Non è una recensione di Perfect days

Andare al cinema la domenica sera, in inverno, col freddo fuori e la pioggia, suona proprio bene. Io e la mia amica andiamo con largo anticipo, siccome il giorno prima i miei non sono riusciti a vedere il film per la troppa gente che aveva prenotato il biglietto prima di loro. Paghiamo e attendiamo fuori. Non so cosa aspettarmi: ho visto il trailer, ma non conosco bene il regista, non ho visto nessun altro suo film, nonostante mio padre rimarchi sempre la bellezza della storia di “Il Cielo sopra Berlino”. Sono però convinta che valga la pena guardare Perfect Days, perché la mia amica è appassionata di cinema più di quanto lo sia io e ha insistito perché andassimo insieme. Ci avviamo nella sala, ben riscaldata, le luci si spengono, sullo schermo compare lo stemma del Festival di Cannes, inizia la magia. 

Le recensioni che avevo letto non mentivano: non smetteresti mai di guardarlo. Ed è stato così anche per me. Nonostante nelle immagini che vedevo, non ci fosse un’adrenalina che non ti fa stare fermo, né un’ansia per un giallo da svelare, né la paura di un thriller. C’è la vita quotidiana di una persona umile, che ha trovato il suo modo di esistere nel mondo. Da subito mi sono sentita vicina, empatica nei confronti di Hirayama, calma e quieta nel vedere il suo modo di vivere la vita.

Lunghi piano-sequenza, che rivelano nulla di più che le azioni quotidiane che anche io ogni giorno compio: svegliarsi, lavarsi i denti, vestirsi, lavorare, mangiare, scattare fotografie, bersi qualcosa al bar, leggere un libro prima di dormire. Eppure il tutto è straordinario, perché il modo in cui il protagonista compie tutto ciò non è, probabilmente, il modo in cui lo facciamo noi: è sereno, sempre, e calmo, felice, tranquillo. Ma soprattutto, in ogni suo gesto c’è una cura e una delicatezza che mi manca, che manca a questo mondo in cui le cose si fanno perché si deve, non perché si vuole. Le cose che faccio sono per lo più fatte senza cura, di fretta, senza attenzione,  invece Hirayama mi insegna il contrario. Mi dice che ogni giorno conta. Che ogni attività che svolgo è importante, senza gerarchia, che ogni cosa che faccio necessita della stessa cura. Anche se il suo lavoro è lavare i bagni pubblici, ogni giorno, tutto il giorno, per una paga piccola e ristretta. Mi insegna che non bisogna fare qualcosa di assurdo, per essere sereni. Perché essere felici è una mia volontà, dipende solo e soltanto da me. E vorrei smetterla di incolpare cause esterne, altre persone, il fato, il destino. Smetterla di pensare al prossimo periodo di vacanza, al prossimo mese senza esami, al prossimo viaggio, rimandando la felicità solo quando avrò raggiunto quel periodo, quella libertà, quel momento, quella persona. “Adesso è adesso”, come dice Niko, la dolce nipote di Hirayama. Non ha senso focalizzarsi su ciò che manca, ed essere sempre infelici. Allora guardo piuttosto a tutto ciò che ho. Mi concentro su poche cose, ma fatte bene. Il segreto sta proprio nelle piccole cose, “quelle che fanno bella la nostra vita”. 

Grazie alla luce sempre calda che a volte è data dallo sguardo stesso del protagonista, e grazie alla quasi assenza delle parole, dei dialoghi, tutto è reso semplice, tutto scorre via veloce e leggero. L’atmosfera che arriva è calorosa e calma, non c’è fretta, né paura. C’è consapevolezza di stare vivendo attimo per attimo un momento unico ed inimitabile. Ho imparato quanto è bello il silenzio, quanto è difficile praticarlo, perché in realtà davvero parliamo troppo, diciamo troppo, non siamo più in grado di ascoltare o ascoltarci, troppo presi dal far valere la nostra opinione, far conoscere la nostra vita, condividere quello che facciamo. Non sappiamo stare da soli. Ma è solo in questa capacità che, forse, ritorniamo noi stessi, nella nostra semplicità di essere umani. Uomini e donne che si svegliano la mattina, si lavano, lavorano, danno spazio alle proprie passioni, e dormono. Quanto cambierebbe la mia vita se fossi in grado di apprezzare ogni piccolo gesto, di dare importanza a ogni piccola cosa che faccio? Quanto sarei più felice e serena se riuscissi a non pensare sempre al dopo, al domani, al futuro, ma godere della possibilità di adesso? 



Un normale ragazzo come pochi

A te, di cui porto lo stesso cognome, e del cui coraggio vorrei avere anche solo un briciolo.

 

Di solito la Camorra non ce l’ha con i giornalisti. 

Per te, invece, anche i camorristi hanno iniziato a leggere il giornale.

Evidentemente, gli articoli firmati “Giancarlo Siani”, scritti mentre eri un precario relegato alla cronaca nera della sezione di Torre Annunziata de Il Mattino, avevano urtato qualcosa di grosso. 

Ora, su quella parete in via Romaniello, resta il tuo sorriso brillante sotto gli occhiali rotondi. Alcuni scorci del tuo volto in vernice bianca e grigia – come la carta del giornale, il tuo campo di battaglia – altri in vernice verde acido, come la tua inseparabile Citroen Mehari, l’unico particolare che ti rendeva meno ordinario degli altri ventiseienni napoletani.

Su quel sedile, la sera del 23 settembre 1985, la tua testa si reclinò grondante di sangue. Discretamente, senza particolare scalpore.

Eri solo un ragazzo assetato di vita e di cambiamento, eppure, ti spararono 4 colpi.

Era il periodo della guerra tra i clan, all’inizio degli anni ‘80. A causa del terremoto e dell’elevatissimo tasso di disoccupazione, le famiglie Bardellino, Gionta e Nuvoletta avevano fatto dei paesi circumvesuviani il loro regno: le loro dimore lussuose svettavano in mezzo alle macerie e alle abitazioni di fortuna della popolazione; schiere di giovani disoccupati venivano arruolati nel giro di spaccio di eroina. 

In quel clima, la tua macchina da scrivere era la portavoce dei disagi e delle ingiustizie della gente comune.

Sei sempre stato intraprendente. Ti gettavi a capofitto tra manifestazioni, ricerche e collaborazioni con diverse testate in modo del tutto naturale, senza discorsi idealistici o presunzioni di eroismo. Anzi, nemmeno immaginavi di averne bisogno. 

Semplicemente, ti eri fatto carico della missione di informare le persone, di dare nomi e volti al marcio che tutti conoscevano, ma di cui nessuno voleva parlare.

Forse non realizzasti la portata di ciò che avresti scritto quando ti proposero una sostituzione estiva nella sede principale del Mattino, a Napoli. 

“Nonna manda il nipote a vendere l’eroina”, questo il titolo del tuo ultimo articolo, che denunciava lo scandalo dei minori coinvolti nel traffico di droga.

Grazie alla tua determinazione, chiaristi gli intricati rapporti di alleanze e inimicizie tra le famiglie camorriste della zona, e scopristi anche le loro relazioni con la mafia corleonese di Totò Riina.

Ma quello che pubblicavi sul giornale era solo la punta di un iceberg che stavi indagando ben più in profondità.

Qualcuno dice che i giornalisti vengono uccisi non per quello che hanno scritto, ma per quello che stanno per scrivere. Forse è per gli appunti gelosamente custoditi nel tuo diario che i Nuvoletta decisero che tu dovevi morire. 

Avevi telefonato a tua madre dicendole che saresti tornato a casa, perché non eri riuscito a comprare i biglietti per il concerto di Vasco Rossi a cui quella sera desideravi tanto partecipare. Ma, prima che potessi scendere dalla Mehari, due ragazzi ti si avvicinarono con le pistole puntate.

Ci sono voluti quasi vent’anni per ottenere le sentenze definitive, però, da quando quegli spari risuonarono per via Romaniello, diventasti un simbolo. Da allora, rappresenti la lotta di chi si rimbocca le maniche senza stare a congetturare sulle conseguenze, rappresenti il sudore e la fatica di scelte vissute e rinnovate attimo per attimo, rappresenti la certezza che, per essere eroi, non bisogna necessariamente ricercare le prime pagine. Anche il cantuccio in una rubrica di nicchia è prezioso

L’uomo che guardava passare i treni di Georges Simenon

Una frase non gli dava requie, nell’ultimo articolo che aveva letto. Si insisteva sulla possibilità che si tradisse da solo.
Come erano riusciti a indovinare che per lui era una sorta di vertigine, che si rassegnava a malincuore a rimanere uno sconosciuto nella folla, che talora provava il desiderio, specie quando incontrava qualcuno in una strada buia e solitaria, di esclamare a bruciapelo:
<<Ma lei lo sa chi sono io?>> .
(da L’uomo che guardava passare i treni, G. Simenon)

Kees Popinga è un uomo normale: vive la sua vita senza particolari ambizioni, ha un lavoro onesto, non ha mai tradito la moglie. Un uomo normale, insomma. Finché non si stufa! Normalità insulsa. È come se sentisse di star percorrendo una discesa con il freno a mano tirato. Lui vuole sentirsi libero. Vuole scendere a massima velocità. Squarciare il tempo. Investire tutto ciò che si oppone al suo impeto.

Con quella punta di amara ironia, Simenon riflette sulla condizione dell’uomo di autoimprigionarsi, di accettare di indossare quelle catene di convenzioni, quelle insulse identità con cui accettiamo di riconoscerci che non sono altro che maschere.

E poi, la curiosità. La curiosità matta di vedere le reazioni della gente a questa libertà sfrenata. La voglia di essere sorprendenti. La voglia di sfrecciare tra la gente, invisibili e impetuosi come una folata di vento che dal nulla scompiglia i capelli e piega gli alberi, aggressiva e indomabile. 

Al diavolo tutto! Al diavolo la falsità, al diavolo la famiglia, al diavolo la legge, al diavolo le conseguenze, al diavolo la paura. Popinga si vuole divertire! 
E ci farà divertire, trasportandoci nelle sue avventure sia fisiche sia mentali.

La bottega della carne

riflessioni sulla carne coltivata, sul progresso e sulla disinformazione

La democrazia è il potere di un popolo informato.

(Alexis de Tocqueville)

Il cambiamento verso cui il mondo si sta lanciando è qualcosa di abominevole. Intelligenza artificiale, macchine elettriche, nanotecnologie di ogni tipo. Il mondo sta mutando volto. Ed è comprensibile che ciò possa provocare confusione, scetticismo e paura, soprattutto nei più anziani, che spesso si sentono comprensibilmente esclusi dal mondo (e questo è un altro enorme problema: basta pensare alla nuova moda dei ristoranti di usare solo e soltanto i menù a QR-code, provocando disagio in chiunque abbia difficoltà a usare il telefono, o, peggio, non ne sia affatto provvisto. Ma questo è un discorso a parte). Io, personalmente, vedo sempre più artificialità e meno natura, meno umanità, meno irrazionalità. È chiaro che bisogna ancora trovare un equilibrio: progresso non significa rinunciare alle radici, alle emozioni. Significa imparare ad essere flessibili, ad allungarsi verso nuovi orizzonti, più luminosi. Significa non lasciarsi accecare dal falso progresso, che è mero consumismo mascherato. Nuovi modelli di telefoni profilati ogni settimana, in cui si cambia solo il design del display o la posizione degli obbiettivi fotografici. Un bel modo di sperperare risorse naturali e desertificare il proprio portafoglio.

Secondo me il progresso vero è un altro: un nuovo farmaco, un vaccino, un nuovo tipo di energia rinnovabile. O la carne “sintetica“, di cui tanto si è discusso ultimamente. Carne vera, tra l’altro più sana, in quanto contenente più proteine e meno grassi rispetto alla carne allevata. Carne fatta in laboratorio, a partire da cellule animali, e che quindi non solo risparmierebbe le inutili e terribili sofferenze a cui è giornalmente sottoposto il bestiame, ma migliorerebbe problemi di portata mondiale, come quello ambientale, estremamente peggiorato dagli allevamenti, o della fame. 

E dunque, se sono questi i presupposti di questa nuova invenzione, quali sarebbero gli ostacoli che bloccano i governi dal metterle in commercio, o le tesi supportate da chi ha portato avanti le critiche? 

A parer mio, è tutta una questione di disinformazione. Quando si dice: “Non giudicare un libro dalla copertina”. Si legge “sintetico” e magari si pensa alla plastica, al poliestere. A qualcosa di fabbricato, di non naturale, di non sano. Ma la realtà dietro è ben diversa: non si aggiunge alla carne sintetica alcun tipo di sostanza, né la si sottopone a processi astrusi o dannosi: invito chiunque a cercare articoli di scienziati e professionisti del settore.

Il concetto è sempre il solito: non bisogna fermarsi alle apparenze. Bisogna informarsi, cercare su tante fonti e che siano affidabili, prima di mettere i paletti attorno ai propri pensieri. Le opinioni non sono univoche per definizione, ma devono essere basate sulla conoscenza, non sull’ignoranza o sul “sentito dire”.

Armonia d’amore, d’asfalto e di musica

Parliamo di Lovebars, di Coez & Frah Quintale

Il presupposto è già chiaro dal titolo del disco, uscito l’8 settembre di quest’anno. Silvano Albanese (aka “Coez”) e Francesco Servidei (aka “Frah Quintale”) vogliono comporre un mélange del loro vasto bagaglio culturale, allontanando la possibilità di relegare le loro esigenze artistiche sotto l’etichetta di un determinato genere. Indie, Pop, Hip-Hop, Urban, che sia. I due cantautori decidono di accostare due aspetti del loro stile che li hanno caratterizzati e resi noti al grande pubblico: la canzone d’amore e il rap. Se qualcuno ritenesse che i due non siano affatto affini a questo genere, dovrebbe provare a informarsi sulle loro origini; entrambi provengono da un contesto sociale che li ha fatti passare attraverso la tipica gavetta underground. E basta dare un ascolto al primo pezzo dell’album, Era già scritto, o a Local Heroes (produzione di Bassi Maestro, icona del genere underground in Italia), per averne una conferma.

 

[Era già scritto, Coez]

La povertà non è mai stata un’opzione

Studiare non l’ho nemmeno preso in considerazione

Ed ho iniziato a rappare con l’ambizione

Di farne una professione e pensavi fossi ‘n cojone

 

[Local Heroes, Frah Quintale]

Ciò che volevo per me non si chiede

Nessuno ti regala un cazzo

Torno con questo flow nel mio quartiere

Per strada stendete un red carpet


A riguardo, Coez e Frah dichiarano nelle Storyline su Spotify©: «Tanta gente che ci segue sa ben poco di noi, un minimo di presentazione era doverosa. Era giusto mettere le cose in chiaro fin da subito, in questo disco abbiamo fatto molto rap». 

E se la prima parte del loro percorso è stata segnata dalle rime e dalle “barre” più affini all’Hip-Hop, successivamente hanno dimostrato a tutta la nazione le loro doti canore, più melodiche, che li hanno portati ad avere – in due – quasi otto milioni di ascoltatori mensili su Spotify©. Lovebars sembra essere il sunto di queste due anime di entrambi gli artisti. Lo dichiarano loro stessi, in un’intervista condotta da Dargen D’Amico pubblicata sul profilo Youtube ufficiale di Coez: «Ci sono le barre, ci sono i ritornelli sempre cantati, quindi tanta melodia, c’è un sacco di amore». Un amore che però non vuole avere il sapore della dedica smielata (unica eccezione per la title track), ma che punta a immergersi nella più aperta definizione di amore come sentimento passionale, tormentato, tipo quello dei «rapporti difficili», ma anche di amore universale inteso come «lo stare insieme, l’accettare le cose belle e brutte di un’altra persona», come specificato da loro nell’intervista.

Al di là del lato più espressamente musicale, un aspetto che emerge da ogni pezzo è l’affiatamento e la compatibilità che si è stretta fra i due protagonisti, risultato di più di dieci anni di amicizia e stima reciproca. Questa, in particolare, non risalta da chiari riferimenti a riguardo nei testi delle canzoni, bensì dall’atmosfera armonica che la composizione musicale fa uscire fuori. Coez e Frah si completano perfettamente in ogni traccia, tanto da affidarsi a un solo featuring in tutto il disco(Guè in DM).  Un’esemplificazione evidente la troviamo proprio nelle strofe della title track Lovebars, dove i due si passano fruttuosamente il microfono, proprio come fossero nel pieno di una battle freestyle. Invece, ecco che l’elemento underground va ad amalgamarsi insieme a quella canzone-dedica più smielata di cui prima:

 

[Lovebars, strofa 1: Coez & Frah Quintale]

È inutile che mandi i messaggini

Quali massaggini, quali passeggini

Quando passi, gira il mondo

Quando non ci sei, si ferma, tocco il fondo

Tu mi mandi fuori, tu mi lasci sotto

Forse puoi aggiustare questo cuore rotto

Hai tipo mille chiodi, io e te in mille modi

L’abbiam fatto su ogni mobile del tuo salotto

Yeah, baby, stringimi le mani, sei la mia migliore amica

La mia bro della vita, la mia lolita

La mia love story, noi ragazzi fuori made in ITA

La mia signorina, stiamo bene insieme

Quanto cazzo sei figa, fra’, un po’ meno greve

Scusa, bro, sì, lo so, è un po’ fuori luogo, ma però

 

E al di là delle tematiche che fuoriescono dai testi (le origini “di strada”  e l’amore passionale già citati, ma anche il tipico binomio materialismo-vuoto esistenziale legato al successo, come si sente in Vetri fumè), ciò che salta fuori dall’album è davvero la sintonia artistica con cui i due si stendono sul tappeto musicale cucito dagli strumenti, dando vita a un’atmosfera di leggerezza mista a malinconia che aderisce perfettamente al loro stile.
Sempre dall’intervista con Dargen: «Per fare un joint album per forza devi uscire dalla tua comfort zone. Dopo anni che uno lavora da solo con la propria roba, per forza quando si lavora in due bisogna mollare un po’, bisogna sapersi fidare. E questo ti permette di cambiare prospettiva, anche sulle proprie cose, sulle proprie battaglie». I due artisti si sono messi a disposizione, si sono aperti; hanno procacciato un terreno comune dal quale trarre un frutto buono. Forse la loro affinità è sempre stata percepibile, ma il fattore di non-sorpresa non va ad intaccare la bontà del frutto di questo loro lavoro. Nella stessa intervista, Coez sottolinea: «Il fatto di scrivere con un’altra persona, con cui conduci un processo creativo, può permetterti di tirare fuori della roba che magari anche tu avresti fatto, ma non da solo. E’ un processo diverso, come se l’altra persona ti facesse da specchio». «Da solo sei te che ti confronti con te stesso. In due può essere che l’altro è capace di farti venire un’illuminazione a cui da solo non saresti mai arrivato» aggiunge Frah Quintale. Dalle loro parole si sente come la collaborazione sia risultata fluente e accrescitiva per entrambi. Possiamo aggiungere che questo si è sentito anche nella musica.
Ciò che sembra omogeneo, dunque, forse non è il genere dell’album, o la definizione di amore contenuta all’interno, ma la naturalezza e la disponibilità con cui Coez e Frah si sono alleati per fornire ai propri fans un prodotto nuovo, fresco, dopo anni di gavetta e successo in solitaria.
Lovebars è quindi il frutto gustoso di quest’alleanza: un inno all’amore che è limpidamente rappresentato dall’intesa che i due hanno avuto sopra il microfono. E, grazie a quell’amore visto come «stare insieme», noi abbiamo potuto godere di uno dei dischi più interessanti del 2023. 

Qualcosa è cambiato

Regia di James L. Brooks, produzione americana del 1997

Durata: 2h 19 minuti

Tipologia: Romantico/commedia

Classificazione: T

Pellicola presente al 140mo posto nella lista dei migliori 500 film di tutti i tempi.

Il film ha ottenuto 7 candidature e vinto 2 premi OSCAR (terzo a Nicholson come attore protagonista e uno ad Helen Hunt come attrice), 6 candidature di cui tre vinte ai GOLDEN GLOBES.  

Di cosa sto parlando?  Del film Qualcosa è cambiato.

Un film imperdibile capace di dare una ventata di aria fresca ad una storia d’amore ostacolata dalle diversità dei personaggi. Se state pensando che questo film sia l’ennesima pellicola romantica, sdolcinata e noiosa… Beh, vi sbagliate di grosso!

Lasciate che vi racconti: il nostro caro Jack Nicholson veste i panni di Melvin uno scrittore di romanzi rosa, amatissimo dalle donne, ma dalla personalità disturbata da diversi disagi ossessivo-compulsivi e, per non farci mancare niente, con un pessimo carattere.  Come quella battuta: “…vada a vendere pazzia altrove: qui siamo al completo…”

Premetto che non sono una grande fan di film romantici ma questo, signori e signore lettrici è fantastico! Ed anche con un record di 5 visioni (ne vado abbastanza fiera) rimane esilarante come la prima volta …

– “… È così stravagante che mi invoglia a guardarlo “- questo il commento di un mio famigliare durante la sua prima visione.

Melvin è detestabile e non perde occasione per offendere chiunque. Razzista, non ama neri, gay, ebrei, vecchiette e cani. Per ironia della sorte ha come vicino di casa un pittore omosessuale squattrinato padrone di un cagnolino di nome Verdell.  Il protagonista tenterà di farlo fuori scaraventandolo nello scarico dei rifiuti!!! Nonostante questo, l’animale si affeziona a Melvin riuscendo a penetrare nel suo cuore e scoprendone un lato tenero.

Melvin si accorge che dentro di sé qualcosa è cambiato quando inizia ad avere un rapporto più “umano” con la cameriera Carol, ragazza-madre di un bambino malato. Dice: “…lei mi ha sfrattato dalla mia vita…”. E’ l’unica persona in tutta New York che lo sopporta.

-…Quando sei venuto a fare colazione… la prima volta che ti ho visto, ho pensato che eri un bell’uomo. Poi, certo, hai parlato…-

Questa bellissima commedia romantica lotta contro i più banali pregiudizi e rispecchia le piccole paranoie che ci sono in tutti noi. Vi lascio con una frase che mi ha toccato il cuore:

“…. mi fai venire voglia di essere un uomo migliore…”

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