Tra falò sulla spiaggia e isole caraibiche da sogno: come la serie Outer Banks alimenta il nostro desiderio di estate

Negli ultimi anni il famosissimo sito di streaming americano Netflix ci ha abituati a diverse serie cult, iniziando da Stranger Things, passando per La casa di carta e arrivando a Rick and Morty , eppure tutte queste non riescono a trasmettere la voglia di festeggiare sulla spiaggia e godersi la bella stagione come Outer Banks, serie ideata da Josh e Jonas Pate e da Shannon Burke, che tocca diversi temi quali: l’amore adolescenziale, le differenze sociali, la ricerca di un tesoro perduto e la vendetta.

La serie parla di un giovane, John B. Routledge, che insieme al suo gruppo di amici detti Pogues (termine che riprende il nome di un pesce, in inglese Pogie, che, come detto fin da subito proprio dal protagonista, è un tipo di animale che viene pescato molto facilmente ma che viene subito rilasciato in quanto inutile) cerca di trovare suo padre, scomparso da ormai otto mesi per cercare il tesoro presente sulla Royal Merchant, una nave affondata qualche secolo prima, per la quale ha dedicato gli studi di una vita. Nel suo cammino per riconciliarsi con Big John Routledge, John B. affronta innumerevoli peripezie, che lo portano anche a legarsi sentimentalmente con Sarah Cameron, figlia del ricco imprenditore Ward, e componente principale dell’altra classe sociale presente sull’isola, ovvero i Kooks. Essi compongono la parte ricca delle Outer Banks, e ciò porta loro a disprezzare il gruppo del protagonista, dato che i Pogues sono ragazzi scapestrati e anticonformisti, i quali vivono ai limiti della legalità. L’amore tra i due è però un sentimento che trascende i limiti imposti dalla società, motivo per cui i giovani si allontanano dalla loro casa per seguire il tesoro perduto fino alle Bahamas, contando solo su loro stessi.

Successivamente, la coppia riesce a riconciliarsi con i restanti ragazzi al fine di fronteggiare una minaccia incombente, vero motore della trama della serie. Durante le tre stagioni, divise ognuna in dieci episodi, i protagonisti viaggiano moltissimo, arrivando addirittura a isole deserte con paesaggi mozzafiato, accrescendo la nostra sete di scoprire tutte le meraviglie naturalistiche che il pianeta Terra può offrire, possibilmente in periodi in cui il clima è favorevole come in quelli estivi.

In particolare, se si vogliono visitare i paradisi terrestri dove è stata girata Outer Banks, c’è bisogno di prendere una crociera per le Barbados, cosicchè si abbia la possibilità sia di fare delle vacanze dall’altre parte del mondo e in luoghi fantastici, sia di potersi recare negli ambienti presenti nella serie, come la Cove Spring House. Oltre a ciò in diversi episodi i personaggi, soprattutto coloro che fanno parte della classe dei Krooks, organizzano vari party sulla spiaggia, durante i quali spesso ci si raduna intorno ad un falò, elemento immancabile durante un evento del genere.

Per queste motivazioni, personalmente credo che Outer Banks sia una serie adatta ad un pubblico prettamente giovane, che possa aver provato sulla propria pelle quelle esperienze di amicizia, amore e condivisione di momenti significativi onnipresenti nelle diverse puntate, che possa prendere spunto dalle avventure vissute da John B. and co. per passare un’estate all’insegna del divertimento, e chissà se anche a ritrovare qualche tesoro perduto da secoli…

 

Agathos paideuon

Via sacra di Roma, all’altezza del tempio sacro di Vesta

Quinzio: Ave, amico! Dove ti rechi così di fretta?

Apollodoro: Ave, Quinzio. Sto andando a trovare un mio caro amico che abita presso la villa di Cesare.

Quinzio: Vah! Anche io sto andando verso la villa di Cesare! Magari mentre camminiamo potresti raccontarmi com’è stata la cena ieri sera a casa del nostro imperatore…

Apollodoro: Dacché ne chiedi, penso tu abbia già ascoltato la storia, ma poiché la strada è lunga e, si sa, il parlare rende più dolce il camminare, ti dirò quel che è successo.

La sera precedente, villa del divo Cesare Marco Ulpio Nerva Traiano

Giovenale: Apollodoro? Che ci fa il direttore della Biblioteca imperiale qui?

 Apollodoro: Ave, Giovenale, sono stato invitato dal nostro Cesare. Pare voglia cambiare precettore per i figli. 

Giovenale: E avrebbe chiamato te? Se fossi io l’insegnante, Roma non avrebbe questo degrado e inoltre…

Traiano: sarebbe un deserto!

Giovenale e Apollodoro: Ave Cesare!

Traiano: Giovenale, perché non vai a discutere delle tue idee con le oche del Campidoglio? Io devo parlare in privato con il nostro amico.

Giovenale: Sì, Cesare. (Esce con aria abbattuta e umiliata)

Traiano: Apollodoro, benvenuto. Vorrei che parlassi con il precettore dei miei figli. Temo non offra loro un sistema educativo adeguato.

Apollodoro: molto volentieri Cesare.

Interno della villa di Cesare

Traiano: Apollodoro, ti presento Primo, il maestro dei miei figli.

Apollodoro: Ave!

Primo: Ave Apollodoro, è un piacere incontrare il direttore della Biblioteca imperiale.

Traiano: In verità Apollodoro è anche un grandissimo esperto di pedagogia. Mia moglie ne ha sentito parlare molto bene e mi ha convinto a invitarlo qui per discutere  dell’educazione.

Apollodoro: È per me un onore sapere che in città si parla così bene di me da avermi invitato in casa vostra, Cesare. Primo, posso chiedervi qualìè il metodo educativo che seguite?

Primo: Beh, il classico. Studio a memoria dei versi degli antichi poeti, traduzione mnemonica dall’etrusco e dal greco…

Apollodoro: Aspetta, vuoi dirmi che tutto il vostro metodo si incentra sulla memorizzazione? Ma qual è il senso di tale metodo? A cosa potrà mai servire sapere a memoria l’“Eneide” di Virgilio o l’ “Iliade” e l’ “Odissea” di Omero? Essi sono già stati scritti e copiati ad Alessandria e qui, a Roma…

Primo: Lo scopo è quello di stimolarne la creatività e la fantasia. Infatti il sapere l’ “Eneide” mostrerà loro per sempre l’abilità della poesia e li spingerà a comporre opere migliori, cosa non dubito saranno in grado di fare senza problemi, mio Cesare.

Apollodoro: Dite di voler stimolare la loro immaginazione e creatività, ma non vi rendete conto che così invece l’uccidete? Non vi rendete conto che li limitate dicendo loro di essere novelli Virgilio o Tibullo od Omero? Loro dovrebbero essere novelli sé stessi e il nostro compito dovrebbe essere quello di guidarli alla scoperta di sé stessi e del mondo che li circonda! Ditemi almeno, li fate comporre dei piccoli testi propri? E dove fate lezione?

Primo: Certo che li faccio scrivere! Tracopiano le grandi opere e poi chiedo loro un riassunto…

Apollodoro: Stai scherzando?!? E tu tracopiare testi e farne il riassunto lo chiami scrivere?!?

Primo: Beh, in realtà a volte chiedo anche di reinterpretare dei miti…

Apollodoro: No no  no, questo non è insegnare! Questo è tenere impegnati dei ragazzi e ucciderne la fantasia! Il vero metodo di insegnamento è una rivisitazione del giardino di Epicuro.

Primo: Non dire idiozie! Mi sarei aspettato di meglio dal direttore della Biblioteca imperiale! Mio imperatore, perché non scaccia questo perdigiorno e ci fai godere di una buona serata senza seccatori…

Traiano: Aspetta Primo, non così velocemente. Voglio prima sentire come funziona il metodo di Apollodoro.

Apollodoro: Grazie Cesare. In pratica il mio metodo funziona così: i ragazzi vengono accolti all’ingresso della Biblioteca e poi andiamo a fare una camminata per le vie dell’Urbe. Durante queste camminate osserviamo ciò che ci circonda e pongo alcune domande ai miei allievi. Una volta rientrati nella Biblioteca ascolto le loro riflessioni e li guido, in maniera il più imparziale possibile, alla soluzione. Talvolta li faccio anche scrivere, solitamente delle loro opinioni sul mondo e su argomenti che li toccano particolarmente e che abbiamo concordato insieme. Ecco cosa vuol dire docere, Primo. Guidare e indicare la strada, facendo in modo da valorizzare al massimo gli studenti.

Primo: Sciocchezze da perdigiorno queste, ecco cosa sono. Mio Cesare, allontanate questo pazzo prima che…

Traiano: In realtà il metodo di Apollodoro mi affascina…Primo, è un giorno eccellente per te, sei appena stato affrancato! Apollodoro, se fosse possibile ti chiederei di venire a stare a palazzo per essere il pedagogo personale dei miei figli.

Primo: Mio Cesare non potete farmi questo, sono sempre stato un servo fedele…

Traiano: Posso e l’ho appena fatto. Ora, perché non vai a goderti la libertà appena conquistata?

Primo: Ma…Sí, mio Cesare (esce guardando Apollodoro in cagnesco)

Traiano: Dunque Apollodoro, sarebbe possibile averti come pedagogo?

Apollodoro: Ma certo Cesare, sarebbe un onore immenso per me.

Traiano: Ottimo, ti aspetto per domattina alle sette. Nel pomeriggio alcuni dei miei schiavi provvederanno a prelevare i tuoi beni dalla Biblioteca per portarli qui.

Apollodoro: Grazie immensamente Cesare, spero di essere all’altezza del compito.

Escono tutti

Ritorno al presente, Via Sacra di Roma, poco distante dal palazzo di Traiano

Quinzio: Addirittura pedagogo imperiale! Ecco cosa stai andando a fare al palazzo di Cesare, altro che visitare un amico! Ciò spiega anche perché stamani ho visto Primo in una taverna, era più ubriaco di un satiro.

Apollodoro: Già, poveraccio, non deve essere stato un colpo facile da sopportare, d’altronde però non era in grado di adempiere al suo incarico…

Quinzio: Se ciò che mi hai raccontato è vero, meglio in una taverna che con i futuri Principi di Roma. Ora tuttavia devo salutarti. Vale amico mio et bona fortuna!

Apollodoro: Grazie, e poi si sa: audentes Fortuna iuvat! Vale amico mio!

 

UN GELATO DA SOLA – Una battaglia vinta

Il seguente testo è molto personale, e il tema è quello dei disturbi alimentari. Spero che non provochi malumori, malesseri, e che possa arrivare alle persone nel modo semplice e naturale come è scaturito da me, quando l’ho scritto. 

 

Oggi ho preso un gelato.

Una banalità. Un fatto non degno di nota.

Non è che ho fatto qualcosa di assurdo.  Avessi detto “Oggi ho prenotato un aereo di sola andata per l’Australia”, sarebbe stato qualcosa di scioccante, più d’impatto. Invece per me è notevole anche questo, perché per lungo tempo mi sono preclusa un sacco di piaceri legati al cibo. Tranne quando non li ritenevo strettamente necessari. Come il gelato. Lo prendevo solo quando ero con altri, e quando anche gli altri lo prendevano; quando ero in giro, quando avevo fatto un qualche tipo di movimento per cui ritenevo di “meritarmi” la gioia del gelato. Oppure ad una festa, dove giustificavo il mio “trasgredire” al regime alimentare che mi ero creata col fatto che tutti lo prendevano, e che non potevo essere l’unica stupida che non lo mangiava. Quante cose ti fa perdere un disturbo alimentare? Quante cazzate ti ficca nella testa? Di quante cose ti priva? Quanti pensieri assurdi, assurdi, assurdi. Quanta privazione di gioia vera, la gioia del gelato per esempio: il sentire il fresco e il cremoso sulla lingua, dopo una giornata calda, dopo ore di lezione, sostituita invece da una “gioia bugiarda”. Una gioia che deriva dall’aver rispettato i rigidi limiti di quantità, di tipo di cibo, che la tua mente ti ha impostato. Come è possibile che si arrivi a preferire questa ultima alla prima, non ne ho idea. Però è una cosa terribile, terribile e assurda. E riconoscere quanto fosse assurda, una volta che ci si è liberati da questi pensieri assurdi, è la felicità più grande. 

Ecco perché mi sentivo di celebrare questo piccolo fatto, apparentemente del tutto degno di ignoranza. Un piccolo successo, che si somma a quei tanto piccoli quanto grandi passi verso la felicità. 

Che per me è prendere un gelato senza pensare. Prendere un gelato a Torino, in una nuova gelateria che ha aperto da poco vicino a Palazzo Nuovo, mentre mi avvio alla stazione per prendere il treno e tornare a Cuneo. Sono in anticipo, quindi ce la faccio. Entro, ci sono due bambini che stanno ordinando due coni belli grandi. Il bimbo ha già fatto la su richiesta, la bimba sta aspettando la gelataia, che infila un biscotto tra le due palline nel cono appena riempito. Inizio a guardare i gusti, per scegliere quale ordinare, e noto con piacere che il prezzo è contenuto, rispetto alla media delle gelaterie torinesi. La bimba ordina due gusti, poi, d’un tratto, esclama di punto in bianco: “No! Non nocciola, volevo il torroncino!”. Siccome ha praticamente urlato, io e la gelataia, una ragazza giovane e allegra, ci siamo spaventate, e ci mettiamo a ridere. Per fortuna il la ragazza aveva appena afferrato il cono, che era ancora da riempire. La bimba prende il gelato con un sorriso sulle labbra, e esce con quello che credo sia il fratellino più piccolo. Tocca a me! Gelato allo yogurt, piccolo, grazie. Cono croccante o wafer? Quello più croccante, per forza! Pago ed esco, felicissima come la bimba uscita pochi istanti fa. 

Tutto questo è così semplice e così naturale, che mi viene da pensare a quanto sono cresciuta e cambiata rispetto ad una volta. Una volta non sarebbe stato così. Una volta, prima di effettivamente scegliere o meno di prendere il gelato, nella mia testa si sarebbero affollate varie domande e varie pensieri e paure: Che ora è? Ha senso mangiare ora? Cosa ho mangiato a pranzo? Ho già mangiato un dolce oggi? Ma ho fatto dell’attività fisica? Cosa mangerò poi a cena? E se poi mamma ha fatto una torta, come faccio? Ma è il caso di prendere un gelato? Che senso ha? Non c’è nemmeno nessuno che lo prende con me, perché dovrei prenderlo da sola? Magari ne prendo uno al gusto di un frutto, almeno è più sano. Poi domani al massimo non mangio dolci. Ma da sola, non ha senso prendere un gelato. Non posso nemmeno poi farlo vedere a mia mamma, per dimostrarle che sono capace di prendere un gelato. Che non ho paura. Ma io paura ce l’avevo. Paura di essere me stessa, paura di permettermi di godere delle gioie che la vita mi offriva. Paura dei miei pensieri e di metterli a tacere. 

È per questo che ora celebro tutta questa naturalezza nella mia testa, la spensieratezza che ho raggiunto dopo tempo. Ed è per questo anche, che mi sento di parlare di questo, che è un problema che è così orrendamente attuale ed in crescita. Nei giovani, nelle ragazze, in noi giovani donne in particolare, è diffusissimo il disturbo alimentare, DCA. E ne parlo perché non ha senso tenere nascoste le proprie paure e le proprie debolezze. Ne consegue solo che esse si rafforzano e sopraffanno la persona. Invece è giusto parlarne, non nascondere, ma esternare, gridare al mondo quanto si sta male, consapevoli che nessuno è mai solo, ma soprattutto che è possibile una via d’uscita.

È possibile guarire.

È possibile tornare a magiare un gelato senza chiedersi il perché.

Seguendo semplicemente la propria voglia, il proprio essere, sé stessi.

 

ESSERE O NON ESSERE?

Scopri chi sei e non temere di esserlo.” (Gandhi)

 

In un mondo che corre veloce, non si sa bene dietro a che cosa.

In un mondo in cui contano più i followers su Instagram degli amici in carne ed ossa.

In un mondo in cui è l’apparenza ad essere padrona; di noi, delle nostre scelte.

In un mondo in cui sei costretto a stare al passo, perché se rimani indietro vieni immediatamente dimenticato, scartato.

In un mondo in cui ci si sforza costantemente di mostrare agli altri la parte migliore di noi, fatta di vacanze esotiche, cibo sano e locali alla moda.

In un mondo così, come si fa a trovare il coraggio di essere sé stessi? Come si fa a non sentirsi schiacciati dal peso delle aspettative esterne? Come si fa a togliersi la corazza che ci si è costruiti per difendersi dai giudizi? Come si fa ad ammettere di essere semplicemente umani?

Troppo spesso gli irraggiungibili standard imposti da chissà chi ci convincono a sacrificare la nostra autenticità sull’altare della conformità sociale, a dimenticare ciò che siamo, a mettere a tacere il nostro io in favore di ciò che gli altri si aspettano da noi.

Ma perché ci sforziamo così tanto di rendere le nostre vite più Instagrammabili, più accettabili in qualche modo? Perché sprechiamo così tante energie nell’assurdo tentativo di dimostrare qualcosa a un esercito di perfetti sconosciuti?

A persone che mostrano di apprezzarci con un “mi piace” alla nostra immagine di copertina, ma che non si sforzerebbero di leggere nemmeno le prime pagine del libro della nostra storia.

Forse perché ci sentiamo inadeguati. Sentiamo di dover soddisfare aspettative troppo alte. Il mondo dei social è severo, non perdona. Ed ecco allora che ci prodighiamo per omologarci, per trasmettere al mondo un’immagine che rispecchi il più possibile l’idea di perfezione che aspiriamo a raggiungere.

Ogni volta che sblocchiamo lo schermo dello smartphone e apriamo un social network a caso ci imbattiamo in un tripudio di persone realizzate, con una carriera brillante, una vita sentimentale invidiabile e gli amici migliori del mondo. Gente che si ritrova un corpo perfetto senza bisogno di mettere piede in palestra, che ogni weekend prende l’aereo e parte per un viaggio alla scoperta delle capitali europee; che ride, che si diverte; che frequenta ristoranti esclusivi e sorride raggiante all’obbiettivo con un bicchiere di champagne in mano.

E poi ci sono io. Io, che mi alzo al mattino con un’energia e un amore per la vita inversamente proporzionale alla lunghezza delle mie occhiaie. Io, che mi preparo agli esami universitari per mesi e alla fine prendo solo 18. Io, che uso la tessera della palestra come segnalibro. Io, che non so ancora cosa voglio fare nella mia vita, perché ho tanti sogni ma poche idee su come realizzarli. Io, che mi vergogno ad indossare la gonna perché le mie gambe sono troppo grosse.

Ha senso tutto questo? Non dovrebbero essere proprio le nostre insicurezze, i nostri piccoli difetti, a renderci unici? A renderci speciali?

Io credo che la perfezione sia estremamente sopravvalutata. È proprio l’essere “normali” che ci rende straordinari. È quel chilo di troppo, quella pelle un po’ pallida. È preferire la lettura di un buon libro ad una serata in discoteca. È avere pochi amici, ma sapere di poter contare su di loro nel momento del bisogno. È scegliere di essere, senza preoccuparsi dell’apparire. È mostrare al mondo ciò che siamo e non avere paura del suo giudizio.

Essere se stessi richiede una grande dose di autoconsapevolezza: significa guardare dentro di sé e riconoscere i nostri punti di forza e di debolezza, accettandoli senza giudizio. Significa essere disposti a crescere ed adattarsi alle sfide della vita senza perdere la propria autenticità.

Ma forse, la parte più importante dell’essere se stessi è il senso di pace e appagamento che si prova quando si vive in armonia con la propria verità interiore. Quando ci permettiamo di essere autentici, ci liberiamo dal peso delle aspettative esterne e ci diamo la possibilità di essere veramente felici.

Perché alla fine, è solo quando ci permettiamo di essere noi stessi che possiamo veramente vivere una vita piena e significativa.

Ogni mattina, davanti allo specchio, dovremmo provare a chiederci: <<Cosa farei se non avessi paura di mostrare al mondo chi sono davvero?>> e seguire la risposta a questa domanda senza timore, riponendo fiducia nel nostro io interiore ed essendo consapevoli del valore che abbiamo.

Le emozioni non hanno confini

Premessa: l’articolo che segue è stato scritto dopo avere assistito a un “dibattito fotografico” con protagonista NICOLÓ FILIPPO ROSSO, un fotografo documentarista italiano che vive tra Sud, centro e Nord America. Dopo la laurea in Lettere presso l’università degli studi di Torino, si è trasferito in America Latina e ha vissuto principalmente in Colombia negli ultimi dieci anni. Dal 2018 documenta i movimenti migratori attraverso il continente per il suo progetto “EXODUS”. 

Quante sensazioni e quante emozioni possiamo percepire? Paura, rabbia, dolore, gioia, amore, malinconia,… un elenco che sembra essere senza una fine. Ogni volta che facciamo qualcosa, ogni volta che ci relazioniamo con una persona, ogni volta che siamo, in qualche modo, in uno stato di movimento, proviamo una sensazione che si traduce in un’emozione, la quale, a sua volta, ci fa venire i brividi o ci fa sorridere, ci stringe un nodo in gola o ci costringe a scioglierlo. Quante volte abbiamo pensato che tutto ciò, che tutto questo bagaglio emozionale appartenesse solo a noi, che fosse quel qualcosa caratterizzante la nostra unicità? Da una parte forse è vero: non c’è nessun altro che abbia vissuto le stesse nostre emozioni, nello stesso identico momento e allo stesso modo, ma il punto è un altro: quelle emozioni, quelle sensazioni sono le stesse che provano, non solo tutti coloro che si trovano nella nostra stessa situazione, ma sono le medesime che provano tutti gli esseri umani. Ed è proprio questo il punto di partenza cognitivo, dal quale è necessario passare per poter apprezzare e interiorizzare le fotografie di Nicolò Filippo Rosso, perché osservando la smorfia di una donna riusciamo a coglierne il dolore, ma non un dolore qualsiasi, ma un dolore che conosciamo, in quanto quella smorfia assomiglia a quella che è apparsa sul nostro volto quando abbiamo saputo della morte di un nostro caro.

Ecco che, allora, proprio in quel momento, la fotografia ha centrato l’obiettivo, ha mosso quel qualcosa dentro di noi che ha fatto sì che ci ricordassimo di quel dolore, trapelato attraverso una “semplice” ombra su uno sfondo. 

La domanda adesso è un’altra: come facciamo ad ignorare quel dolore? Come è possibile oltrepassarlo, camminarci sopra, pestarlo, dal momento che sappiamo per esperienza cosa si prova in quel momento? La risposta è scontata in realtà: semplicemente ci copriamo gli occhi con un mantello di individualismo e ci tappiamo le orecchie ascoltando le stronzate sulla diversità e sul razzismo e sul perché non sia “conveniente” cercare una soluzione al dolore di altri esseri umani. 

Se ci fermiamo per un secondo, facciamo due passi indietro e ci osserviamo, noteremo che siamo tutti quanti parte di un gigantesco girotondo, che ruota attorno al dio del “proprio interesse”; ognuno lo venera come meglio crede: fingendo di non vedere il marcio del mondo, reprimendo dentro di sé il sentimento, tutto umano, di empatia verso i propri simili o, ancora, convincendo sé stesso di essere troppo piccolo per un problema così grande. Tutto questo perché? Perché “ci conviene”: ci conviene autoconvincerci di non poter fare nulla e quindi, in qualche modo, ci sentiamo autorizzati a “lavarcene le mani”. 

Se per una volta riuscissimo a lasciare andare le mani di questo girotondo, forse, allora, avremmo le mani libere per afferrare quelle di chi non vive con i nostri stessi privilegi, saremmo capaci di strappare il mantello dell’individualismo che ci copre gli occhi, per spalancarli sulla vera realtà.





Il mio anno di riposo e oblio

Recensione libro

Sentivo la certezza di una realtà che gocciolava via da me come calcio da un osso. Stavo depravando la mente con l’opacità. Provavo sempre meno sensazioni. Le parole arrivavano e le pronunciavo nella testa, poi mi accoccolavo sentendo il loro suono, mi perdevo nella musica.
(da Il mio anno di riposo e oblio, Ottessa Moshfegh)

Vi è mai capitato di desiderare di chiudere i ponti con il mondo per sempre? Di sentire il suono della sveglia e voler maledire il sole che si sta alzando in cielo? O di voler ricominciare da capo, una vita da zero? Ebbene, su queste tematiche si è interrogata Ottessa Moshfegh.

Il mio anno di riposo e oblio non ha una trama affatto complicata. Gira sulle stesse vicissitudini, andando sempre a variarle leggermente. Si concentra sugli stessi tre/quattro personaggi, mettendo in luce le loro ombre. L’impalcatura è semplice, ci si arrampica con estrema agilità. Ridicolizza l’assurdità dei rapporti umani, delle relazioni con il mondo e con la società. Fino a raggiungere l’ultimo capitolo, in cui si accumula di botto tutta la tensione che nel corso dei mesi della vita della protagonista era stata accantonata: l’esplosione di un finale crudele, che svela la profondità delle pagine che si hanno letto ridendo sotto ai baffi. Per tutto il corso della lettura mi sono più volte chiesta come sarebbe potuta andare a concludersi una vicenda così bizzarra, tanto per il contenuto quanto per la forma con cui è stata scritta, senza sfociare nel banale, nell’insensato o, ancor peggio, nel trascurato. E invece, mi ha lasciato davvero senza parole. E considerando la scrittura straordinariamente equilibrata della Moshfegh, in grado di bilanciare egregiamente l’ironia e la serietà, forse c’era da aspettarselo.

La vita è tentare, ci dice anche questo il romanzo della Moshfegh. L’attesa è sempre più lunga del momento in sé, in cui accade quanto vorremmo accadesse. Vivere è sinonimo di aspettare. Il libro tende già dal titolo ad arrivare a quel momento. Un momento che sfugge di continuo. Un momento che sembra al contempo ardere nel desiderio della protagonista e avvizzirsi nella sua paura. Sfugge da solo o viene rimandato? È veramente la concretizzazione di quel progetto l’obiettivo della protagonista?, ci si chiede. La risposta che mi sono data è che spesso ci costringiamo a convincerci a volere qualcosa, sebbene in cuor nostro non la vogliamo. Ignoriamo i segnali che ci allertano di questo masochismo, sebbene siano piuttosto evidenti. E così, finiamo per ferirci da soli, in un mondo in cui la sofferenza piove su di noi anche nelle giornate di sole. E per quanto si possa provare a scappare, l’incubo del nulla, del vuoto più totale, ci perseguita anche da svegli.



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