Perché è importante leggere, ascoltare, vedere, vivere queer?

E no, non intendo dire che dovremmo tutti guardare Sex Education, anche se può essere un buon punto di partenza per chi vuole uscire dall’oscurità della cis-eteronormatività. Ma possiamo fare molto di meglio (o quanto meno ci possiamo provare).

Prima di tutto, per favorire una partecipazione attiva

Quando si parla di “leggere/ascoltare/vedere/vivere” queer, si intende dare voce alle persone LGBTQIA+ (si, è noioso cercare di esseri inclusivi, ci metto 3 secondi in più a scrivere questa sigla, non so se potrò sopravvivere, aiuto) e quindi evitare di ridurre le loro esperienze attorno al fatto di appartenere alla comunità, a mere parentesi di una discussione più ampia, a semplici oggetti all’interno dei media più comuni, adatti solo a “mettere la spunta” ad uno dei personaggi da inserire all’interno di un prodotto (pseudo) artistico per essere considerati politically correct e in pace con la propria coscienza (nella speranza che essa ci sia, forse sono troppo ottimista e ingenua).

È cruciale non solo parlare di loro, ma permettere alle persone trans e queer di prendere in mano la narrazione (inteso come il singolo racconto all’interno di un sistema di comunicazione), di farle passare “dall’altra parte del bancone”, permettendo loro di raccontare senza esistere solo in funzione di trame perbeniste che le riducono a strumenti didattici per chi non fa parte della comunità. Quanto ne gioveremmo a smettere di filtrare le loro voci attraverso la lente eteronormativa e cisnormativa che distorce e ovatta le loro esperienze? Quanto una più giusta e sincera rappresentazione potrebbe sbloccare menti che ora come ora non riescono ad empatizzare con una persona LGBTQIA+ ? 

Non è questa la potenza della narrazione? Raccontare il mondo non solo com’è, ma anche come potrebbe essere.

Quando le narrazioni vengono raccontate da chi non vive da vicino (almeno) o in prima persona, queste risultano filtrate, distorte, ridotte a caricature che perpetuano stereotipi. Un esempio lampante di questo squilibrio lo troviamo nel panel sull’aborto a Porta a Porta, andato in onda il 18 aprile 2024, dove sette uomini discutevano di aborto. Sette uomini, a discutere di una questione che riguarda principalmente i corpi femminili. Il problema è lo stesso: una lente eteronormativa e patriarcale che continua a filtrare argomenti che non gli appartengono.

Pensiamo a cosa accadrebbe se, invece, fossero le persone queer e trans a creare le proprie narrazioni e a dare voce alle proprie storie. La visibilità e la rappresentazione sarebbero più rispettose delle esperienze reali di chi vive queste identità? Io credo proprio di si.

La necessità di spazi dedicati e di voce autentica

Creare e sostenere spazi queer, spazi dedicati alla comunità LGBTQIA+ è fondamentale perchè spesso, la loro voce arriva smorzata, distorta, proprio perché chi prende le scelte all’interno degli spazi di rappresentazione mainstream appartiene a una classe sociale cis e etero che non conosce queste esperienze e quindi le dipinge attraverso le proprie percezioni, altrettanto spesso, distorte.

É importante parlare di spazi dedicati perché dobbiamo considerare la presenza strisciante di omotransfobia che si manifesta in una serie di microaggressioni a danno delle persone LGBTQIA+. Secondo i dati ISTAT del 2020-2021, 6 persone LGBTQIA+ su 10 hanno riportato di aver subito microaggressioni sul posto di lavoro. Questo clima di ostilità rende difficile esprimere in modo sereno la propria identità, i propri pensieri, le proprie opinioni (vorrei specificare “per le persona della comunità LGBTQIA+”, ma credo sarebbe difficile per chiunque nella stessa posizione).

Tentativo rivoluzionario

“Leggere/ascoltare/vedere/vivere” queer è un modo per sfidare il silenzio, per abbattere i pregiudizi e per creare un mondo più inclusivo, in cui ogni voce possa risuonare senza filtri o distorsioni. Non si tratta solo di consumare passivamente contenuti, ma di immergersi in storie che ampliano le nostre prospettive, mettendoci in contatto con esperienze umane che troppo spesso vengono messe al lato, permeate da ipotesi senza conferme e senza confronto.

 

Dizionario essenziale:

Cis-eteronormatività = sistema sociale che presume e privilegia l’eterosessualità e l’identità di genere cisgender come norma, le identità e relazioni non eterosessuali o non cisgender sono considerate devianti o meno valide.

LGBTQIA+ = Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali, Asessuali e altre identità di genere e orientamenti sessuali. 

Omotransfobia = avversione ossessiva per gli omosessuali e l’omosessualità, i transessuali e la transessualità.

Queer = un termine ombrello che indica identità di genere e orientamenti sessuali non conformi alle norme eterosessuali e cisgender. 

 

Riflessioni tratte dall’incontro: “(Re)fuse L’informazione verso il 25 novembre” presso la libreria Zalib – Centro Giovani

 

 

Gennaio è VEGANUARY

Gennaio, primo mese dell’anno, è da sempre mese di buoni propositi e nuove abitudini per l’anno che viene.

Ma gennaio è anche l’occasione buona per provare a essere un po’ più vegan! Esiste infatti da anni un’iniziativa, il veganuary, che cerca di sensibilizzare le persone sull’alimentazione plant-based. Iscrivendoti alla challenge riceverai consigli e ricette che ti aiuteranno ad affrontare questa “prova” con minor stress e sbattimento.

Ma perché scegliere un’alimentazione, anzi uno stile di vita, vegan?

In primis per gli animali! Numerose ricerche dimostrano che sono esseri senzienti capaci di provare emozioni e non oggetti da utilizzare a proprio piacimento. Hai mai visto un maialino scodinzolare e cercare attenzioni come fa un cane? O una mucca giocare a palla? Questa è la realtà nascosta dietro agli allevamenti che troppo spesso ci viene nascosta.Se scegli vegan ti ringrazia anche l’ambiente! La pratica dell’allevamento, anche quello del vicino dello zio del cugino, è altamente inquinante e impatta tantissimo sulle emissioni di gas serra e quindi sul riscaldamento globale.Infine, ma non per importanza, per te! Diete con un ridotto apporto di proteine animali sono salutari anche per il tuo organismo, qualsiasi sia la tua età. Ormai sono sempre di più le ricerche che dimostrano i benefici dello stile di vita vegan (non è una dieta e basta) e che confutano le solite bugie che vengono dette su chi adotta questo stile di vita.

Anche con tutti questi benefici è difficile scegliere di essere vegan, perché impariamo fin da piccoli che mangiare carne, vestirsi con la pelle, ecc… sia normale. La società ha normalizzato queste pratiche e ci insegna a vedere alcuni animali non umani come oggetti. Non è facile, quindi, fare la cosiddetta “transizione”.

Ma ora che sai di veganuary cosa aspetti? Che sia per gli animali, per te o per l’ambiente, gennaio è l’occasione giusta per essere aiutato in questa transizione e per non doversela cavare da solə!

Buon anno di amore e gentilezza <3

Noi vogliamo tutto

Noi vogliamo tutto. Cronache da una società indifferente, F. Carlini                             

La rabbia della consapevolezza

Pensate che la rabbia sia un sentimento negativo? Uno di quelli da placare, controllare, dosare; che è meglio non esprimere per rimanere composti, docili.

Lo pensavo anche io, eppure, Flavia Carlini, giovane attivista e divulgatrice politica, in Noi vogliamo tutto, la elogia, ne racconta la necessità e come usarla. Una rabbia che è protagonista o fine di tutti i capitoli. Quella rabbia, nata dalla consapevolezza e non dall’odio, da abbracciare ed usare per uscire dagli schemi dicotomici in cui ci troviamo piuttosto che accettarli passivamente.

«Ciò che leggerete è indicativo, anche se certamente non esaustivo, di un sistema di violenze in cui siamo cresciuti nella convinzione che il funzionamento della società ci prescinda e non sia direttamente influenzato dal comportamento di ognuno di noi. Questa è una menzogna.»

Noi vogliamo tutto, parla di potere, privilegio, corpi, storie di donne oppresse, coraggiose, dimenticate. Si parla di numeri e statistiche che, dopo ogni capitolo, rendono ancor più gravi e concrete le parole appena lette. Carlini dà voce a chi non ne ha o a chi, seppur urlando, non viene ascoltato. Anche attraverso le sue esperienze personali, racconta le discriminazioni di genere, lavorative, mediche e come vengono giustificate e legittimate dal sistema stesso che le produce e riproduce.

Con la scorrevolezza di un romanzo e la precisione di un saggio, mostra realtà del mondo occidentale che sono nascoste, così normalizzate che non vengono più notate, a cui siamo indifferenti perché è questo l’unico mondo che conosciamo.

Queste parole hanno avuto, su di me, un impatto forte, come un richiamo all’azione, come la spiegazione di qualcosa che sentivo, che sapevo esistesse ma che non avevo ben chiara. Ricordo la sensazione che ho provato mentre lo leggevo e la consapevolezza, mista ad amarezza e voglia di alzarmi e lottare, che mi ha pervasa leggendo questo libro. L’ho chiuso, una volta terminato, desiderando che tutte le persone che ho intorno potessero leggerlo per essere certa che anche loro si rendano conto della realtà, che possano mettere in discussione le proprie certezze o convinzioni, e che agiscano.

Ci affidiamo alla scienza, alla storia, ma ci siamo mai chiesti chi racconta la storia? Che storia e che scienza ci vengono fornite? Ci siamo mai domandati se le nostre stesse azioni abbiano mai contribuito a rafforzare una discriminazione o uno stereotipo?                                                                

Se ve lo siete mai chiesto, allora questo libro può darvi alcune risposte che cercate o, quantomeno, aprirvi una strada per approfondire i tanti temi che vengono proposti.  Alla fine del libro l’autrice ha raccolto una bibliografia interessantissima (e necessaria!), che ha chiamato «l’anatomia della sua rabbia» in cui si trovano spunti da cui partire per guidare la vostra di rabbia.

 

BARBONE

“Ho finito anche le lacrime”

Queste parole Guido (nome inventato), un senzatetto che vive per la strada a Cuneo, le ha ripetute più volte, ieri sera. Le ha ripetute quando parlava di Michele (nome inventato), uno dei suoi migliori amici, morto pochi mesi prima, anche lui in strada. Le ha ripetute parlando di altri suoi amici, che la morte ha preso con sé, alcuni anche sotto i suoi occhi. 

È stata la prima volta che sono andata a fare Unità di strada. E non sapevo che aspettarmi, se no che avremmo incontrato quelli che chiamiamo comunemente “barboni”, e avremmo offerto loro un po’ di conforto. E così è stato, se non fosse che, quando senti con le tue orecchie parole così dure e vere, allora cambia tutto. Non è più solo un sapere che a Cuneo c’è gente che non ha casa, che vive per strada. È conoscere quella gente: è conoscere Guido, che attualmente alloggia in una delle piazze di Cuneo, un po’ riparato sotto un tetto. È vedere i suoi occhi, i suoi denti tutto fuorché sani. È sentire le sue battute, perché avrà perso tante cose, ma non l’ironia. E quindi si scherza, si ascoltano le sue storie, che spesso sono molto fantasiose perché a parlare è anche (e in gran parte) l’alcool. L’alcool che ti aiuta a sconfiggere il freddo e a non pensare. Forse le due difficoltà più grandi di chi vive così. L’alcool che non manca mai tra gli averi di Guido, ma che ieri sera non sembrava parlasse troppo. Infatti Guido ci ha raccontato della sua famiglia, mescolando francese e italiano, lingue che mastica entrambe molto bene. Abbiamo così scoperto che proviene da una famiglia di artisti, e che tra di loro si è sempre trovato bene. A girare con gli artisti. E quando poi gli abbiamo chiesto se avesse bisogno di qualcosa, ci ha chiesto biancheria intima e coperte, ma non solo per lui: erano per lo più per i suoi amici. Questa solidarietà mi ha toccata nel profondo, questo pensare agli altri prima che a noi. Cosa per loro più che normale, perché chi vive in strada ha anche bisogno di avere persone fidate, a cui rivolgersi in caso di bisogno. E così ci ha detto che oggi un ragazzo gli ha portato il pranzo della mensa. E che un altro gli ha offerto le sigarette, e quindici euro. Ci ha detto che fatica a mangiare, che in questi ultimi giorni non ha mangiato quasi niente. Il suo “apparato intestinale”, come ha giustamente detto lui, fatica. Durante la notte è sempre più preda di dolori forti che, assieme al freddo invernale, gli impediscono di dormire. 

Io avevo i piedi ghiacciati, nonostante le calze spesse e le scarpe da montagna. E sentire lui, che in quella condizione ci vive, tutto il giorno, tutti i giorni, magari con l’eccezione di un pasto caldo in mensa, o di due orette all’interno di un bar, mi ha fatto pensare. A quanto abbiamo tutto. A quanto ci lamentiamo appena sentiamo un po’ di freddo, appena abbiamo un po’ male allo stomaco. Appena abbiamo un po’ fame e non possiamo soddisfare questo bisogno nel giro di cinque minuti. A quando non possiamo lavarci per un giorno. A quando ci sentiamo soli, non ascoltati, dimenticati. Ecco, tutto questo è la vita di chi è senzatetto. La vita quotidiana, le emozioni di tutti i giorni. 

Non ho potuto fare altro se non ascoltare. Gli abbiamo offerto una tisana calda, un po’ di calze spesse, che avrebbe dato a un suo amico, insieme a delle scarpe numero quarantacinque. Per lui abbiamo portato una coperta spessa. Ci ha chiesto anche lui delle scarpe, perché quelle che ha gli fanno male, e vorrebbe cambiarle. 

Prima di andarcene gli abbiamo detto di non mollare. Sembrava quasi una presa in giro, dopo tutte le sofferenze che ci ha raccontato. Ma cos’altro possiamo fare se non dargli la speranza? Speranza che, parole sue, sta esaurendo. Dice che non cambierà la situazione, che non lo ascoltano, che non lo aiutano. Che il SERT non lo prende in carico, che non gli rispondono, che lui non ha più voglia.  Più volte ha detto “Il mio fisico non ce la fa più, tra un po’ finisco pure io come gli altri”. E “come gli altri”, in sostanza, significa morto. Morto per strada, congelato, per infarto, o chissà per quali altri mille motivi. Come è possibile parlare così della morte? Me lo sono chiesta. E non lo so, so solo che le parole che ho sentito mi sono entrate dentro, e soprattutto la semplicità di come le diceva, come se fosse automatico. Senza paura, senza lasciare trasparire emozione, come fosse un’automatica causa-conseguenza. 

Sono grata di aver avuto la possibilità di trascorrere due ore fuori questo mercoledì sera. Se penso che da anni c’è gente che ogni mercoledì si trova a fare il “giro dei senzatetto”, o in termini più giusti, a fare “unità di strada”, allora ieri sera ho fatto pochissimo. Penso inevitabilmente a quanto sono fortunata. A quanto inutile sia ogni mia lamentela, ogni mia polemica, ogni mia difficoltà, se comparata alla loro. So che non serve fare paragoni e confronti. Sicuramente però conoscere aiuta ad essere più consapevoli. E aiutare, anche solo ascoltando e chiacchierando mezz’ora una sera con uno come Elia, è sempre meglio che non fare niente. Serve a ricordare loro il loro valore, perché ne hanno, nonostante siano considerati gli ultimi della società. Queste vite umane, sono vite come la nostra. 

Ringrazio Christian, e Ilaria, che fanno parte ormai da anni dell’Unità di strada, che ogni mercoledì sera esce a Cuneo e fa il giro. E ogni domenica mattina, dalle sette alle nove, offre colazione ai senzatetto. Senza il loro coraggio, la tenacia, la frequenza, la voglia, nessuno si disturberebbe di provare a conoscere e trovare soluzioni a questo problema, che a Cuneo affligge un numero contenuto di persone, ma che solo a Torino interessa ottocento persone. Ottocento persone che vivono per strada. 

“C’è bisogno di silenzio, c’è bisogno di ascoltare, c’è bisogno di un motore che sia in grado di volare”, diceva una canzone di Guccini e dei Gen Rosso, non a caso intitolata “Lavori in corso”. Possiamo essere noi i protagonisti, anche se in piccolissima parte, di questi lavori, perché i senzatetto non si sentano invisibili, ultimi, la feccia della società. 

Possiamo fare qualcosa, anche nel nostro piccolo, perché tutto è meglio dell’indifferenza.

 

Tra falò sulla spiaggia e isole caraibiche da sogno: come la serie Outer Banks alimenta il nostro desiderio di estate

Negli ultimi anni il famosissimo sito di streaming americano Netflix ci ha abituati a diverse serie cult, iniziando da Stranger Things, passando per La casa di carta e arrivando a Rick and Morty , eppure tutte queste non riescono a trasmettere la voglia di festeggiare sulla spiaggia e godersi la bella stagione come Outer Banks, serie ideata da Josh e Jonas Pate e da Shannon Burke, che tocca diversi temi quali: l’amore adolescenziale, le differenze sociali, la ricerca di un tesoro perduto e la vendetta.

La serie parla di un giovane, John B. Routledge, che insieme al suo gruppo di amici detti Pogues (termine che riprende il nome di un pesce, in inglese Pogie, che, come detto fin da subito proprio dal protagonista, è un tipo di animale che viene pescato molto facilmente ma che viene subito rilasciato in quanto inutile) cerca di trovare suo padre, scomparso da ormai otto mesi per cercare il tesoro presente sulla Royal Merchant, una nave affondata qualche secolo prima, per la quale ha dedicato gli studi di una vita. Nel suo cammino per riconciliarsi con Big John Routledge, John B. affronta innumerevoli peripezie, che lo portano anche a legarsi sentimentalmente con Sarah Cameron, figlia del ricco imprenditore Ward, e componente principale dell’altra classe sociale presente sull’isola, ovvero i Kooks. Essi compongono la parte ricca delle Outer Banks, e ciò porta loro a disprezzare il gruppo del protagonista, dato che i Pogues sono ragazzi scapestrati e anticonformisti, i quali vivono ai limiti della legalità. L’amore tra i due è però un sentimento che trascende i limiti imposti dalla società, motivo per cui i giovani si allontanano dalla loro casa per seguire il tesoro perduto fino alle Bahamas, contando solo su loro stessi.

Successivamente, la coppia riesce a riconciliarsi con i restanti ragazzi al fine di fronteggiare una minaccia incombente, vero motore della trama della serie. Durante le tre stagioni, divise ognuna in dieci episodi, i protagonisti viaggiano moltissimo, arrivando addirittura a isole deserte con paesaggi mozzafiato, accrescendo la nostra sete di scoprire tutte le meraviglie naturalistiche che il pianeta Terra può offrire, possibilmente in periodi in cui il clima è favorevole come in quelli estivi.

In particolare, se si vogliono visitare i paradisi terrestri dove è stata girata Outer Banks, c’è bisogno di prendere una crociera per le Barbados, cosicchè si abbia la possibilità sia di fare delle vacanze dall’altre parte del mondo e in luoghi fantastici, sia di potersi recare negli ambienti presenti nella serie, come la Cove Spring House. Oltre a ciò in diversi episodi i personaggi, soprattutto coloro che fanno parte della classe dei Krooks, organizzano vari party sulla spiaggia, durante i quali spesso ci si raduna intorno ad un falò, elemento immancabile durante un evento del genere.

Per queste motivazioni, personalmente credo che Outer Banks sia una serie adatta ad un pubblico prettamente giovane, che possa aver provato sulla propria pelle quelle esperienze di amicizia, amore e condivisione di momenti significativi onnipresenti nelle diverse puntate, che possa prendere spunto dalle avventure vissute da John B. and co. per passare un’estate all’insegna del divertimento, e chissà se anche a ritrovare qualche tesoro perduto da secoli…

 

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