giordano. Anche se la migrazione di ebrei europei verso questo territorio era cominciata già alla fine dell’ottocento, il fenomeno divenne più consistente con la fine della prima guerra mondiale dopo che gli inglesi riuscirono a sottrarlo all’Impero Ottomano

Le rivendicazioni del movimento sionista trassero forza dalla dichiarazione Balfour, una lettera che nel 1917 il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour scrisse a Lord Lionel Walter Rothschild, sionista e membro di spicco della comunità ebraica inglese, nella quale il governo di sua maestà affermava il suo supporto alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Alla fine del conflitto i paesi vincitori si spartirono le province arabe dell’Impero Ottomano alla conferenza di Sanremo del 1920. Il territorio della Palestina insieme a quello dell’attuale Iraq e Giordania furono affidati alla Gran Bretagna, mentre Siria e Libano passarono sotto il controllo della Francia

La presenza di Londra e Parigi fu poi istituzionalizzata dalla società delle nazioni, nucleo di quelle che saranno le Nazioni Unite con la creazione dei mandati. Si trattava di un sistema in cui le potenze coloniali si impegnavano ad amministrare questi territori e accompagnarli nel percorso verso l’indipendenza. Il conferimento del mandato della Palestina alla Gran Bretagna, potenza che aveva dichiarato pubblicamente di voler facilitare l’immigrazione degli ebrei europei in quel territorio, fu mal accolta dalla popolazione locale. Gli anni del mandato furono segnati dallo scoppio di regolari moti di protesta spesso caratterizzati  da episodi  di violenza contro gli inglesi e la comunità ebraica. L’affluire continuo di nuovi migranti cambiò l’assetto demografico della Palestina.

Dopo il secondo conflitto mondiale Londra decise di rimettere il mandato alle Nazioni Unite che intanto avevano sostituito la società delle nazioni e di lasciare loro la decisione sul futuro della regione. 

Nel novembre del 1947 l’assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181 che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico, e che affidava a Gerusalemme una giurisdizione internazionale. Questa soluzione fu accolta positivamente dalla comunità ebraica ma rigettata da quella araba che dopo essersi opposta per anni all’immigrazione di massa degli ebrei europei, rifiutava la possibilità che questi ottenessero uno stato indipendente. A quel punto le relazioni tra ebrei e arabi degenerarono, sfociando prima in guerriglia e poi, con la fine del mandato e la partenza degli inglesi, in un vero conflitto armato. Il 15 maggio 1948 a seguito della dichiarazione d’indipendenza dello stato di Israele gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq decisero di attaccare dando via alla prima guerra arabo-israeliana. 

Al termine del conflitto, che si risolse nel 1949 con la sconfitta degli eserciti arabi, i confini del neonato stato di Israele comprendevano il 78% del territorio della Palestina mandataria. Rimanevano fuori dal suo controllo la Cisgiordania e la cosiddetta striscia di Gaza occupata rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto. Durante il conflitto circa 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case in parte per paura della guerra e in parte perché minacciate dall’esercito israeliano. 

Nei tre decenni successivi i rapporti tra Israele e gli stati arabi rimasero conflittuali e seguirono altre guerre, la più importante di queste è sicuramente quella del 1967 ribattezzata guerra dei sei giorni. Nell’arco di meno di una settimana l’esercito israeliano riuscì a sconfiggere quelli dell’Egitto, Giordania e Siria. Questa vittoria permise a Israele di occupare nuovi territori: la striscia di Gaza e la Cisgiordania, inclusa quella parte di Gerusalemme, la parte ad est, che era stata controllata fino ad allora dai Giordani. La sconfitta degli eserciti arabi spinse i Palestinesi verso un maggiore attivismo politico. 

Tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘80 si assistette all’ascesa di gruppi e partiti palestinesi, che con mezzi politici e militari, cercavano di dare risposta alle proprie aspirazioni nazionali. Negli anni ‘60 la maggior parte di questi gruppi confluì nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una struttura che voleva rappresentare un cappello politico per partiti e gruppi armati palestinesi attivi nei territori e nella diaspora. L’OLP divenne il principale megafono delle istanze palestinesi nel mondo. Nel 1982 i quadri dell’organizzazione furono costretti ad abbandonare il Libano, una delle principali destinazioni per i profughi palestinesi che sarà dilaniato dalla guerra civile proprio in quel decennio. L’OLP trovò asilo in Tunisia ma questa era troppo distante dai territori su cui operava e ciò segnò il declino dell’organizzazione. 

Esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie aspirazioni nazionali nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania iniziarono una serie di proteste contro l’occupazione israeliana. Questi atti assunsero ben presto la forma di una vera e propria sollevazione popolare, la prima intifada, che si protrasse fino al 1993 e che portò la morte a più di 1900 palestinesi e 200 israeliani. 

In questi anni di scontri nacque il movimento della resistenza islamica Hamas, acronimo di “movimento di resistenza islamica”. E’ un’organizzazione politica e militare nata da una costola della fratellanza musulmana, una delle più importanti organizzazioni terroristiche islamiche. E’ negli anni dell’intifada che le posizioni della leadership palestinese e israeliana si avvicinarono per la prima volta. Tra il 1993 e il 1995 vennero siglati gli accordi di Oslo che sulla base della soluzione a due stati avrebbero dovuto rappresentare il primo passo verso la costruzione di uno stato palestinese indipendente. Con questi accordi si divide il territorio palestinese in tre aeree e si crea un’amministrazione autonoma: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). 

L’ascesa al governo di Netanyahu finì per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli accordi e di conseguenza assestare un duro colpo al processo di pace. Nel 2000 scoppiò la seconda intifada, molto più violenta della prima, che portò alla morte di quasi 5000 palestinesi e più di 1000 israeliani. Nel 2002, nel pieno della sollevazione popolare palestinese, Israele cominciò la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania. L’obiettivo dichiarato era quello di controllare gli spostamenti per evitare attacchi terroristici. Il tracciato del muro però non rispettava la linea verde stabilita nel 1949, discostandosi in alcuni casi di decine di chilometri. Da allora la situazione nei territori palestinesi non ha fatto che peggiorare. Israele continua a mantenere una consistente presenza militare in Cisgiordania dove negli ultimi venti anni ha anche accelerato la sua politica di espansione delle colonie, città e insediamenti israeliani in territori palestinesi ritenuti illegali dalle comunità nazionali.

Rimane da approfondire la striscia di Gaza. Dal 1967 al 2005 anche questa zona è stata occupata militarmente da Israele. Dopo il ritiro israeliano, nel 2007, Hamas ha preso il controllo della striscia e da allora Israele ha continuato a operare un blocco, la chiusura quasi totale dei valichi di frontiere e degli accessi via mare e aerea. 

Oggi a Gaza l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari e il tasso di disoccupazione sfiora il 50%.

 

 

Europae Historia

Per ricercare le ragioni storiche e politiche di tutto quello che sta succedendo in Europa in questi mesi è necessario fare un salto nel passato, precisamente nel 1648, l’anno che vide finire la Guerra dei Trent’anni con la Pace di Westfalia. Questa pace è il punto d’inizio nell’Europa dello Stato Assoluto propriamente detto. Caratterizzato dal reciproco riconoscimento di autorità sovrane e indipendenti. Gli avvenimenti che ne seguirono non fecero altro che accentuare l’ordine che andava a stabilirsi. Le continue guerre che dal 1700 coinvolsero le monarchie europee ebbero il loro apice durante l’età napoleonica e rivoluzionaria d’inizio ‘800, che sconvolse gli scacchieri politici a tal punto da dover procedere ad una restaurazione dell’ordine westfaliano, da parte delle potenze vincitrici, durante il Congresso di Vienna nel 1815.
Gli anni intorno alla metà del ‘800 videro lo sgretolarsi delle monarchie assolute a favore di un numero sempre maggiore di concessioni politiche da parte dei sovrani nei confronti dei popoli nazionali. Sono gli anni delle costituzioni ottriate, ovvero concesse dai monarchi, in cambio dell’ordine civile e della fine delle rivolte. Questi processi contribuirono alla progressiva democratizzazione degli ordinamenti statali ma anche alla nascita degli stati liberali che basarono la loro epica sull’Ethos nazionale e sulla sovranità del popolo contro chiunque la rinchiudesse. Spalancando così la strada a un sempre meno stabile equilibrio internazionale, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, che vide la vera e propria dissoluzione del vecchio ordine a favore dei nazionalismi e di un progressivo americano-centrismo europeo.
Gli anni tumultuosi del primo dopoguerra furono colmi di rancori e rese dei conti, per mezzo dei quali i vincitori vollero per un’altra volta tacitare l’impulso nazionalista, questa volta germanico, che sommato alla crisi economica del ’29 vide l’esplosione del Nazional Socialismo. Il nostro continente ripiombò ancora una volta nel marasma della guerra. Un altro conflitto mondiale, un’altra pace. Ma non era ancora finita.
Con la guerra fredda si spalancò per l’Europa la possibilità di crescere, ma purtroppo ancora nella divisione. Da una parte le democrazie occidentali, capitanate dallo Zio Sam, sostenute dal poderoso Piano Marshall, dall’altra il blocco sovietico dell’URSS capeggiato dalla Madre Russia, sospinto dal socialismo. Ed è in quegli anni che si vide il manifestarsi della volontà degli stati europei di creare una comunità che si ponesse nella condizione di assicurare la pace per le generazioni a venire. L’incubo della guerra passata era fresco nella memoria della gente, mentre la prospettiva di un nuovo conflitto nucleare era perlomeno terrorizzante. Così si rispolverarono le idee europeiste di forse uno dei pensatori più illuminati della storia, Altiero Spinelli. Però con riserve, in modo da non scontentare le nuove compagini politiche che difendevano l’orgoglio nazionale e l’autorità dei singoli stati. Ormai la macchina europea era in moto e bisognava farla funzionare a tutti i costi. Falliti i primi tentativi di portare alla luce una costituzione sovranazionale e la creazione di un esercito comune, si procedette nel senso che faceva più comodo a tutti. Si fece uso del funzionalismo, il procedere a piccoli passi. Si partì dall’istituzione di un’unione doganale-economica con la nascita della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Insomma, si crearono le basi della Comunità Europea su quelle due cose che in quegli anni erano negli interessi di tutti: il carbone e l’acciaio. Finito il mero interesse verso questi due materiali si iniziarono a porre le basi di quelle istituzioni che oggi conosciamo come il Mercato Unico, la BCE e l’insieme degli istituti finanziari europei. Furono gli anni della CEE, la Comunità Economica Europea.
La creazione degli Stati Uniti d’Europa è stata così difficile perché nel corso della loro storia i popoli che abitano gli stati europei hanno dovuto guadagnarsi la propria sovranità, se la sono dovuta prendere con le unghie e con i denti. Guardiamo per esempio alla rivoluzione francese, o a tutti i moti di democratizzazione. Sono immagini molto vivide, che rappresentano la volontà del popolo di non volersi far sottomettere da nessuno. E sono numerosi gli esempi di questo genere anche nell’area est-europea dopo la fine del socialismo sovietico.
Per non parlare della troppa differenza di ordinamenti, usi e costumi tra gli stati. Una realtà federale, o confederale, ha bisogno che tra gli attori che ne prendono parte ci sia una parziale somiglianza istituzionale, e gli Stati Uniti ne sono un esempio. Nel Vecchio Mondo abbiamo addirittura approcci al diritto diversi: si va da un diritto pregno della tradizione germanica nel centro Europa, ad uno di ispirazione greco-latina in Spagna, Portogallo, Italia, Francia e Grecia o ancora al Common Law anglosassone.
Per concludere, una piccola esegesi sull’idea di Europa. A crearla sono stati perlopiù i grandi intellettuali e filosofi greci; tra questi Isocrate, che identificava l’Europa con il mondo greco, mentre successivamente Aristotele la elevò a patria del libero pensiero politico in contrasto con il mondo asiatico-dispotico della civiltà persiana. Enea Silvio Piccolomini nel XV secolo usa il termine Europa ponendo l’accento sulla civiltà sorta in seno alle tradizioni greco-romane, mentre Niccolò Machiavelli utilizzerà sovente nei suoi scritti l’espressione «europeo». Ma forse la persona che per prima ci dà un’immagine costruita del continente europeo è Voltaire. Nei suoi scritti la immagina come «una specie di grande repubblica divisa in vari Stati, gli uni monarchici, gli altri misti, gli uni aristocratici, gli altri popolari, ma tutti collegati gli uni con gli altri, tutti con eguale fondamento religioso, anche se divisi in varie sette, tutti con gli stessi principi di diritto pubblico e di politica, sconosciuti nelle altre parti del mondo». Nonostante le spinte idealiste di questi personaggi, è pur vero che la terra d’Europa è stata quasi sempre teatro di scontri e tensioni. Pochi terreni sul nostro pianeta hanno visto più guerre del suolo europeo. Ma oltre agli ideali che fanno da sfondo, la storia è la somma delle nostre piccole azioni individuali, che sono in realtà reazioni agli stimoli che riceviamo dal mondo esterno. E gli eventi a cui stiamo assistendo nient’altro sono che la somma di questi stimoli. Il rifiuto delle persone comuni ed europee al “politically correct”, a tutto ciò che è alta politica o semplice dialogo pacifico nasce dal fatto che durante la crisi, che imperversa dal 2008, l’Unione non è riuscita a fare gli interessi di tutte le classi sociali, allontanandosi le simpatie dei popoli con delle politiche che non sono state viste come il frutto di un processo comunitario, ma come imposte dall’alto da chicchessia. Stiamo assistendo alla sconfitta del sistema intellettualistico come lo abbiamo sempre conosciuto, il quale non fa più presa sulla coscienza collettiva. Perché non è riuscito a creare un collegamento tra le decisioni delle istituzioni europee e la vita quotidiana delle persone. La storia ci insegna che solo dalle sconfitte si possono apprendere le più grandi lezioni di vita. E da questa sconfitta abbiamo il dovere di guardare al futuro con speranza, per tre ragioni.
La prima è che non tutto quello che è stato fatto in passato è da buttare, anzi l’Europa non ha mai vissuto un così lungo periodo di pace tra le nazioni come in questi decenni.
La seconda è che il dialogo politico è importante per disinnescare le escalation che portano ai conflitti, dal momento che l’economia non riesce a svolgere appieno questo compito di comunicazione, forse perché molto legata agli interessi individuali e all’arricchimento personale.
La terza, e forse la più importate, sta nel significato della parola misericordia, che è per definizione sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare, a non infierire. La nostra generazione dovrà farsi carico di questa nobile virtù per traghettare questa vecchia terra tra le acque minacciose che l’epoca contemporanea ci pone davanti. Andrà fatto con coraggio, avendo ben presente gli innumerevoli insegnamenti storici che, profetici, ci mostrano cosa può davvero ritornare a essere il mondo europeo senza la fraternità che solo la misericordia può creare.

Giuliano l’Apostata: ritorno al politeismo

Lo Zeitgeist è lo spirito culturale predominante di una determinata epoca, ed esso si riflette nella letteratura, nella filosofia, nelle arti e nella religione. Nella breve storia degli uomini sulla terra, la trasformazione dell’Impero Romano da potenza politeista a forza cristiana ne segna uno spartiacque non indifferente, che deve essere analizzato.

In questo articolo seguiremo però la vicenda di un uomo che si erse e tentò di contrastare lo spirito del tempo, contro un mondo antico che virava verso il monoteismo della religione cristiana. Quest’uomo fu Flavio Claudio Giuliano, o Giuliano l’Apostata. Fu l’ultimo imperatore pagano e tentò senza successo di restaurare la vecchia religione romana. I cristiani in ogni epoca lo additarono come persecutore, ma nel suo regno non vi fu nessuna grande persecuzione, e venne praticata la tolleranza nei confronti di tutte le religioni, compresi il cristianesimo e l’ebraismo. Al punto che si preparò anche un progetto per la ricostruzione del Tempio distrutto di Gerusalemme, secondo un preciso programma di rafforzamento dei culti locali originari. Ma non finì qui la sua opera, a livello di riforme sociali combatté contro la burocratizzazione dell’impero garantendo una buona amministrazione delle città italiane e europee.

In ogni caso l’astio dei cristiani nei suoi confronti è dovuto ad una serie di trattati filosofici che scrisse con chiara ispirazione neoplatonica. In essi giudicava gli ambienti più intransigenti del cristianesimo, i quali volevano la soppressione dei vecchi culti, forti di quella che loro riportavano come “vera rivelazione”. Giuliano dal canto suo sosteneva che l’unità dell’impero non stava nell’unità spirituale, ma nella libertà dei sudditi di scegliere il proprio personale culto di appartenenza. Solo attraverso la convivenza si poteva creare una società ricca e fiorente.

La restaurazione in questo senso non era più vista come un’imposizione, uno screditare i culti monoteistici, ma come un tentativo di dar loro una dimensione pluralista, collaborativa. Come riportato dal cattolico Bidez, ciò che distingue Giuliano e lo rende un grande personaggio non sono le sue idee e le sue imprese, ma l’intelligenza e il carattere. Fu ardito ed entusiasta della sua fede e, seguendo i comandamenti di Mithra, richiese a se stesso coraggio, purezza ed ebbe per gli altri senso di giustizia e fraternità.

La nobiltà della moralità di Giuliano era degna del massimo rispetto, ma il suo tentativo di riforma religiosa fallì, al di là del poco tempo che gli fu concesso per attuarla, perché soltanto il cristianesimo sapeva ormai veicolare le paure degli abitanti dell’Impero e dargli un senso, un nome.  Il suo tentativo di riforma religiosa non deve però essere considerato il sogno reazionario di un intellettuale innamorato della cultura antica. Era piuttosto la convinzione di un politico per il quale la paideía classica era il cemento dell’unità e della prosperità dell’Impero.

Questa concezione è espressa nel Contro il cinico Eraclio, nel quale era stato Zeus stesso di fronte al disastro dei suoi immediati predecessori, ad affidargli la missione della restaurazione dello Stato. Così come il Genius Publicus gli aveva rivelato a Lutezia, l’antica Parigi, che il suo era un mandato divino. E che, in quanto tale, lo rendeva un teocrate, un ponte tra divino e umano, molto simile ad un papa cristiano, la cui opera ed esistenza potevano garantire la salvezza della grande società romana.

Lutero, Calvino e le radici del capitalismo

Martin Lutero è uno di quei personaggi che scavalcano i confini temporali della storia, la trasformano e la plasmano con la loro fama ed opera da giganti. Era dagli anni del Grande Scisma d’Oriente  (anno 1054) che l’Europa non subiva un terremoto ideologico così grande. Ma precisamente in Germania, nell’anno del signore 1517, il giovane agostiniano ruppe i rapporti con la chiesa cattolica appendendo, anche se ciò non è sicuro, 95 tesi alla porta della Schlosskirche di Wittenberg, piccola città della Sassonia-Anhalt. Nella sua dottrina, riprendendo le parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai romani “tutti infatti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, essendo giustificati gratuitamente per la sua grazia”, si poneva a sostegno della salvezza dell’anima per sola fede, e quindi in disaccordo con il sistema delle indulgenze largamente diffuso in quell’epoca. Esso, riprendendo l’idea che ci si potesse salvare anche attraverso le opere,  garantiva la salvezza attraverso laute oblazioni al soglio petrino. Queste tra le altre cose permisero a papa Giulio II di portare a termine i lavori della nuova cattedrale di San Pietro.

In ogni caso, evitando di entrare nel merito della veridicità delle conclusioni di Lutero, limitiamoci a guardare il suo operato in chiave storica. Ciò che ha portato a termine è stata una vera e propria rivoluzione negli equilibri geopolitici europei. Da quegli anni in poi il vecchio mondo avrà due anime molto distinte, una che continuerà a ruotare attorno al vescovo di Roma, mentre l’altra andrà per la sua strada aprendo le porte a una miriade di chiese riformate e confessioni differenti, quali calvinismo e l’anabattismo. La reazione cattolica si incarnò in un concilio, quello di Trento, che durato 18 anni tra il 1545 al 1563, diede la forma alla chiesa come la conosciamo oggi. In seguito fu un susseguirsi di scontri, conversioni forzate, processi e spartizioni delle zone di influenza. Per tutti i secoli successivi si approfondì sempre di più la frattura che si era creata agli inizi del ‘500 e i due mondi si arroccarono sempre di più su se stessi. I vari stati ed imperi si polarizzarono nelle rispettive confessioni e le tensioni esplosero nella Guerra dei Trent’anni. Tra il 1618 e il 1648, essa vide gli stati cattolici e gli stati protestanti dare inizio ad un conflitto che sconvolse il continente europeo, culminando nella Pace di Vestfalia, che diede origine agli stati nazionali moderni.

La religione luterana aveva dichiarato che le buone opere per essere salvati erano inutili e che l’onnipotenza divina rendeva giusto e giustificava, a condizione di avere fede, chi era ingiusto per natura. La mediazione della chiesa tra il fedele e Dio, presente nel cristianesimo cattolico, nel luteranesimo era cancellata. Ogni credente era sacerdote di sé stesso. Nessun uomo, sosteneva Lutero, con le sue corte braccia può pensare di arrivare fino a Dio. Questa condizione però poteva portare ad un’assoluta disperazione. Quanto più il fedele infatti viveva approfonditamente la sua fede, tanto più il dubbio si insinuava sulla sua sorte nell’aldilà. Con Giovanni Calvino e la sua formulazione del calvinismo arrivò una soluzione. Con la teoria della predestinazione il segno della grazia divina diventava visibile e sicuro: era la ricchezza, il benessere generato dal lavoro. Anzi il lavoro in sé acquistava il valore di una vocazione religiosa. Partendo da queste considerazioni, il padre della sociologia Max Weber asserì che questa propensione al vedere nella ricchezza e nella fortuna in vita il metro di giudizio di Dio, servì da impulso sociale per la nascita delle prime esperienze capitalistiche. Che nascono dalla propensione del capitalista ad accumulare surplus economico, quindi ricchezza, ottenuto attraverso la produzione e la vendita di beni e servizi. Non a caso queste esperienze si sono incarnate per prime nei paesi dell’Europa del nord a matrice protestante e calvinista (che sono attualmente i più ricchi). Ma tutto questo Martin Lutero, l’ex agostiniano diventato il padre dell’incredibile rivolta cristiana all’infallibilità papale, non poteva prevederlo.

Tamerlano

Devoto musulmano e portatore dell’ortodossia sunnita, Tamerlano fu forse il peggiore incubo del mondo islamico che contribuì a mettere in crisi e a indebolire. Lo storico arabo Ibn Arabash gli dedicò, poco dopo la sua morte, le seguenti parole. “Egli passò nella maledizione di Dio, e fu precipitato nei più crudeli e più raffinati tormenti dell’inferno. Dio onnipossente, per la sua misericordia, liberò gli uomini da questa crudele schiavitù, e levò via dal mondo l’ultimo dei tiranni”. Fondatore di uno dei più vasti imperi della storia non si dedicò mai all’amministrazione delle sue conquiste, limitandosi a sfruttare i popoli assoggettati per semplici bisogni di guerra. Con il venir meno della sua personalità, infatti, l’immenso territorio da lui conquistato si disgregò nel giro di pochissimo tempo. Tamerlano tuttavia fu un mecenate illuminato ed ebbe nei confronti di artisti ed intellettuali un atteggiamento conciliante. Questo fu un fattore determinante in quanto la sua corte permise al mondo occidentale e quello orientale di toccarsi, garantendo la trasmissione dei saperi indo-arabici agli europei. La capitale dei suoi domini fu la mitica Samarcanda, che sotto il suo regno ebbe la massima espansione, raggiungendo il culmine della sua bellezza. Aspirava a riedificare l’impero mongolo considerandosi un discendente diretto di Gengis Khan, ma nella realtà fu sempre in contrasto con gli altri discendenti del Gran Khan, specialmente con l’Orda D’oro da lui distrutta. Alla fine della sua vita l’Impero creato spaziava dal Volga e dalle attuali Turchia e Siria ai confini della Cina, comprendendo tutta l’asia centrale, la Persia e l’India. Considerato uno dei più grandi geni militari esistiti non assunse mai altro titolo nobiliare al di fuori di quello di emiro (principe), e la sua limitata gestione dei possedimenti locali portò alla nascita di numerose nazioni moderne come l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Turkmenistan e il Kirghizistan, dando un’importante impulso nella trasformazione dell’Impero persiano all’attuale Iran. Fondatore della Dinastia Timuride da lui discese Babur, il primo sovrano dell’Impero Mogol in India, con importati ripercussioni ai giorni nostri, quali la questione Pakistano-Indiana e gli attuali moti d’indipendentismo musulmano nella regione del Kashmir. Arrivò fino alle porte dell’Europa spadroneggiando nei territori ottomani e islamici, ritardando di 80 anni la caduta di Costantinopoli. Divenne padrone dell’Anatolia e, rivendicando la missione dell’Impero mongolo e il presunto diritto del medesimo al dominio universale, conquistò Smirne dagli Ospitalieri di Rodi cacciando e sottomettendo Focea e Chio. Ma attirato sempre di più dall’oriente che dall’occidente mosse contro la Cina della Dinastia Yuan e, colpito da una probabile polmonite, morì in territorio kazako. Dopo la sua morte la fama del conquistatore asiatico fece nascere una vera e propria tradizione letteraria in cui il personaggio assunse tratti mitici e leggendari. Finì per influenzare opere del calibro del Principe di Machiavelli e questo mito, partendo dall’Italia rinvigorito nel Cinquecento da Paolo Giovio, si diffuse in Europa dove Pero Mexia, enciclopedista spagnolo, lo introdusse nella sua opera enciclopedica. Numerose furono le opere teatrali a lui ispirate e tra di esse vanno ricordate “Tamerlano il Grande” di Marlowe e l’omonima opera lirica composta da Händel. Il suo vero nome era Tīmūr Barlas e, a cavallo tra il 1300 e il 1400, fu il centro gravitazionale delle politiche internazionali europee, asiatiche e medio-orientali.

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