Intervista alla Macabra Moka, in live il 9 luglio alla Birrovia

Tornano i live e torna a esibirsi La Macabra Moka, band rock underground cuneese dai testi e dalle sonorità mai banali. Come riporta il nome della band, ascoltare la loro musica è come bere un caffè da un amico, ma con una voce in testa cinica e fatalista che ti ricorda il lato ruvido e macabro della vita. Lo stesso pezzo da una parte può strapparti un sorriso, dall’altra farti salire un brivido lungo la schiena.

 Ho avuto l’occasione di intervistare il gruppo prima del live La Macabra Moka se la canta e se la suona del 9 luglio alla Birrovia di Cuneo, dove i ragazzi si esibiranno ripercorrendo i loro ormai undici anni di attività insieme e proponendo le loro canzoni in versione acustica. Per chi non potrà esserci al live, molto interessante anche il progetto di registrazione della band, documentato attraverso video che si possono trovare su Youtube, il primo dal titolo 30 anni e non sentirli.

Per chi ancora non vi conosce, ci raccontate cos’è e come nasce La Macabra Moka?

La Macabra Moka è una band rock underground di Cuneo nata nel 2010 dalle ceneri di un precedente gruppo chiamato Elia & Moka Cukka. I componenti sono Elia Dadone (batteria), Fabio Serale (chitarra elettrica), Stefano Dessì (chitarra elettrica) e Pietro Parola (voce, e dal 2019 basso elettrico e voce). Il gruppo è nato come progetto parallelo dato che ai tempi tutti i membri avevano già una band; questo ha fatto sì che la prima demo (uscita nel 2011) fosse molto versatile e comprendesse diversi generi. Con quella demo la band ha cominciato a suonare dal vivo nelle province di Cuneo e Torino, partecipando a diversi concorsi e vincendoli (Aclinfestival Rock, Suoni Emergenti, Tracce sonore). Nel momento in cui tutti gli altri progetti sono terminati, il gruppo ha scelto una direzione ben precisa che ha portato a una sonorità stoner con attitudine hardcore;  il primo album Ammazzacaffè uscito nel 2013 testimonia questa scelta. Dopo questo disco la band ha cominciato a suonare fuori dal Piemonte, sfruttando soprattutto il giro dei centri sociali. Nel 2017 è poi uscito il secondo album, Tubo Catodico, che ha mantenuto le sonorità del primo disco ma è frutto di un gusto un po’ più vario maturato negli anni, con il risultato di pezzi più distinti l’uno dall’altro. In parallelo a questo, la band ha proposto anche un’attività dal vivo in acustico che ha portato a un mini album live nel 2011 e una mini tournèe tra il 2018 e il 2019.

 

Quali sono le influenze più importanti per il vostro stile musicale?

Si parte dal rock degli anni ‘90 e 2000 (Nirvana, Foo Fighters, The Smashing Pumpinks, Queens of the Stone Age, Truckfighters, Biffy Clyro, Marlene Kuntz, Il Teatro degli Orrori…) con ulteriori forti influenze provenienti dai gruppi che la band seguiva a livello territoriale (grazie a locali come il Nuvolari di Cuneo, il Ratatoj di Saluzzo e il Cinema Vekkio di Alba): i Cani Sciorrì, gli Slaiver, i Fuh e di conseguenza tutti quelli della scena della Canalese Noise.

 

Lo scorso anno avete compiuto dieci anni come band: dal 2010 quanto siete cambiati e vi siete evoluti?

Per molti anni il gruppo ha avuto due chitarre elettriche, la batteria e la voce: il basso non c’era e veniva registrato solo nei dischi mentre nei live una delle due chitarre veniva “sdoppiata” in un amplificatore da basso per sopperire alla sua mancanza. Nell’ultimo periodo invece si è deciso di inserire il basso ma facendolo suonare al cantante, in modo da non snaturare l’equilibrio del gruppo. Negli anni ci sono stati diversi cambiamenti anche dal punto di vista del suono: all’inizio il fatto di non avere il basso ha portato a un “droppaggio” delle chitarre che ha contraddistinto il suono avvicinandolo alle sonorità stoner e indirizzandolo verso l’hardcore. Con il passare del tempo invece, pur mantenendo simili sonorità, si è passati da tempi semplici a tempi composti, uscendo dalla mentalità del “suono dritto”. Anche i testi negli anni hanno avuto delle evoluzioni: all’inizio avevano una componente di contestazione e di rabbia mista alla demenzialità, e man mano sono diventati più intimi ma al tempo stesso provocatori. E mentre all’inizio non si sentiva il bisogno di creare ritornelli con il tempo si è scelto invece di inserirli, dando alle canzoni una struttura un po’ più classica.

 

Come nasce un vostro pezzo? C’è un processo creativo che si ripete o è ogni volta un’avventura nuova?

Di solito si parte da dei riff di chitarra proposti da Fabio o Stefano, si elaborano con la batteria e si cerca di dare forma alla canzone; spesso l’idea di partenza viene poi stravolta grazie alla partecipazione degli altri. A quel punto Pietro inventa una melodia per la voce utilizzando quello che viene chiamato “l’inglese falso” e di lì a poco crea quello che è il vero e proprio testo.

Prima dell’ingresso del basso, la parte di questo strumento veniva studiata successivamente, mentre con la sua entrata il basso ha cominciato a far parte direttamente del processo di creazione durante le prove. A differenza poi dei primi anni, quando il pezzo veniva creato per essere registrato, con il tempo il gruppo ha cominciato a fare quelle che si chiamano “fasi di pre-produzione”, che hanno fatto la differenza per quanto riguarda gli arrangiamenti e i cori.

Quando  invece il gruppo decide di convertire i pezzi in acustico, le canzoni vengono destrutturate completamente sia nei ritmi che nella melodia, creando di fatto delle nuove canzoni, dove solo il testo rimane identico anche se viene cantato in maniera diversa.

 

Dove e quando possiamo venire a sentirvi?

Venerdì 9 luglio suoneremo alla Birrovia di Cuneo, dove con Alessandro Cherry Cerato (presentatore e disturbatore) ripercorreremo i nostri anni di attività e dove suoneremo le canzoni in versione acustica. Per quanto riguarda l’elettrico, considerando che i nostri concerti sono sempre “movimentati”, finchè il pubblico dovrà restare seduto preferiamo non esibirci. In questo ultimo periodo però abbiamo deciso di sopperire a questa mancanza andando a registrare alcune canzoni (in elettrico) in diversi studi di registrazione dove avevamo piacere di produrre qualcosa. Stiamo documentando il tutto attraverso dei video che potete trovare su Youtube (li ha fatti il nostro amico Fred Cigno che ci ha seguiti per molti live in giro per l’Italia). Per ora è uscito il primo, dal titolo 30 anni e non sentirli, ma continueremo a produrne degli altri. È  un modo per “stimolarci” e per testimoniare il lavoro che stiamo facendo.

Intervista a MATTEO ROMANO

“Adoro poter esprimere con la musica ciò che non riuscirei a dire a parole!”

 Riservato, talentuoso e giovanissimo, il cuneese Matteo Romano si racconta in questa intervista dove traspare il suo amore per la musica, il linguaggio universale per eccellenza che gli ha permesso di raggiungere traguardi importanti. La sua carriera è iniziata sui social, dove ha esordito come cantante con “Concedimi”, ormai virale in molti video su TikTok e Instagram. Con la nuova uscita del singolo “Casa di specchi”, il 30 marzo, ha raggiunto i cuori di moltissimi followers e non solo. Oggi Matteo è una giovane promessa della musica italiana, pronto a stupirci e a regalarci emozioni con la sua voce, le sue note e i suoi testi.

  1. Giovanissimo e già così famoso: qual è il tuo segreto?

Penso non ci sia nessun segreto in particolare, ormai sono tanti i giovani che hanno tanto da dire e da qualche anno ormai si cerca di dare loro sempre più spazio fortunatamente.

  1. Cosa ami della musica?

La sua leggerezza ma allo stesso tempo la sua potenza immensa; la sua fragilità e il suo potere evocativo enorme. Adoro poter esprimere con la musica ciò che non riuscirei a dire a parole!

  1. Ti saresti aspettato un successo del genere? Cosa rappresenta per te il successo?

Assolutamente no, ancora adesso non ci credo! Il successo per me rappresenta un mezzo per arrivare a più persone possibile facendo quello che più mi appassiona.

  1. Parliamo di te più nel dettaglio:       

– Come ti descriveresti?    

Sono una persona solare e ambiziosa. Sono determinato e cerco di essere il più autentico possibile.

 – Hai un esempio di vita a cui ambisci? Chi?                

Viagra sem receita médica Nessuno in particolare, il mio sogno sarebbe quello di vivere di musica rimanendo sempre me stesso e maturando sia come persona sia come artista.               

 – Cosa ti hanno tramandato i tuoi genitori?      

Alcune delle cose che più mi hanno tramandato i miei genitori e per cui più sono grato sono il rispetto verso il prossimo e il senso del lavoro e del dovere.    

 – Che scuola frequenti? Cosa farai dopo? 

Frequento l’ultimo anno di liceo Classico. Penso che il prossimo anno farò qualcosa nell’ambito della comunicazione, ma non sono ancora sicuro.

– Come ti sentivi prima a scuola e come ti senti ora, è cambiato qualcosa?

Non molto fortunatamente, cerco di comportarmi sempre nello stesso modo sia con i miei compagni sia con i professori e penso sia giusto così!

– Quale è il tuo più grande sogno?

Il più grande sogno è quello di poter vivere di musica, scrivendo i miei brani e cercando di trasmettere con le mie canzoni.

  1. Cosa o chi ti ha ispirato “Concedimi”? 

Concedimi è stata ispirata da una persona che è stato molto importante nella mia vita e nei confronti della quale sentivo di dovermi sfogare.

  1. Cosa vorresti tramandare con le tue canzoni?

Dipende un po’ dalla canzone: ci sono volte in cui voglio trasmettere qualcosa di particolare, altre invece in cui lascio maggiore spazio all’interpretazione personale di ogni persona.

  1. Il 30 marzo è uscito il tuo nuovo brano “Casa di specchi”:
  • Perché questo titolo?

 Ho scelto questo titolo perché penso rappresenti bene il significato della canzone. La casa di specchi allude a qualcosa che ci limita, che non ci fa vivere a pieno una situazione in cui dovremmo solamente lasciarci andare.

  • Cosa vorresti tramandare con questo pezzo?

Con questo pezzo ho voluto raccontare una storia che non è personale, ma che è la storia immaginaria di due persone che si vogliono, senza però riuscire a dimostrarselo. Proprio per questo ho cercato di rendere evidente il disagio e l’impotenza che scaturisce da una situazione simile, in cui ho cercato di immedesimarmi ed impersonarmi.

  • A chi ti rivolgi?

Non mi rivolgo a un destinatario preciso. Una cosa che mi piace molto di questo pezzo è che può essere interpretato in modo diverso a seconda di chi lo ascolta!

  1. Parliamo dei social, grazie ai quali hai avuto la possibilità di farti conoscere e amare.

– Cosa rappresentano per te? 

Rappresentano un mezzo per far conoscere me e la musica dal maggior numero di persone possibile!

– È possibile farne un uso consapevole? Come? 

Assolutamente si, utilizzandolo come mezzo divulgativo di una propria passione oppure come veicolo per esprimere un’opinione sempre in modo rispettoso e attento.

– A quale social sei iscritto e quale preferisci? Perché?

Sono iscritto a Instagram, TikTok, Snapchat e Facebook. Forse i miei due preferiti sono Instagram e Tiktok. Il primo perché ce l’ho da quando sono più piccolo e ci sono affezionato, il secondo perché è quello che mi ha permesso di arrivare a così tante persone.

  1. Spostiamo l’attenzione su Cuneo. 

– Ti piace la città? Perché?

Si! Perché nonostante non sia una grande città, è un luogo perfetto dove poter crescere in serenità, lasciando libero sfogo alla propria creatività.

– Credi che a Cuneo avrai possibilità di realizzare i tuoi progetti di vita?

Sinceramente non lo so. Per quanto Cuneo sia una città a cui sono molto affezionato, al momento voglio scoprire nuovi orizzonti ed avere nuovi stimoli, ma non so che cos’abbia il futuro in serbo per me!

-Cuneo è una città per giovani? 

All’apparenza alcuni direbbero di no, ma in realtà penso che viviamo in una zona veramente bellissima che ha molto da offrire e, per chi ha voglia di fare cose, ci sono moltissimi posti in cui andare con gli amici!

  1. Se dovessi dare un messaggio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa diresti loro?  videomessaggio Matteo romano

L’appello di Alessandro D’Avenia fra scrittura e teatro: eventi passati e futuri

Amo il nome della rubrica per cui scrivo, A caccia di eventi. Mi porta a cercare sempre cose nuove, da conoscere e far conoscere e ad imbattermi in ciò che mi sono persa per strada ma che era molto importante che trovassi. Inoltre il termine “eventi”, così sfaccettato e soggettivamente interpretabile, mi permette di parlare un po’ di tutto ciò che cattura i miei occhi e il mio cuore.

Dopo questa premessa arriviamo finalmente al primo evento che ho scelto di mettere a fuoco in questo articolo: il film del racconto teatrale dell’ultimo romanzo di Alessandro d’Avenia, L’appello. Molti di voi avranno già letto questo romanzo e magari avranno già anche visto il film di cui sto parlando, girato al Teatro Colosseo di Torino seguendo i protocolli anti Covid, con la regia di Gabriele Vacis e pubblicato lo scorso dicembre sul canale Youtube di Libri Mondadori.

Io me l’ero perso e scoprirlo in questo momento per me è stata una ventata di aria fresca. Se anche voi ve lo siete persi, vi racconto perchè dovreste correre a vederlo.

La trama è apparentemente semplice: Omero Romeo, professore di scienze, viene chiamato a prendere in carico una classe quinta liceo la cui insegnante è mancata all’improvviso. Si tratta di una classe problematica, una classe-ghetto che raccoglie i casi più disperati della scuola. Un piccolo grande particolare: Omero, come il suo celebre omonimo greco, è cieco. Ma attraverso la sua sensibilità e l’innovazione che porta riesce a comprendere gli alunni come nessun altro prima.

Perchè questo particolare è così importante? Perchè si collega a ciò che a mio avviso rende Alessandro D’Avenia un vero grande: la capacità, nonostante il successo raggiunto come scrittore di fama internazionale e dopo vent’anni di carriera da insegnante di riconosciuto talento, di mettersi in discussione. Di sentire, forse a livello emotivo prima che razionale, la necessità di cambiare prospettiva, di andare oltre sé stesso come insegnante, come scrittore e, prima ancora, come essere umano in relazione con altri giovani esseri umani. Perchè l’appello nasce da una rivoluzione copernicana che D’Avenia ha messo in atto nel suo modo di intendere l’insegnamento. In alcune interviste D’Avenia racconta infatti che agli inizi della sua carriera era guidato da un modello di insegnamento che definisce “in stile Attimo Fuggente”. Ovvero il modello di un professore fortemente carismatico, la cui passione per ciò che insegna e per l’insegnamento stesso è così forte da accendere gli studenti, attraverso quel fuoco. Il che, a mio avviso, è già tanto: avercene di professori così, no?

Ma come fa notare lo stesso D’Avenia, in questo tipo di modello l’insegnante è una sorta di protagonista della scena e gli studenti il suo pubblico.

Ma è di questo, si chiede il docente e scrittore, che hanno veramente bisogno i ragazzi nel presente dell’ora di lezione?

Si è così reso conto di essere chiamato a diventare lui il loro pubblico. Di voler accogliere e raccogliere i nomi e le storie dietro i volti presenti nelle sue classi. Rendendo così l’insegnamento una dinamica bidirezionale, uno scambio profondamente umano: non solo una trasmissione di preziosi insegnamenti ma una condivisione di storie, talenti, passioni, dolori, speranze, vitalità. Facendo sentire gli studenti soggetti attivi, protagonisti di ciò che accade in aula.

D’Avenia con L’appello mette così a nudo la sua auto dichiarata passata “cecità” e quella di molti che, in una dinamica autoreferenziale, guardano tutto senza vedere nulla.

Tornando alla trama del romanzo: il professor Romeo, non potendo vedere i volti degli alunni, inventa allora un nuovo modo di fare l’appello che non ha niente ha che fare con l’automatismo a cui quasi tutti siamo stati abituati. Ogni mattina infatti al momento dell’appello i ragazzi sono chiamati a portare un pezzo delle loro storie di vita nell’ora di lezione. Vediamo così come il professore può davvero imparare a conoscere giorno per giorno i suoi studenti scoprendone difficoltà, talenti, paure e sogni. E così i ragazzi, sentendosi visti e ascoltati, evolvono di capitolo in capitolo, e insieme a loro evolve il professore che, attraverso le voci che restituisce a questi giovani, riflette sulla propria vita.

Il  film del racconto teatrale si rifà proprio al romanzo, con D’Avenia nel ruolo di Omero ma anche di sé stesso (quando racconta come sono nate le storie che racconta nel libro, chi le ha ispirate) e giovani studenti di teatro, allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino che interpretano gli studenti della classe.

Ascoltare le storie di Elena, Cesare detto Ruggine, Achille, Stella, Oscar, Caterina, Ettore, Elisa, Mattia,  Aurora, interpretate con passione da questi bravissimi attori in formazione, tocca il cuore. Sono storie dolorose ma la sensazione non è quella di una spettacolarizzazione del dramma fine a se stessa, tutt’altro. Quella che emerge chiara è la volontà di far parlare le ferite dei giovani, ferite profonde e spesso inascoltate ma che se accolte, viste, accompagnate, possono aprirsi ad un processo di cura e rinascita. La volontà di aprire gli occhi agli spettatori, di renderli consapevoli che dietro ogni nome che si può incontrare per la propria strada c’è un mondo.

Una lezione di cui potremmo forse fare tesoro tutti, non solo gli insegnanti, nell’incontro con un altro essere umano con cui ci troviamo ad avere a che fare. Chiederci di fronte all’altro: che cosa c’è davvero nel tuo nome? Che storia porti? Quali gioie, quali dolori, quale musica, quali ferite, quali desideri?

Ma dopo questo salto nel passato arriviamo al secondo evento di cui voglio parlarvi, collegato al primo. Se, dopo aver visto il racconto teatrale o aver letto il romanzo in questione ne siete rimasti folgorati come me, vi segnalo, mercoledì alle 21, una diretta sulla pagina Facebook di Libri Mondadori. Si tratta di un nuovo episodio del format online “Scrittori a Teatro”: partendo dai rispettivi romanzi, “L’appello” e “Italiana”, Alessandro D’Avenia e Giuseppe Catozzella racconteranno di letteratura, arte e scrittura e di ciò che li ha resi gli scrittori che sono. Da non perdere!

Intervista agli organizzatori di STASERA NON VIENE NESSUNO

Cosa succede quando non si possono più fare spettacoli dal vivo ma si vuole fare uno spettacolo in diretta streaming che non sia «semplicemente “gruppo-che-suona-davanti-a-telecamera” (cit.)»?

 

Succede che i lavoratori del mondo dello spettacolo non si arrendono, si mettono al lavoro insieme, trasformano un teatro, contattano artisti, fino a creare qualcosa di completamente diverso: Stasera Non Viene Nessuno è questo e molto altro. E il pubblico? Il pubblico non è presente ma in qualche modo c’è, è coinvolto in modi alternativi e si fa sentire, diventando coprotagonista della diretta.

 

Ho fatto qualche domanda ai brillanti ideatori di SNVN, questa serie di originali spettacoli in diretta streaming trasmessi dal Teatro Toselli di Cuneo (potete recuperare tutte le puntate su staseranonvienenessuno.it o direttamente su YouTube). Dalle loro risposte, tra una battuta e l’altra, emerge forte la voglia di tornare a fare spettacoli dal vivo, ma anche la speranza che sia dato un nuovo e più giusto rilievo a questo settore. Ed è anche questo che ha fatto SNVN: non solo offrire ottima musica, recitazione, comicità ma anche raccontare il mondo dello spettacolo in modo diverso, mettendo in luce le limitazioni e difficoltà dei lavoratori (già diffusamente presenti prima della pandemia) per creare nuove prospettive, nuove vie.

 

Da amante di concerti e spettacoli di ogni genere e da componente del pubblico da casa di Stasera Non Viene Nessuno posso dirvi questo: sappiamo tutti che ciò che si crea quando artisti e pubblico si incontrano dal vivo è insostituibile ma la sera di Natale, un’altra serata in cui restare a casa, la diretta di SNVN mi ha fatto sentire per un attimo lì. Lì dove divertimento, birra, significati, empatia ed emozioni di vario tipo si mischiano, dove ti senti parte di qualcosa di più grande, dove un collegamento fatto di musica e parole ti unisce a tutti gli altri che sono parte del pubblico e a chi si sta esibendo e su quel palco sta dando il meglio di sé. O forse musica e parole ti uniscono anche a tutti gli altri esseri umani, ti aiutano a comprenderli, a metterti nei loro panni, ad aprire la mente ancora una volta, ancora un po’ di più.

Grazie SNVN: noi non siamo potuti venire da voi, ma voi a noi siete arrivati.

1) Come nasce e con quale intento l’idea di «Stasera Non Viene Nessuno»?

L’idea iniziale di SNVN è nata in quella dozzina di giorni tra lo stop agli spettacoli dal vivo e il primo lockdown di inizio marzo. Con i Lou Tapage volevamo fare uno spettacolo in diretta streaming che non fosse semplicemente “gruppo-che-suona-davanti-a-telecamera”. È chiaro che lo spettacolo dal vivo è insostituibile e non riproducibile a distanza, tanto vale divertirsi e fare qualcosa di completamente diverso: trasformare il palco di un teatro vuoto in un salotto, dove i lavoratori dello spettacolo si ritrovino a chiacchierare, magari anche a suonarne due ma soprattutto a raccontare quel mondo dietro le quinte solitamente nascosto al pubblico. A Claudio Allione (super fonico) e Simone Drocco (Varco – Campeggio Resistente) è piaciuta l’idea e abbiamo iniziato a lavorarci su. Al gruppo si sono poi uniti l’Orchestra della Centrale e una squadra  di tecnici e artisti che hanno creduto al progetto e hanno dato un contributo immenso nel realizzarlo.

2) Per molti lavoratori dello spettacolo il pubblico è parte integrante dell’esibizione artistica: ogni replica può risultare un po’ diversa ogni volta anche per questo scambio interattivo tra chi si esibisce e chi assiste. Quali sono stati i pro (se ce ne sono stati) e i contro di organizzare spettacoli senza il pubblico in carne ed ossa?

Il pubblico non era presente in sala, vero, ma c’era. Abbiamo cercato di rimediare alla distanza con il “balconcino social-ista”, con Guido Canepa e Stefano Bertaina a fare da ponte tra il pubblico da casa e il palco. Nel corso della diretta il pubblico aveva la possibilità di intervenire e interagire con lo spettacolo tramite la chat di YouTube e le pagine dei social. Non era la stessa cosa, chiaro, ma ha creato situazioni e interazioni che difficilmente sarebbero possibili dal vivo.

Il lato positivo è che a fine serata non devi fare il giro della sala per pulire e recuperare i bicchieri vuoti, il lato negativo è che non hai nessuno con cui bere.

3) Artisti e musicisti come hanno accolto il vostro invito a partecipare?

All’inizio è stato complicato spiegare cosa volevamo fare ma una volta arrivati in teatro tutti gli artisti si sono sentiti a casa, hanno fatto proprio il salotto di SNVN. E a fine serata ci siamo sempre salutati con gli occhi umidi. Forse era amore, forse era Covid.

4) Qual è stato il feedback del pubblico da casa?

In chat sono arrivati feedback di ogni tipo, dagli apprezzamenti agli insulti personali, passando per le compravendite di Fiat Panda usate. Tirare le somme è difficile, ma con il senno di poi sarebbe stato meglio comprare il modello 4×4.

5) Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

Per quanto SNVN sia stato un laboratorio sperimentale stimolante, creativo, divertente, etc., etc., etc., ci ha comunque lasciato immutata la voglia di tornare a fare spettacoli dal vivo.

6) Cosa vi augurate per il futuro del mondo dello spettacolo?

Non di tornare com’era prima. E ci riferiamo alle condizioni contrattuali dei lavoratori dello spettacolo. Ci auguriamo che questa triste tabula rasa possa se non altro essere un’occasione per ricostruire da capo il sistema, cambiandolo in meglio. Detto così sembra più un appello del papa, quindi concluderemo con una frase più sobria: «Date una carezza ai vostri figli e ditegli: questa è la carezza di Stasera Non Viene Nessuno».

Intervista a Valentina Strocco dell’associazione DialogArt

Conoscendo Valentina e chiacchierando con lei emerge subito la ricchezza del suo approccio alla cultura: competente, attento e appassionato. La sua è una formazione davvero completa poiché la passione per la sua professione e l’amore per il nostro territorio l’hanno spinta a sperimentarsi in diversi campi e ad aggiornarsi continuamente. L’ho intervistata per conoscere DialogArt, l’associazione di cui è presidente, che si occupa di progettare eventi culturali, in particolare nell’ambito storico-artistico museale. Nell’intervista Valentina ci aiuterà anche a cercare di capire cosa significa lavorare nel mondo della cultura al tempo del Covid: il settore culturale è stato duramente colpito dagli effetti della pandemia, ma fortunatamente c’è chi non si arrende e continua a progettare, immaginare, creare!

1)Raccontaci un po’ di te, come ti sei formata e com’è nata DialogArt?

Le storie, gli aneddoti, le leggende del nostro territorio mi hanno sempre appassionata, così come l’arte in generale e le sue mille declinazioni. Gli studi mi hanno portata lontano, in Oriente, ad approfondire la cultura e la lingua giapponese. Ma mentre facevo ancora l’università ho provato il test di ammissione per il corso da guida turistica offerto della Regione Piemonte: l’ho passato, ho preso il patentino di abilitazione alla professione e ho iniziato a lavorare, ormai dodici anni fa. 

Il lavoro da guida turistica ti porta ad aggiornarti continuamente, non smetti mai di studiare, ed è un aspetto che amo quello di ricevere sempre nuovi stimoli, in ambiti anche molto diversi tra loro.  Lavorando nei musei in ruoli di coordinamento ho poi sentito la necessità di specializzarmi, così ho seguito a il corso di perfezionamento per progettisti culturali a Torino, presso la Fondazione Fitzcarraldo, e poi un percorso di alta formazione in didattica museale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. 

Appassionandomi al tema dell’educazione, ho recentemente seguito un corso per la progettazione di visite teatralizzate per ragazzi e un corso come educatore interculturale.  

Sono tutte competenze che si completano, in situazioni e modi diversi: il punto cardine, ciò che accomuna tutto, credo sia la mia passione nel raccontare la mia terra, il forte senso di appartenenza ad essa che traspare in quello che faccio. 

DialogArt non nasce per mano mia, ho iniziato a operare all’interno dell’associazione e ne sono diventata presidente in un secondo momento. Diciamo che l’ho un po’ rivoluzionata: ho cambiato marcia e ho aperto nuove prospettive…in fondo aveva bisogno anche lei di un aggiornamento.

2) Quali sono gli obiettivi di DialogArt?

Come dice il nome stesso dialoghiamo, ascoltiamo, cerchiamo la connessione, lo scambio.  DialogArt si occupa di cultura, di educazione al patrimonio, di turismo e didattica a trecentosessanta gradi, dalla progettazione alla realizzazione. Ci trovate in giro tramite piccoli eventi, visite guidate, laboratori didattici, progettazione e sperimentazione culturale. Il nostro è un approccio alla cultura di qualità, inclusivo, giovane e fresco, accessibile a tutti e divertente. Gestiamo e curiamo beni storico museali avendone cura come se fossero nostri: uno dei nostri obiettivi è rendere vivi e fruibili gli spazi in cui lavoriamo. E non è uno slogan, lo facciamo sul serio.  Operiamo per esempio all’Abbazia di Staffarda e la sentiamo veramente come se fosse casa nostra, ce ne prendiamo cura anche nei piccoli dettagli.

3) A chi si rivolgono le vostre iniziative?

A tutti! Togliamoci dalla testa l’idea stantia che la cultura sia elitaria. La cultura è per tutti: basta sapere a chi si parla e, di conseguenza, saperla raccontare. Tutti, nessuno escluso!

4) Da associazione che opera nel mondo della cultura, come state vivendo questo difficile periodo? State riuscendo a continuare il vostro lavoro in modi alternativi? O state progettando per quando la situazione sarà migliore?

La stiamo vivendo male: sarò sincera, alquanto male! A seguito dell’ultimo DPCM il comparto culturale (cinema, teatri, musei) è ancora completamente bloccato e lo sarà ancora per un po’. I musei che hanno qualche risorsa stanno producendo contenuti online, in streaming o simili. Noi, presso l’Abbazia di Staffarda, risorse non ne abbiamo, quindi aspettiamo, ragioniamo e ci interroghiamo su come fare. A volte fermarsi aiuta a ripartire: spesso da un tempo lento, da un “vuoto fertile” si possono generare nuove prospettive. Per il nuovo anno sappiamo che ci aspettano molti nuovi progetti, siamo felici perché lavoreremo con altre bellissime realtà del territorio, davvero con bella gente.  Rimane l’incognita del come lavoreremo. Personalmente considero l’utilizzo del web uno strumento provvisorio, che può aiutare, ma che non può essere il solo e unico.  Voglio ancora credere che si tornerà all’umano: a sedersi attorno ad un tavolo a scambiarsi idee e punti di vista e a creare nuove azioni sul territorio, a ospitare scolaresche rumorose nei musei, a confrontarsi tra persone in modo diretto, che è il modo migliore per crescere e accrescere la propria esperienza. Stiamo parlando di divulgazione culturale, di educazione al patrimonio, alla bellezza: se è fatta dietro lo schermo di un PC, senza l’uomo in carne ed ossa, senza le sensazioni dirette trasmesse dal luogo o dall’opera d’arte, senza lo scambio attivo, come può definirsi tale? 

5) Cosa significa per te progettare cultura? 

Il termine «progettare» deriva dal latino e letteralmente significa «lanciare avanti».

Progettare cultura vuol dire possedere una visione di quello che sarà, costruirla essendo disponibili a modificarla e ridiscuterla continuamente, tra di noi e insieme al mondo che cambia. 



Danza e consapevolezza: intervista ad Elena Rizzo

Quando la nostra mente è stanca, confusa, irrequieta possiamo mettere da parte per un attimo la razionalità e affidarci al corpo, farlo danzare: ciò che scopriremo può davvero sorprenderci! Elena è un corpo che balla, dalle onde dei suoi lunghi capelli che si muovono in tutte le direzioni fino alla punta dei piedi, che si fanno muovere, scatenare, cullare da musiche sempre nuove. Ho avuto l’opportunità di ballare insieme a lei ed è stata un’esperienza che non dimenticherò mai. Il mio corpo si è affidato alla sua voce e alla musica: mi sono sentita incredibilmente libera e sono affiorate dentro di me risposte chiare, sicure, inequivocabili. Ma lasciamo che sia Elena a dirci qualcosa di più sul suo corso Danza e consapevolezza.

  • Raccontaci un po’ di te, come ti sei formata e com’è nata la tua passione per la danza?

Sono un’educatrice professionale: dopo essermi laureata, a ventiquattro anni sono partita finalmente per il grande viaggio che sognavo da tanto. Sono stata all’estero quattro anni: ho vissuto in Australia, Polonia e Nuova Zelanda. Ho sempre lavorato con i bambini e studiato metodi educativi all’avanguardia, finchè ho scoperto una pratica di meditazione in movimento di cui mi sono innamorata e la mia vita ha preso una svolta inaspettata. Ho sempre amato danzare ma mi sentivo limitata dal dover imparare una coreografia o vincolata dal giudizio di qualcuno che avrebbe deciso se il mio movimento era “bello” o “brutto”, “giusto” o “sbagliato”. Avevo proprio bisogno di liberare la mia danza dal giudizio e dal concetto di performance e così è successo: è stato liberatorio e meraviglioso.

  • Quali sono gli obiettivi del tuo corso Danza e consapevolezza?

Premetto che la danza libera e spontanea aiuta ad entrare in contatto con il nostro vero Sè. Il corpo ha una sua saggezza e non mente mai: se lo ascoltiamo e ci fidiamo, ci porterà esattamente dove dobbiamo andare. Danza e Consapevolezza è un modo semplice e potente per riconnetterci con noi stessi e con gli altri attraverso una pratica espressiva, emozionante e divertente che si basa su movimenti liberi e spontanei. Ciò avviene in uno spazio non competitivo, uno spazio di ascolto e crescita dove non c’è “giusto o sbagliato, bello o brutto”, ma solo il desiderio di lasciar parlare il corpo, riposare la mente e aprire il cuore. Il corso permette dunque di svuotare la mente, ossigenare il corpo e ritrovare in esso la libertà che spesso ci neghiamo, ridere, lasciarsi andare e ricaricarsi di una nuova energia!

  • Chi partecipa ai tuoi corsi?

Questa pratica è aperta a tutti, non ci sono limiti di età e non è necessaria nessuna esperienza.

  • Che cos’è per te la danza?

Per me la danza è meditazione, è uno spazio di pace per la mente, è il corpo che scrive poesie nell’aria a tempo di musica. La danza è uno spazio dove mi dissolvo e divento qualunque cosa. A volte ballo immaginando di essere un animale, un elemento, uno stato d’animo o qualunque cosa il mio corpo abbia voglia di sperimentare. Se una musica mi fa sentire una creatura del mare divento un animale degli abissi che si muove con grazia nel flusso infinito delle correnti d’acqua, cambiando continuamente forma, senza paura, senza resistenza. Allora divento fluidità, fiducia, presenza. Danzando integro le qualità delle creature che chiamo nel movimento e pratico affinchè queste qualità mi accompagnino nella quotidianità.

  • Dove e quando si tengono i tuoi corsi?

Il giovedì dalle 18.30 alle 20 presso Mirya, in Via Statuto 13 a Cuneo. Il lunedì dalle 10 alle 11.30, il martedì dalle 20 alle 21.30 e il mercoledì dalle 18 alle 19.30 presso Erboristeria Oasi del Benessere, a Confreria.

Chiunque fosse interessato ai corsi di Elena può contattarla al 329 0097032 e visitare la sua pagina Facebook: https://www.facebook.com/danzaeconsapevolezza

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