All’alba di sabato 7 ottobre un’offensiva via terra, aria e mare è partita dalla striscia di Gaza contro lo stato ebraico. E’ l’inizio di una guerra. Ma come siamo arrivati fin qui? Dove e quando nasce la tensione tra Palestina e Israele?
Per capire l’origine del conflitto israelo-palestinese bisogna andare indietro alla fine del XIX sec. quando, sulla spinta dei nazionalismi europei e in risposta all’acuirsi dell’antisemitismo, il giornalista austriaco Theodor Hertz elaborò l’ideologia del sionismo, movimento politico che rivendicava l’autodeterminazione del popolo ebraico ipotizzando la Palestina e l’Argentina come possibili destinazioni per l’insediamento dei coloni.
Fu la connessione culturale con Gerusalemme che spinse il movimento sionista ad optare per la Palestina, all’epoca definita come l’area geografica delimitata ad ovest dal Mar Mediterraneo e a est dal fiume Giordano. Anche se la migrazione di ebrei europei verso questo territorio era cominciata già alla fine dell’ottocento, il fenomeno divenne più consistente con la fine della prima guerra mondiale dopo che gli inglesi riuscirono a sottrarlo all’Impero Ottomano.
Le rivendicazioni del movimento sionista trassero forza dalla dichiarazione Balfour, una lettera che nel 1917 il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour scrisse a Lord Lionel Walter Rothschild, sionista e membro di spicco della comunità ebraica inglese, nella quale il governo di sua maestà affermava il suo supporto alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Alla fine del conflitto i paesi vincitori si spartirono le province arabe dell’Impero Ottomano alla conferenza di Sanremo del 1920. Il territorio della Palestina insieme a quello dell’attuale Iraq e Giordania furono affidati alla Gran Bretagna, mentre Siria e Libano passarono sotto il controllo della Francia.
La presenza di Londra e Parigi fu poi istituzionalizzata dalla società delle nazioni, nucleo di quelle che saranno le Nazioni Unite con la creazione dei mandati. Si trattava di un sistema in cui le potenze coloniali si impegnavano ad amministrare questi territori e accompagnarli nel percorso verso l’indipendenza. Il conferimento del mandato della Palestina alla Gran Bretagna, potenza che aveva dichiarato pubblicamente di voler facilitare l’immigrazione degli ebrei europei in quel territorio, fu mal accolta dalla popolazione locale. Gli anni del mandato furono segnati dallo scoppio di regolari moti di protesta spesso caratterizzati da episodi di violenza contro gli inglesi e la comunità ebraica. L’affluire continuo di nuovi migranti cambiò l’assetto demografico della Palestina.
Dopo il secondo conflitto mondiale Londra decise di rimettere il mandato alle Nazioni Unite che intanto avevano sostituito la società delle nazioni e di lasciare loro la decisione sul futuro della regione.
Nel novembre del 1947 l’assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181 che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico, e che affidava a Gerusalemme una giurisdizione internazionale. Questa soluzione fu accolta positivamente dalla comunità ebraica ma rigettata da quella araba che dopo essersi opposta per anni all’immigrazione di massa degli ebrei europei, rifiutava la possibilità che questi ottenessero uno stato indipendente. A quel punto le relazioni tra ebrei e arabi degenerarono, sfociando prima in guerriglia e poi, con la fine del mandato e la partenza degli inglesi, in un vero conflitto armato. Il 15 maggio 1948 a seguito della dichiarazione d’indipendenza dello stato di Israele gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq decisero di attaccare dando via alla prima guerra arabo-israeliana.
Al termine del conflitto, che si risolse nel 1949 con la sconfitta degli eserciti arabi, i confini del neonato stato di Israele comprendevano il 78% del territorio della Palestina mandataria. Rimanevano fuori dal suo controllo la Cisgiordania e la cosiddetta striscia di Gaza occupata rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto. Durante il conflitto circa 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case in parte per paura della guerra e in parte perché minacciate dall’esercito israeliano.
Nei tre decenni successivi i rapporti tra Israele e gli stati arabi rimasero conflittuali e seguirono altre guerre, la più importante di queste è sicuramente quella del 1967 ribattezzata guerra dei sei giorni. Nell’arco di meno di una settimana l’esercito israeliano riuscì a sconfiggere quelli dell’Egitto, Giordania e Siria. Questa vittoria permise a Israele di occupare nuovi territori: la striscia di Gaza e la Cisgiordania, inclusa quella parte di Gerusalemme, la parte ad est, che era stata controllata fino ad allora dai Giordani. La sconfitta degli eserciti arabi spinse i Palestinesi verso un maggiore attivismo politico.
Tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘80 si assistette all’ascesa di gruppi e partiti palestinesi, che con mezzi politici e militari, cercavano di dare risposta alle proprie aspirazioni nazionali. Negli anni ‘60 la maggior parte di questi gruppi confluì nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una struttura che voleva rappresentare un cappello politico per partiti e gruppi armati palestinesi attivi nei territori e nella diaspora. L’OLP divenne il principale megafono delle istanze palestinesi nel mondo. Nel 1982 i quadri dell’organizzazione furono costretti ad abbandonare il Libano, una delle principali destinazioni per i profughi palestinesi che sarà dilaniato dalla guerra civile proprio in quel decennio. L’OLP trovò asilo in Tunisia ma questa era troppo distante dai territori su cui operava e ciò segnò il declino dell’organizzazione.
Esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie aspirazioni nazionali nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania iniziarono una serie di proteste contro l’occupazione israeliana. Questi atti assunsero ben presto la forma di una vera e propria sollevazione popolare, la prima intifada, che si protrasse fino al 1993 e che portò la morte a più di 1900 palestinesi e 200 israeliani.
In questi anni di scontri nacque il movimento della resistenza islamica Hamas, acronimo di “movimento di resistenza islamica”. E’ un’organizzazione politica e militare nata da una costola della fratellanza musulmana, una delle più importanti organizzazioni terroristiche islamiche. E’ negli anni dell’intifada che le posizioni della leadership palestinese e israeliana si avvicinarono per la prima volta. Tra il 1993 e il 1995 vennero siglati gli accordi di Oslo che sulla base della soluzione a due stati avrebbero dovuto rappresentare il primo passo verso la costruzione di uno stato palestinese indipendente. Con questi accordi si divide il territorio palestinese in tre aeree e si crea un’amministrazione autonoma: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
L’ascesa al governo di Netanyahu finì per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli accordi e di conseguenza assestare un duro colpo al processo di pace. Nel 2000 scoppiò la seconda intifada, molto più violenta della prima, che portò alla morte di quasi 5000 palestinesi e più di 1000 israeliani. Nel 2002, nel pieno della sollevazione popolare palestinese, Israele cominciò la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania. L’obiettivo dichiarato era quello di controllare gli spostamenti per evitare attacchi terroristici. Il tracciato del muro però non rispettava la linea verde stabilita nel 1949, discostandosi in alcuni casi di decine di chilometri. Da allora la situazione nei territori palestinesi non ha fatto che peggiorare. Israele continua a mantenere una consistente presenza militare in Cisgiordania dove negli ultimi venti anni ha anche accelerato la sua politica di espansione delle colonie, città e insediamenti israeliani in territori palestinesi ritenuti illegali dalle comunità nazionali.
Rimane da approfondire la striscia di Gaza. Dal 1967 al 2005 anche questa zona è stata occupata militarmente da Israele. Dopo il ritiro israeliano, nel 2007, Hamas ha preso il controllo della striscia e da allora Israele ha continuato a operare un blocco, la chiusura quasi totale dei valichi di frontiere e degli accessi via mare e aerea.
Oggi a Gaza l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari e il tasso di disoccupazione sfiora il 50%.