Kid Yugi e l’arte della citazione

Francesco Stasi (aka Kid Yugi) è un rapper emergente classe 2001, originario di Massafra, un centro di circa trentamila abitanti della provincia di Taranto. Il suo nome è comparso sulle bocche degli appassionati del genere dopo l’uscita del disco d’esordio, The Globe, avvenuta il 4 novembre 2022 per Universal. L’album aveva colpito positivamente il pubblico per il suo estro lirico fin dal titolo, che già denotava una forte tendenza alla citazione. Yugi, come dichiarato in un’intervista a Billboard, voleva richiamare infatti il teatro a cielo aperto messo in piedi dalla compagnia di William Shakespeare nel 1599, con l’intento di porlo a confronto con la cosiddetta “vita di strada”, topos lirico costante nei testi di genere rap. “Queste strade sembrano teatri / ‘sto sipario non vuole abbassarsi” sono i versi che chiudono “Hybris” (sì, la stessa hybris dell’Iliade), la prima traccia di The Globe. E i riferimenti al teatro non si fermano alla prima traccia: “Grammelot”, “King Lear” e “Il ferro di Čechov” sono i titoli di alcuni pezzi del primo album che testimoniano l’affiatamento del rapper con alcuni elementi o testi fondamentali del teatro moderno (rispettivamente: la tecnica teatrale onomatopeica messa in atto, tra gli altri, da Dario Fo; la nota tragedia di Shakespeare e la pistola (o fucile) di Anton Čechov, il principio narrativo ideato dall’autore russo per cui un’arma, presente in una messa in scena, prima o poi deve aprire il fuoco). 

 

Il primo marzo di quest’anno Kid Yugi ha rilasciato la sua seconda fatica, I Nomi del Diavolo, declinando in ciascuna traccia dell’album i diversi nomi e volti che può assumere il male. Per farlo Kid Yugi attinge a letteratura (la copertina, il pezzo “Il Signore delle Mosche”), musica (“Paganini”), mitologia (“Lilith”, “Lucifero”), ma anche alla realtà (“Denaro”, “Ilva”), mostrando il ventaglio di identità che nel suo immaginario il diavolo può incarnare. Ciò non deve però far pensare a un album “satanista”, anzi: come dichiarato nell’intervista a teatro rilasciata per Esse Magazine, il diavolo da lui immaginato non assume una forma totalmente maligna, ma lascia aperto lo spiraglio per una tensione verso il bene.
Al di là di scelte o limiti artistici che possono caratterizzare più o meno piacevolmente il lavoro del rapper pugliese, ciò che è nuovamente interessante per le orecchie degli ascoltatori è il numero di pregnanti citazioni a cui Yugi riesce a dar vita. Come fa notare una pagina IG di divulgazione sulla musica hip-hop, TastieraCapitale (https://www.instagram.com/tastieracapitale?utm_source=ig_web_button_share_sheet&igsh=ZDNlZDc0MzIxNw==), la dote particolare di Yugi è quella di accostare elementi di campi d’interesse culturale apparentemente opposti nel giro di poche rime, senza che questo risulti forzato o poco credibile per i suoi fini. Un esempio lo troviamo in una serie di versi autocelebrativi tratti da “Yung 3p 4”, la nona canzone de I Nomi del Diavolo

 

La mia merda è culto, il mio zoccolo duro sono i papaboys

Non è trap, è voglia di far sesso come Sigmund Freud

Dieci K al mese, spingo come un Boeing

(Kid Yugi – “Yung 3p 4”)

 

Tralasciando qualsiasi giudizio morale, fuorviante nell’analisi di certi testi musicali (questo discorso è lungo, complesso, più di quanto si possa pensare, e non è questa la sede per discuterne), possiamo notare ciò che è stato segnalato sopra: il cliché per cui i trapper hanno meno problemi “a rimorchiare” non è espresso dal rapper in maniera diretta, ma passando attraverso Sigmund Freud, il più noto studioso di psicanalisi del ‘900, che riservava a desideri inconsci di tipo sessuale le cause di certe inclinazioni individuali(es. complesso di Edipo). Nel frattempo troviamo attacchi ironici alla religione («il mio zoccolo duro sono i papaboys») o ostentazione di una ormai agiata condizione economica («Dieci K [= diecimila euro] al mese, spingo come un Boeing»). Il suo immaginario è questo, e a trascinarlo avanti sulle basi musicali è la sua voce possente, forse talvolta poco orecchiabile, ma di certo veemente, sia per i contenuti d’impatto comunicati, sia per il timbro grave che la caratterizza.

L’analisi di TastieraCapitale è acuta nell’evidenziare tale pregio della penna di Kid Yugi, e la sua riflessione porta me a farne una riguardo alla definizione stessa di citazione. Essa assume infatti valore quando ciò che viene ripreso dal modello precedente non è semplicemente un richiamo letterale, ma ottiene un nuovo significato, più ricco, dato dall’autore della citazione tramite le connessioni testuali sorte nel suo pensiero, tra il momento di lettura del modello precedente e il momento di scrittura. Kid Yugi si dimostra un maestro nel far fruttare l’intertestualità, un concetto affine alla memoria letteraria su cui i filologi del XX secolo hanno riflettuto a lungo. Se l’intertestualità, secondo il critico letterario francese Roland Barthes (1915-1980), prevede che ogni testo (letterario e non) possa essere interpretato in molteplici modi da ogni singolo lettore capace di tessere con esso nuove relazioni testuali, anche allontanandosi dalle iniziali volontà dell’autore, allora possiamo capire come il rapper di Massafra sia un lettore particolarmente fertile, in grado di esemplificare, tramite i suoi testi, la teoria letteraria dello studioso francese (per info in più a riguardo: https://www.eroicafenice.com/salotto-culturale/il-dialogo-intertestuale-dalle-origini-ad-oggi/ ). Ma non solo testi, perché Kid Yugi guarda, ascolta, respira; film, musica, ma anche la vita stessa, sono elementi, frutto della sua esperienza individuale, che vanno ad impilarsi nel suo vasto bagaglio di conoscenze. Quando scrive, poi, riversa questo bagaglio sulla pagina, forgiando il suo stile impregnato di citazioni.

 

Per qualche altro esempio, basti guardare la copertina de I Nomi del Diavolo, dove il rapper si trova su un «un trono demoniaco circondato da fanatici che si dimenano per toccarlo e quasi soppiantarlo dallo status raggiunto, omaggio alla celebre opera di Michail Bulgakov (Il maestro e Margherita, ndr) che rimanda alla scena del ballo di Satana», come indicato sapientemente in questo articolo di rapteratura.it (“I Nomi Del Diavolo”: l’Apocalisse di Kid Yugi è in terra – Rapteratura). Oppure si ascolti “Lilith”, brano in cui Yugi, attraverso il riferimento alla religione mesopotamica, descrive la propria amante come il demone femminile associato alla tempesta, portatrice di sciagure e morte. O, ancora,“Paganini”, che già dal titolo rivela un richiamo al celebre violinista di epoca romantica Niccolò Paganini, noto anche per la leggenda di un misterioso patto con il diavolo allo scopo di ottenere, in cambio dell’anima, il talento musicale. In questo brano, prende forma la visione violenta e contemporaneamente erudita tipica della scrittura del rapper di Massafra, che si avvale persino, a fini autocelebrativi, di riconoscere la complessità dei propri testi («Il mio slang indecifrabile, sembra latinorum»). 

 

Sei dolore senza limiti, zoodiaci di lividi

La stanza degli spiriti, la danza delle Silfidi

L’affetto di Misery, le fiamme degli inferi

Il canto delle sirene nei tuoi occhi limpidi

(Kid Yugi – “Lilith”)

 

Dieci mitra in sincro, sembreranno il chorus

In un live al Forum, Yugi ultimo shōgun

Questa merda è il mio tesoro, lo difendo come Gollum

Pressione addosso, salvo la mia terra come Goku

Voglio comprarmi un Panzer, non voglio una Lotus

Terzo occhio è quello di Horus, Fat Man sull’Atomium

Questa non è trap, puoi definirla un Horcrux

Non ho mai preso il Valium, San Cosimo era opium

Il mio slang indecifrabile, sembra latinorum

Torno a casa su un nastro di Möbius, rap magnum opus

(Kid Yugi – “Paganini”)


Menzione speciale va fatta anche a “Ilva” (perlopiù, anche remix di un brano originale del cantautore tarantino Fido Guido), in cui il rapper mette mano a una denuncia sociale nei confronti dell’omonimo stabilimento delle acciaierie di Taranto, noto per i problemi di inquinamento – e non solo – provocati alla città pugliese e ai dintorni. 

 

Si vede da lontano una nuvola tossica

Una terra rossa e la mia gente che soffoca

Quaggiù la vita quanto costa? Voglio una risposta

Se tutto quello che ci uccide lo chiami risorsa

(Kid Yugi – “Ilva (Fume Scure rmx)” feat. Fido Guido)

 

Se dovessimo vedere l’insieme del sapere umano come il suolo di un qualsiasi ambiente naturale, potremmo considerare Kid Yugi come un individuo che getta semi sul terreno, facendo crescere in profondità delle radici tanto solide da tenere insieme ogni strato sedimentato sotto la superficie, e dando contemporaneamente luce a una nuova forma di vita. Sono gli alberi ben radicati, infatti, che impediscono a un versante in pendenza di non franare: così il rapper di Massafra lega gli strati di conoscenza accumulati nel suo patrimonio culturale, dando loro nuova linfa vitale nella forma musicale.

Per questo, forse mi viene da pensare che Kid Yugi non sia solo un grande scrittore, ma più che altro un formidabile raccoglitore – lettore o osservatore, poco cambia – in grado di conservare le lezioni dei propri modelli ed evolverle, attuando anche un’opera di divulgazione verso i propri ascoltatori. Lo ha fatto con il teatro a cielo aperto di The Globe e si è ripetuto magistralmente con I Nomi del Diavolo, un progetto che ha il sapore di una vera e propria monografia sulle sfaccettature del male quotidiano. Perché va tenuto bene in mente che Kid Yugi non ha usato i propri riferimenti per sfuggire alla realtà di tutti i giorni, ma li ha piuttosto sfruttati per raccontarla con ancora più consapevolezza. 



La cognizione del dolore

La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è forse uno dei grandi capolavori letterari del nostro Novecento, che racchiude in sé una forza entropica e aspramente autobiografica; così l’autore ci catapulta all’interno di una Milano fittizia, situata nell’America Latina, e racconta la storia di un Matricidio tentato e quasi sicuramente riuscito. Gadda, attraverso il suo protagonista, Gonzalo Pirobutirro, analizza profondamente il rapporto con la propria madre, ormai defunta. La stessa donna che per decenni, di ritorno dalla prima guerra mondiale, passata in gran parte come prigioniero in Germania, gli ripeterà che sarebbe dovuto morire lui al posto del fratello, deceduto in un incidente aereo per mano tedesca. Gadda conseguirà, sempre sotto volontà della donna, una laurea in ingegneria e sarà costretto ad abbandonare gli studi filosofici prima della discussione della propria tesi Meditazione Milanese, divenuta in seguito una vera e propria opera.

Iniziò a scrivere il suo romanzo subito dopo la morte della madre, nel 1936, e uscì edito da Einaudi solo qualche decennio più tardi, nel 1963.

La cognizione del dolore è un intreccio linguistico assai complesso e ricercato: sono presenti termini dialettali, latineggianti, spagnoli -avendo vissuto in Argentina- e colloquiali; tuttavia non mancano dei cambiamenti di registro assolutamente inaspettati, tendenti al lirismo poetico per cui Gadda sembra portato e a suo agio. Non a caso, forse, il romanzo si chiude con una poesia dedicata alla madre, scritta un paio di anni prima che lei morisse.

Tra le righe gaddiane si può percepire sempre una congiunzione tra la dimensione psicologica e fisica dei personaggi, soprattutto nella figura di Don Gonzalo, il quale tende sempre al profondo, all’abisso di Nietzsche. Purtroppo, però, la sua situazione viene continuamente banalizzata, come si evince dal dialogo con il medico all’inizio dell’opera, creando uno sfondo simile a quello dei Promessi sposi di Manzoni, dove il vincitore reale del romanzo è Don Abbondio, personaggio dotato di un intelletto medio.

Il titolo originale dell’opera, Matricidio, non rende giustizia alle pagine scritte dall’autore milanese, relegando il testo a una dimensione più criminosa; invece il fulcro del racconto è la cognizione del dolore di un figlio per la morte della propria madre. Nell’appendice troviamo un’intervista immaginaria tra l’autore e l’editore, il quale chiede venia a Gadda forse proprio per avergli fatto ricordare il dolore causato dalla perdita della figura materna, a lui così cara nonostante tutto.

CAMERA (Centro Italiano per la Fotografia)

Torino, 13 febbraio 2024

Non ero mai stata prima d’ora all’inaugurazione di una mostra. C’é una differenza tra visitare una esposizione, girare a zonzo tra le opere esposte, e invece avere la consapevolezza del perché e del come si è scelto di far vedere proprio quel soggetto lì, proprio in quel luogo.

È quello che mi è successo martedì 13 febbraio, quando mio papà mi ha invitata all’inaugurazione di tre mostre fotografiche alla Camera di Torino. All’inizio, non mento, non sapevo bene come comportarmi: sono una studentessa universitaria che ancora non sa cosa vuole fare nella sua vita e della sua vita, ma l’interesse e l’amore che provo nei confronti della cultura in generale bastava a motivare, almeno a me, il perché fossi lì. Anzi, forse proprio il fatto di non sapere su cosa concentrarmi, su quale strada prendere, ma essere aperta a tutte, ha giocato in mio favore.

Esco da lezione di Teatro educativo e sociale con qualche minuto di anticipo, e mi avvio verso la Camera che è vicinissima alla mia università. Fuori vedo giornalisti, chi con delle cartelline in mano, chi con le videocamere e microfoni, chi semplicemente senza niente se non sé stesso e un’aria tranquilla stampata in volto. Seguo mio papà dentro, e scrivo “1000Miglia” nello spazio indicato con “testata”, nel registrarmi all’entrata: mi fa stranissimo! Pensare di essere lì per poi scrivere, è una cosa che mi sembra così lontana dalla mia vita che ora è prevalentemente studio, mentre i lavoretti che ho svolto fino a questo momento sono sempre stati qualcosa di lontano dal mio percorso di studi: il Dams. Invece ora mi sembra di stare facendo qualcosa legato a quello che sto studiando: qualcosa che c’entra con il mio possibile futuro lavoro? Chissà…

“Divertiti”, mi dice Fabri (mio papà), e allora faccio proprio come mi sento. Giro con le mani incrociate dietro la schiena, come Socrate, (o almeno, come io mi immagino facesse Socrate), e inizio a osservare le fotografie di Michele Pellegrino, che è nato proprio a Cuneo, nel 1934, e che è inoltre presente lì in quel momento. Da subito ciò che vedo mi colpisce, perché le prime foto sono quelle di montagna, ritraggono le valli che frequento io d’estate soprattutto, ma anche in inverno. C’è il Lago di san Bernolfo, sopra i Bagni di Vinadio, ripreso in una luce calda e con un’atmosfera bloccata nel tempo. Osservare la bellezza di luoghi in cui sono stata, mi ha suscitato un sentimento di gratitudine e di orgoglio per la mia terra. Proseguo e vedo volti lontanissimi da quelli che per la maggior parte del tempo invece scorrono sullo schermo del mio telefono, sulle riviste di moda, sui giornali.

Gli scatti di Michele riportano l’indole di gente che non desidera apparire, che non sa nemmeno il perché dovrebbe mai lasciarsi fotografare, e che magari, infatti, nemmeno era del tutto d’accordo. Su quei volti sono segnate le fatiche di una vita vissuta nelle terre dure e sconfinate della montagna, in alto, lontani da tutto e da tutti. La fatica concreta di procurarsi il cibo giorno dopo giorno, di riscaldare la casa, di crescere i propri figli sani e forti. Niente a che vedere con i ritratti di oggi, dove vedo tanta voglia di apparire, tanta ansia di ricevere approvazione per avere degli occhi così ben truccati, dei corpi così tonici, perfetti, una pelle liscia e senza cicatrici.

Ciò che vedo mi riporta con la mente ad una realtà che sembra essere ormai lontana nel tempo, e nello spazio, ma non del tutto estinta; mi fa venire voglia di cercare quelle persone che ancora non sono state toccate dalla società di oggi, così piena di falsità e superficialità, quelle persone che ancora pensano un pensiero alla volta: prima mungo la mucca, poi faccio il formaggio, poi pianto i semi, poi accendo il fuoco. Mi affascina sapere che ancora esistano persone così. Proseguo e i miei occhi incontrano gli edifici austeri e isolati dei monasteri, e poi gli sguardi indecifrabili delle coppie in prossimità del matrimonio; chissà cosa passava nelle loro menti, quali erano i loro pensieri, se da lì a poche ore si sarebbero sentiti liberi e infinitamente felici oppure se sarebbe iniziata per loro una vita che non avrebbero mai desiderato.

Quando ascolto, durante la conferenza stampa, i racconti di Michele, tutto mi sembra ancora più vero e concreto. Racconta di come lui ha sempre cercato di cogliere la verità, che non necessariamente significa bellezza. Parla di quando era arrivato in Valle Stura “un americano”, come lo chiama lui, che aveva iniziato a fotografare la montagna, e se ne era innamorato. Le sue foto erano state esposte, premiate, all’interno di alcune mostre, e ogni anno il fotografo tornava a Cuneo, chiamato per documentare la bellezza dei paesaggi alpini. Michele afferma che quando vide le fotografie scattate dallo straniero, non riconobbe i luoghi che lui pure conosceva come le sue tasche, avendo passato la vita in quei posti (riporta l’esempio di Vinadio: “nella didascalia c’era scritto Vinadio, ma a me non pareva proprio per niente Vinadio!”).  Questo perché lui era sempre stato interessato a riportare la vita di chi ci viveva, in montagna, di chi sapeva cosa voleva dire avere a che fare ogni giorno con le fatiche e le sofferenze che un luogo così porta, mentre “l’americano”, aveva colto forse solo la bellezza superficiale della Valle, senza indagare a fondo cosa significasse davvero un filo d’erba, una roccia, una sorgente, per gli abitanti.

Bello come Michele abbia deciso di donare tutto il suo portfolio alla fondazione CRC nel 2017, così che “finalmente”, dice lui, “la gente ha potuto conoscere cosa stava succedendo davvero nelle valli cuneesi, che si stavano lentamente, ma inesorabilmente, spopolando”. Lo dice con orgoglio, con soddisfazione, ma non lascia trasparire il dolore che, sotto sotto, tutto questo gli provoca. E la collaborazione con Camera sicuramente riesce a realizzare la volontà più forte e urgente del fotografo, quella di raccontare tutto ciò che lui aveva ascoltato, visto, vissuto, nell’arco di una vita. E nel profondo io mi sento di ringraziare Michele, per la forza che ha avuto nell’intrufolarsi nelle case di chi non accetta altri, di chi non desidera farsi conoscere, di chi non può incontrare nessuno all’esterno della clausura. Per aver avuto il coraggio di portare avanti la passione, pensandola proprio come una priorità, senza fretta e aspettando il momento perfetto, oppure cogliendo proprio l’istante di uno sguardo, una lacrima, un pensiero che si fa fotografia.

Cesare Pavese

«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.»

E invece, una dozzina d’anni dopo, chi scriveva questa annotazione nel suo diario alla pagina del 23 novembre 1937 si toglieva la vita in un afoso agosto torinese del 1950.

Sto parlando di Cesare Pavese, nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo in provincia di Cuneo, un paesino nelle Langhe che diventerà presto il fulcro del suo percorso interiore, letterario e poetico. In quel paese, infatti, congiungeranno l’universo mitico, l’attrazione verso gli antichi e la sfera della solitudine che lo contraddistingueranno per tutta la durata della sua breve ma intensa esistenza. Pavese ci ha lasciato così infiniti scorci paesaggistici delle Langhe, nonostante abbia trascorso gran parte della sua vita e formazione a Torino. Questi luoghi, più che mai, gli sono cari durante l’esilio da parte del Fascismo a Brancaleone, in Calabria. Pavese qui scrive un romanzo sulla sua condizione di esule, “Il carcere”, sentendosi lontano da ciò che lo circonda, avvertendo che l’unico luogo per combattere la sua battaglia si trova a casa, dinnanzi alle sue terre, perché se non troviamo accoglienza nel luogo che ci ha cresciuti, non la troveremo da nessuna parte.

Un paio di anni dopo il ritorno a Torino, nel 1938, diventa ufficialmente redattore di casa Einaudi. Questo periodo è segnato da infaticabile lavoro e dedizione e presto la casa editrice diventa tutto, nonostante gli sgarbi e le arrabbiature di cui Pavese scrive nei carteggi, spesso ironici, con Giulio Einaudi. Negli ultimi anni ha modo di lasciare una traccia indelebile nella persona di Italo Calvino, di cui intuisce subito la grande intelligenza e l’abilità nello scrivere. Calvino, pochi anni dopo la morte del maestro, lo ricorderà così: «Vero è che non bastano i suoi libri a restituire una compiuta immagine di lui: perché di lui era fondamentale l’esempio di lavoro, il veder come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio d’idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna». 

Pavese, forse più di un importante saggista, traduttore, redattore e scrittore, è stato un poeta e soprattutto un uomo. Le poesie l’hanno accompagnato per tutta la vita, da Lavorare stanca a Poesie del disamore, camminando fianco a fianco durante un percorso colmo di solitudine, nostalgia, dolore e un grande, inestinguibile vuoto. Pavese cerca nella letteratura uno sbocco, una via di fuga per disfarsi dei suoi sentimenti e trovare quella che lui chiama «simpatia totale».

La «simpatia totale» è forse il vero campo di battaglia su cui Pavese combatte tutta la vita; il desiderio di provare amore per una donna, e di legarsi a lei indissolubilmente, diventa così il luogo in cui cercare l’infinito e alleviare il dolore di vivere. La sua vita è un’attesa continua, «interminata», se volessimo citare un altro celeberrimo autore che dialoga col dolore universale che avverte fin dalla più tenera età: Leopardi. Soffocato dentro la sua abitazione a Recanati uno, alimentato dalle Langhe l’altro; i due poeti vengono a collidere nella congiunzione eterna tra amore e morte. Quando non troviamo l’amore, spunta fuori la morte. Pavese scriveva: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Ecco, io continuo a domandarmi quali occhi vedesse riflessi nello specchio l’uomo che, in una torrida giornata estiva torinese, saliva in albergo e ci lasciava perdonando tutti e chiedendo perdono a tutti.

Nazionalismo e Ambiente: l’ideologia dietro ai disastri climatici

Al giorno d’oggi, i danni ambientali provocati dall’agire umano sono inconfutabili e largamente noti. Allora come mai i provvedimenti a favore dell’ambiente sono ancora molto timidi (se non addirittura inesistenti)? Tale lentezza d’azione è spiegabile analizzando il sistema nazionalistico dominante.

Il nazionalismo è l’ideologia che permette a un gruppo di riconoscersi sulla base di motivi territoriali, etnici e soprattutto culturali (lingua, usi e costumi, religione). Il nazionalismo si fonda pertanto su un’implicita differenziazione tra esseri umani: riconoscersi in un gruppo significa voler tracciare una differenza tra un “noi” e un “gli altri”. Da ciò deriva che le nazioni si fondino sulla competizione per il prestigio nazionale, cioè su una continua crescita economica volta ad affermare la propria nazione sulle altre. Questo sentimento di competizione e presunta superiorità nazionalista ha una conseguenza negativa sulla salvaguardia ambientale.

Innanzitutto, volersi differenziare dagli altri uomini indica una mancata capacità di considerare l’umanità e lo spazio terrestre come entità uniche, compatte. Le nazioni si basano su un tratteggiamento di confini che rende frammentario lo spazio geografico e umano. Da ciò la duplice difficoltà a riconoscere problemi ambientali che avvengono al di fuori dei confini conosciuti e a riconoscere gli stretti rapporti tra la crisi di altre zone del mondo e il territorio nazionale.

Prendere atto che la crisi ambientale sia un fenomeno planetario significa uscire dalla logica nazionalista, una logica che – ricordiamo – permea la forma mentis europea da almeno due secoli (dalla Rivoluzione Francese) e quella mondiale da diversi decenni (dalle lotte anticolonialiste). In secondo luogo, la volontà di dimostrarsi migliori delle altre nazioni e di costruire di un orgoglio nazionale hanno condotto, nel mondo contemporaneo, al cosiddetto produttivismo, definibile come un’ideologia basata sulla convinzione che la produttività e la crescita di una nazione siano lo scopo ultimo dell’organizzazione umana. Il produttivismo è contemplabile solo in un contesto di infinite risorse e continua produzione. Tale caratteristica rende il produttivismo il principale colpevole dei disastri ambientali finora causati.

Infine, il principio di differenziazione nazionalistico ha spesso condotto a fenomeni di razzismo e discriminazione (a questo proposito è superfluo citare degli esempi), che hanno portato a tenere in bassa considerazione sia i territori che gli abitanti di alcune zone geografiche: ci si sente meno in colpa a devastare il territorio di una popolazione lontana e del terzo mondo, rispetto alla quale si nutrono diversi pregiudizi.

Ricapitolando, i tre fattori chiave che non solo impediscono un’azione in favore dell’ambiente, ma addirittura sono la causa stessa della sua devastazione, sono: la mancata capacità di avere una visione d’insieme, il produttivismo, la discriminazione razziale.

Esiste però un altro elemento fondamentale nel determinare le azioni umane nei confronti dell’ambiente, ovvero la percezione umana del rapporto uomo-natura, ben più antica del nazionalismo. La tendenza, fin dai tempi più antichi, di porre l’uomo al centro del mondo (addirittura nella convinzione religiosa che il mondo fosse stato appositamente creato per lui), conduce a vedere la natura come un’entità subordinata all’uomo e di sua appartenenza. È stata tale concezione secolare a comportare l’inizio dell’Antropocene, la nuova era geologica in cui l’agire umano è in grado di modificare la litosfera, l’atmosfera, l’idrosfera e gli equilibri dei processi biologici.

Per questo motivo, studiosi e ambientalisti tentano di situarsi in un contesto anti-antropocentrico, ossia in un panorama che pone l’uomo allo stesso livello della natura, che colloca l’umanità all’interno del mondo naturale, che la concepisce come una parte del tutto. Forse questo atteggiamento sarebbe il più efficace per tentare di frenare ciò che ancora si può contenere, tenendo comunque presente che ormai le conseguenze delle azioni umane non saranno cancellabili.

 Tutto quello che devi sapere sull’autonomia differenziata

Il senato ha da poco approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario. Il provvedimento deve passare ora alla camera dei deputati prima di diventare legge definitiva. Ma che cos’è esattamente l’autonomia differenziata e quali sono le sue implicazioni?

L’autonomia differenziata rappresenta una modifica legislativa introdotta nel 2001, che ha portato ad una riforma del titolo V della Costituzione italiana. Questa modifica ha apportato significative revisioni all’articolo 117 della Costituzione delineando 17 materie di competenza esclusiva dello Stato, tra cui politica estera, difesa, giurisdizione e norme generali sull’istruzione. Le regioni sono invece responsabili di tutti i settori normativi non espressamente attribuiti allo Stato.
L’art. 116 della Costituzione consente alle regioni ordinarie di richiedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Tutto ciò però fino ad oggi non è mai stato attuato sicché le regioni hanno avuto un’autonomia normativa sostanzialmente limitata.

L’attuale introduzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia differenziata, proprio come previsto dall’art.116 della costituzione, avviene oggi tramite una legge ordinaria rinforzata. Questo tipo di legge richiede un processo legislativo specifico: deve essere approvata da entrambe le camere del parlamento con la maggioranza assoluta dei loro componenti.
Il disegno di legge Calderoli, proposto dal Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli, stabilisce le procedure legislative e amministrative per attuare l’autonomia differenziata.

Le regioni italiane, attraverso un processo di negoziazione con lo Stato avrebbero la possibilità di richiedere l’attribuzione di 23 diverse materie di competenza, tra cui salute, istruzione, ambiente, trasporti, cultura e commercio estero. Non vi è un numero minimo di materie che una regione può richiedere, garantendo così una flessibilità in base alle esigenze specifiche di ciascuna regione.
Tuttavia, il trasferimento di funzioni dalle competenze statali a quelle regionali avverrebbe solo dopo una conferenza tra lo Stato e le regioni e, soprattutto, dopo la determinazione dei “Livelli Essenziali delle Prestazioni” (LEP). Questo processo assicura che il trasferimento di competenze avvenga in modo responsabile e sostenibile, garantendo alle regioni le risorse necessarie per gestire efficacemente le nuove aree di competenza.

I Livelli Essenziali di Prestazioni rappresentano un elemento fondamentale nella concessione di maggiori forme di autonomia alle regioni, definendo il livello minimo di servizi che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio italiano, indipendentemente dalle specifiche competenze trasferite. Essi stabiliscono le condizioni basiche che ogni regione deve rispettare per assicurare ai cittadini un livello di servizio adeguato e omogeneo.
Tuttavia, l’autonomia differenziata non è priva di controversie. Uno dei grandi terreni di scontro è quello delle tasse. Con l’autonomia differenziata le tasse di chi paga nella propria regione di residenza rimarrebbero in quella regione e non sarebbero ridistribuite a livello nazionale. Per alcuni questa è una cosa positiva perché le regioni non dovrebbero più condividere le proprie risorse con le altre, secondo altri è una cosa negativa perché i lavoratori fuorisede pagherebbero le tasse nella Regione di residenza e non in quella in cui usufruiscono dei servizi.

Chi sostiene l’autonomia differenziata pensa che la gestione delle risorse a livello locale potrebbe ridurre gli sprechi, in quanto chi è più a contatto con il territorio può conoscere meglio le esigenze del territorio stesso, e che questo abbia un effetto positivo a cascata su tutto il paese. Inoltre sarebbe più facile per i cittadini controllare l’operato dei politici.
Chi è contro sostiene che le risorse delle regioni più ricche non verrebbero ridistribuite a livello statale e che quindi verrebbero lasciate meno risorse alle regioni considerate più fragili. Inoltre si sottolinea come si abbia già sperimentano in parte l’autonomia differenziata nella sanità il cui risultato è stato una grande disparità tra nord e sud.

In conclusione, l’autonomia differenziata rappresenta una sfida significativa per il sistema politico italiano, poiché cerca di bilanciare la decentralizzazione del potere con l’unità nazionale, promettendo maggiore efficienza e responsabilità a livello regionale, ma sollevando al contempo importanti interrogativi sull’equità e sulla coesione del Paese.

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