ABBI DUBBI

Della compagnia di circo “Treggì” della scuola “Fuma che n’duma”

 

Abbi dubbi! Spesso associamo l’essere indecisi, il non saper compiere una scelta, ad una debolezza. 

Abbi dubbi è il titolo di uno spettacolo di circo, che poi, di solo circo proprio non è, ma è anche un invito per chiunque stia leggendo queste parole, me compresa. 

Chi non è determinato, chi non è sicuro di ogni sua decisione, chi, dopo una domanda, resta lì, titubante, a pensare ad una possibile risposta, è qualcuno che probabilmente giudicheremmo come insicuro. 

Ma spesso e volentieri, siamo noi stessi che non ci diamo la possibilità di avere dubbi. Ci lasciamo trasportare dall’idea del “si è sempre fatto così”, senza mettere in dubbio il modo in cui trascorriamo la nostra esistenza. Perché, se vissuta così, forse è proprio un trascorrere la vita, non un viverla. Nella quotidianità andiamo avanti col pilota automatico. Siamo convinti di essere sempre noi ad avere ragione, sicuri in ogni nostra scelta, e non mettiamo più in dubbio nulla. O forse, semplicemente, è molto più comodo non mettere in dubbio nulla, e continuare come si è sempre fatto. 

Ma è anche la società in cui viviamo ad assumere questo atteggiamento. E questo è un messaggio chiarissimo che ci urlano i protagonisti di questo spettacolo. Siamo abituati ad assumere per vero tutto quello che ci è stato insegnato, tutto quello che la tradizione, ogni giorno, ci tramanda. 

Sei una sposa… devi trovare l’abito perfetto. Sei una segretaria… è meglio che tu abbia i tacchi. 

Sei un imprenditore… devi mettere giacca e cravatta”.

Queste alcune delle parole di uno dei momenti in cui gli artisti fanno sentire la loro voce, che ci portano a pensare: ma noi, davvero, cosa vogliamo? Io, sotto tutto, nonostante tutto quello che mi dice la società, mia mamma, il mio fidanzato, la mia comunità, i miei professori: io, cosa voglio? Che scelta faccio? 

Tutto parte in chiave ironica, fil rouge di molti spettacoli della compagnia, l’ironia, e in ciò che porta in scena: il “dubbio amletico”: a maggio, la sera a cena con gli amici, prendo la giacca o no? Il dubbio, che può apparire superficiale, dà la possibilità di introdurci in quello che i ragazzi hanno elaborato nei mesi di preparazione dello spettacolo, e in ciò che vogliono esprimere. Ogni scelta, piccola o grande che sia, fa parte di noi, fa parte della nostra storia. È una grande responsabilità! Ci identifica, fa capire chi siamo, e ci rende unici. Nessuno ha fatto tutte le scelte che abbiamo fatto noi, fino a questo momento della nostra vita.

Lo spettacolo non è un susseguirsi di numeri ed esibizioni, come un comune spettacolo di circo. È molto di più. È la storia di adolescenti, dai quattordici ai diciannove anni, che si sono messi in dubbio. Che si sono chiesti, ciascuno, quale fossero le scelte più difficili. Quali sono, ogni giorno, le difficoltà da affrontare. Senza giudizio, senza definirle piccole o grandi, perché è troppo soggettivo e dipende da persona a persona. 

È la storia, urlata, cantata, danzata, narrata. È la storia raccontata in alto, sul trapezio (in cinque), o in aria, sui tessuti. È la storia di quando sei da solo e nessuno ti ascolta. È la storia di chi non ha paura di lasciarsi cadere nel vuoto, magari perché non ha altra possibilità. È la storia di chi ha bisogno degli altri per vivere. Di chi, in fondo, solo non è mai. È una storia di fiducia, di chi regge qualcuno sulle proprie spalle (letteralmente e non), perché riesca a stare in piedi. È la storia di chi è costretto per tutta la vita a sottostare alle scelte degli altri, fino ad un certo punto in cui no. In cui si chiede cosa vuole davvero, in cui ha dubbi. In cui si ribella, in cui scopre sé stess* e allora, improvvisamente, tutto inizia ad essere colorato, tutto inizia ad avere senso. 

È una storia scritta, pensata, interpretata e raccontata interamente da venti ragazze e ragazzi, diversi tra loro ma che si muovono assieme. Che ci dicono in faccia che si, è necessario avere dubbi, sempre. Che chi non ha dubbi non vive davvero. Chi non si mette in discussione. Chi non fallisce mai, chi sembra sempre far tutto giusto, ha già perso in partenza. 

Non è una debolezza mettersi in discussione, è la più grande forma di crescita personale che ognuno può provare. È la dimostrazione del nostro essere vivi, umani e, come tali, fallibili. 

 I corpi sono immobili, alle volte. Più spesso, in posizioni scomode, con i muscoli tesi per lo sforzo di lanciarsi in aria, o di sostenersi con la sola forza delle braccia. Sono corpi scattanti, vivi, liberi, forti e deboli insieme, potenti e dolci, corpi giovani e pieni di energia, instancabili. Sono corpi in cui si legge tutto quello che siamo noi, e cioè un mucchio di incertezze. Perché solo così possiamo scoprire chi siamo davvero, solo essendo elastici mentalmente. Senza alcuna rigidità, senza alcuna cosa data per certa, per scontata. Ponendoci in una condizione di dubbio continuo. 

Abbi dubbi, allora, è l’augurio che faccio ad ognuno di noi. E se ancora avete dei dubbi (il che è positivo, a questo punto!), lascio che siano le parole che arrivano direttamente dalla canzone scritta per lo spettacolo, e che gli dà anche il titolo: 

Abbi Dubbi di Angelica

abbi dubbi quando il sole scompare

abbi dubbi quando sai già di esitare

abbi dubbi quando vedi un cambiamento da affrontare 

abbi dubbi quando pensi di lasciare stare

abbi dubbi se il tempo non ti aspetta

abbi dubbi quando esprimi una certezza

abbi dubbi quando pensi di essere imperfetta

abbi dubbi quando senti una promessa eterna

 

scelte come note in un tempo senza fine

questo cammino incerto mi rende un po’ più vile

 

scegliamo il destino a passi leggeri 

le piccole scelte, i nostri pensieri

ma dietro le semplici cose

si creano le nostre storie

 

abbi dubbi quando non sai come amare

abbi dubbi quando non ti puoi fidare

abbi dubbi quando pensi di essere banale

abbi dubbi quando premi troppo quel pedale

abbi dubbi quando doni una carezza

abbi dubbi quando corri troppo in fretta

abbi dubbi quando scegli tra sinistra e destra 

abbi dubbi quando avanzi verso la tempesta

 

scelte come note in un tempo senza fine

questo cammino incerto mi rende un po’ sottile 

 

scegliamo il destino a passi leggeri 

le piccole scelte, i nostri pensieri

ma dietro le semplici cose

si creano le nostre storie

 

tra il chiarore dell’alba e il buio della sera

la melodia della scelta sempre contesa

dubbi si dissolvono come una candela 

ad ogni passo incerto sto una vita intera

 

Prossima replica: martedì 9 luglio, alle ore 21,30 al Tendone di Savigliano (Via Snos 9, Savigliano)

Per info: 

 https://fumachenduma.it

Instagram: @fumachenduma

Instagram della compagnia: @treggì

 

Arriva il POETRY SLAM a Cuneo

Avete mai sentito parlare di quei poeti che nell’antichità erano soliti cantare e presentare le proprie poesie davanti a un pubblico? Beh, a Cuneo ci sarà un evento per cui potrete assistere a qualcosa di molto simile. Infatti il 18 aprile, presso i locali della Birrovia alle 21.30 si terrà il primo Poetry Slam della città di Cuneo, ossia il Versala Poetry Slam, organizzato dalla scrittrice e poetessa Francesca Saladino, che ha già avuto modo di organizzare eventi simili in Campania.

Ma che cos’è un Poetry Slam?

Un Poetry Slam è un evento grazie al quale chiunque lo desideri può presentare, tramite delle performance, le proprie poesie. Essendo caratterizzato da più performance questo evento riesce facilmente a creare un ambiente ricco di creatività e favorevole all’aggregazione.  Questo grazie anche al divertimento non solo del pubblico, ma anche degli stessi poeti.

Ruolo centrale lo avrà anche il pubblico, che potrà votare il propriə poetə preferitə! Che aspetti? 

Per maggiori informazioni visita il sito: https://www.facebook.com/share/NbTpeac5HnZwnVVS/

Ci vediamo lì ad ascoltare poesie inedite! (o a recitarle, chi lo può dire)

Intervista alla Macabra Moka, in live il 9 luglio alla Birrovia

Tornano i live e torna a esibirsi La Macabra Moka, band rock underground cuneese dai testi e dalle sonorità mai banali. Come riporta il nome della band, ascoltare la loro musica è come bere un caffè da un amico, ma con una voce in testa cinica e fatalista che ti ricorda il lato ruvido e macabro della vita. Lo stesso pezzo da una parte può strapparti un sorriso, dall’altra farti salire un brivido lungo la schiena.

 Ho avuto l’occasione di intervistare il gruppo prima del live La Macabra Moka se la canta e se la suona del 9 luglio alla Birrovia di Cuneo, dove i ragazzi si esibiranno ripercorrendo i loro ormai undici anni di attività insieme e proponendo le loro canzoni in versione acustica. Per chi non potrà esserci al live, molto interessante anche il progetto di registrazione della band, documentato attraverso video che si possono trovare su Youtube, il primo dal titolo 30 anni e non sentirli.

Per chi ancora non vi conosce, ci raccontate cos’è e come nasce La Macabra Moka?

La Macabra Moka è una band rock underground di Cuneo nata nel 2010 dalle ceneri di un precedente gruppo chiamato Elia & Moka Cukka. I componenti sono Elia Dadone (batteria), Fabio Serale (chitarra elettrica), Stefano Dessì (chitarra elettrica) e Pietro Parola (voce, e dal 2019 basso elettrico e voce). Il gruppo è nato come progetto parallelo dato che ai tempi tutti i membri avevano già una band; questo ha fatto sì che la prima demo (uscita nel 2011) fosse molto versatile e comprendesse diversi generi. Con quella demo la band ha cominciato a suonare dal vivo nelle province di Cuneo e Torino, partecipando a diversi concorsi e vincendoli (Aclinfestival Rock, Suoni Emergenti, Tracce sonore). Nel momento in cui tutti gli altri progetti sono terminati, il gruppo ha scelto una direzione ben precisa che ha portato a una sonorità stoner con attitudine hardcore;  il primo album Ammazzacaffè uscito nel 2013 testimonia questa scelta. Dopo questo disco la band ha cominciato a suonare fuori dal Piemonte, sfruttando soprattutto il giro dei centri sociali. Nel 2017 è poi uscito il secondo album, Tubo Catodico, che ha mantenuto le sonorità del primo disco ma è frutto di un gusto un po’ più vario maturato negli anni, con il risultato di pezzi più distinti l’uno dall’altro. In parallelo a questo, la band ha proposto anche un’attività dal vivo in acustico che ha portato a un mini album live nel 2011 e una mini tournèe tra il 2018 e il 2019.

 

Quali sono le influenze più importanti per il vostro stile musicale?

Si parte dal rock degli anni ‘90 e 2000 (Nirvana, Foo Fighters, The Smashing Pumpinks, Queens of the Stone Age, Truckfighters, Biffy Clyro, Marlene Kuntz, Il Teatro degli Orrori…) con ulteriori forti influenze provenienti dai gruppi che la band seguiva a livello territoriale (grazie a locali come il Nuvolari di Cuneo, il Ratatoj di Saluzzo e il Cinema Vekkio di Alba): i Cani Sciorrì, gli Slaiver, i Fuh e di conseguenza tutti quelli della scena della Canalese Noise.

 

Lo scorso anno avete compiuto dieci anni come band: dal 2010 quanto siete cambiati e vi siete evoluti?

Per molti anni il gruppo ha avuto due chitarre elettriche, la batteria e la voce: il basso non c’era e veniva registrato solo nei dischi mentre nei live una delle due chitarre veniva “sdoppiata” in un amplificatore da basso per sopperire alla sua mancanza. Nell’ultimo periodo invece si è deciso di inserire il basso ma facendolo suonare al cantante, in modo da non snaturare l’equilibrio del gruppo. Negli anni ci sono stati diversi cambiamenti anche dal punto di vista del suono: all’inizio il fatto di non avere il basso ha portato a un “droppaggio” delle chitarre che ha contraddistinto il suono avvicinandolo alle sonorità stoner e indirizzandolo verso l’hardcore. Con il passare del tempo invece, pur mantenendo simili sonorità, si è passati da tempi semplici a tempi composti, uscendo dalla mentalità del “suono dritto”. Anche i testi negli anni hanno avuto delle evoluzioni: all’inizio avevano una componente di contestazione e di rabbia mista alla demenzialità, e man mano sono diventati più intimi ma al tempo stesso provocatori. E mentre all’inizio non si sentiva il bisogno di creare ritornelli con il tempo si è scelto invece di inserirli, dando alle canzoni una struttura un po’ più classica.

 

Come nasce un vostro pezzo? C’è un processo creativo che si ripete o è ogni volta un’avventura nuova?

Di solito si parte da dei riff di chitarra proposti da Fabio o Stefano, si elaborano con la batteria e si cerca di dare forma alla canzone; spesso l’idea di partenza viene poi stravolta grazie alla partecipazione degli altri. A quel punto Pietro inventa una melodia per la voce utilizzando quello che viene chiamato “l’inglese falso” e di lì a poco crea quello che è il vero e proprio testo.

Prima dell’ingresso del basso, la parte di questo strumento veniva studiata successivamente, mentre con la sua entrata il basso ha cominciato a far parte direttamente del processo di creazione durante le prove. A differenza poi dei primi anni, quando il pezzo veniva creato per essere registrato, con il tempo il gruppo ha cominciato a fare quelle che si chiamano “fasi di pre-produzione”, che hanno fatto la differenza per quanto riguarda gli arrangiamenti e i cori.

Quando  invece il gruppo decide di convertire i pezzi in acustico, le canzoni vengono destrutturate completamente sia nei ritmi che nella melodia, creando di fatto delle nuove canzoni, dove solo il testo rimane identico anche se viene cantato in maniera diversa.

 

Dove e quando possiamo venire a sentirvi?

Venerdì 9 luglio suoneremo alla Birrovia di Cuneo, dove con Alessandro Cherry Cerato (presentatore e disturbatore) ripercorreremo i nostri anni di attività e dove suoneremo le canzoni in versione acustica. Per quanto riguarda l’elettrico, considerando che i nostri concerti sono sempre “movimentati”, finchè il pubblico dovrà restare seduto preferiamo non esibirci. In questo ultimo periodo però abbiamo deciso di sopperire a questa mancanza andando a registrare alcune canzoni (in elettrico) in diversi studi di registrazione dove avevamo piacere di produrre qualcosa. Stiamo documentando il tutto attraverso dei video che potete trovare su Youtube (li ha fatti il nostro amico Fred Cigno che ci ha seguiti per molti live in giro per l’Italia). Per ora è uscito il primo, dal titolo 30 anni e non sentirli, ma continueremo a produrne degli altri. È  un modo per “stimolarci” e per testimoniare il lavoro che stiamo facendo.

Intervista a MATTEO ROMANO

“Adoro poter esprimere con la musica ciò che non riuscirei a dire a parole!”

 Riservato, talentuoso e giovanissimo, il cuneese Matteo Romano si racconta in questa intervista dove traspare il suo amore per la musica, il linguaggio universale per eccellenza che gli ha permesso di raggiungere traguardi importanti. La sua carriera è iniziata sui social, dove ha esordito come cantante con “Concedimi”, ormai virale in molti video su TikTok e Instagram. Con la nuova uscita del singolo “Casa di specchi”, il 30 marzo, ha raggiunto i cuori di moltissimi followers e non solo. Oggi Matteo è una giovane promessa della musica italiana, pronto a stupirci e a regalarci emozioni con la sua voce, le sue note e i suoi testi.

  1. Giovanissimo e già così famoso: qual è il tuo segreto?

Penso non ci sia nessun segreto in particolare, ormai sono tanti i giovani che hanno tanto da dire e da qualche anno ormai si cerca di dare loro sempre più spazio fortunatamente.

  1. Cosa ami della musica?

La sua leggerezza ma allo stesso tempo la sua potenza immensa; la sua fragilità e il suo potere evocativo enorme. Adoro poter esprimere con la musica ciò che non riuscirei a dire a parole!

  1. Ti saresti aspettato un successo del genere? Cosa rappresenta per te il successo?

Assolutamente no, ancora adesso non ci credo! Il successo per me rappresenta un mezzo per arrivare a più persone possibile facendo quello che più mi appassiona.

  1. Parliamo di te più nel dettaglio:       

– Come ti descriveresti?    

Sono una persona solare e ambiziosa. Sono determinato e cerco di essere il più autentico possibile.

 – Hai un esempio di vita a cui ambisci? Chi?                

Viagra sem receita médica Nessuno in particolare, il mio sogno sarebbe quello di vivere di musica rimanendo sempre me stesso e maturando sia come persona sia come artista.               

 – Cosa ti hanno tramandato i tuoi genitori?      

Alcune delle cose che più mi hanno tramandato i miei genitori e per cui più sono grato sono il rispetto verso il prossimo e il senso del lavoro e del dovere.    

 – Che scuola frequenti? Cosa farai dopo? 

Frequento l’ultimo anno di liceo Classico. Penso che il prossimo anno farò qualcosa nell’ambito della comunicazione, ma non sono ancora sicuro.

– Come ti sentivi prima a scuola e come ti senti ora, è cambiato qualcosa?

Non molto fortunatamente, cerco di comportarmi sempre nello stesso modo sia con i miei compagni sia con i professori e penso sia giusto così!

– Quale è il tuo più grande sogno?

Il più grande sogno è quello di poter vivere di musica, scrivendo i miei brani e cercando di trasmettere con le mie canzoni.

  1. Cosa o chi ti ha ispirato “Concedimi”? 

Concedimi è stata ispirata da una persona che è stato molto importante nella mia vita e nei confronti della quale sentivo di dovermi sfogare.

  1. Cosa vorresti tramandare con le tue canzoni?

Dipende un po’ dalla canzone: ci sono volte in cui voglio trasmettere qualcosa di particolare, altre invece in cui lascio maggiore spazio all’interpretazione personale di ogni persona.

  1. Il 30 marzo è uscito il tuo nuovo brano “Casa di specchi”:
  • Perché questo titolo?

 Ho scelto questo titolo perché penso rappresenti bene il significato della canzone. La casa di specchi allude a qualcosa che ci limita, che non ci fa vivere a pieno una situazione in cui dovremmo solamente lasciarci andare.

  • Cosa vorresti tramandare con questo pezzo?

Con questo pezzo ho voluto raccontare una storia che non è personale, ma che è la storia immaginaria di due persone che si vogliono, senza però riuscire a dimostrarselo. Proprio per questo ho cercato di rendere evidente il disagio e l’impotenza che scaturisce da una situazione simile, in cui ho cercato di immedesimarmi ed impersonarmi.

  • A chi ti rivolgi?

Non mi rivolgo a un destinatario preciso. Una cosa che mi piace molto di questo pezzo è che può essere interpretato in modo diverso a seconda di chi lo ascolta!

  1. Parliamo dei social, grazie ai quali hai avuto la possibilità di farti conoscere e amare.

– Cosa rappresentano per te? 

Rappresentano un mezzo per far conoscere me e la musica dal maggior numero di persone possibile!

– È possibile farne un uso consapevole? Come? 

Assolutamente si, utilizzandolo come mezzo divulgativo di una propria passione oppure come veicolo per esprimere un’opinione sempre in modo rispettoso e attento.

– A quale social sei iscritto e quale preferisci? Perché?

Sono iscritto a Instagram, TikTok, Snapchat e Facebook. Forse i miei due preferiti sono Instagram e Tiktok. Il primo perché ce l’ho da quando sono più piccolo e ci sono affezionato, il secondo perché è quello che mi ha permesso di arrivare a così tante persone.

  1. Spostiamo l’attenzione su Cuneo. 

– Ti piace la città? Perché?

Si! Perché nonostante non sia una grande città, è un luogo perfetto dove poter crescere in serenità, lasciando libero sfogo alla propria creatività.

– Credi che a Cuneo avrai possibilità di realizzare i tuoi progetti di vita?

Sinceramente non lo so. Per quanto Cuneo sia una città a cui sono molto affezionato, al momento voglio scoprire nuovi orizzonti ed avere nuovi stimoli, ma non so che cos’abbia il futuro in serbo per me!

-Cuneo è una città per giovani? 

All’apparenza alcuni direbbero di no, ma in realtà penso che viviamo in una zona veramente bellissima che ha molto da offrire e, per chi ha voglia di fare cose, ci sono moltissimi posti in cui andare con gli amici!

  1. Se dovessi dare un messaggio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa diresti loro?  videomessaggio Matteo romano

L’appello di Alessandro D’Avenia fra scrittura e teatro: eventi passati e futuri

Amo il nome della rubrica per cui scrivo, A caccia di eventi. Mi porta a cercare sempre cose nuove, da conoscere e far conoscere e ad imbattermi in ciò che mi sono persa per strada ma che era molto importante che trovassi. Inoltre il termine “eventi”, così sfaccettato e soggettivamente interpretabile, mi permette di parlare un po’ di tutto ciò che cattura i miei occhi e il mio cuore.

Dopo questa premessa arriviamo finalmente al primo evento che ho scelto di mettere a fuoco in questo articolo: il film del racconto teatrale dell’ultimo romanzo di Alessandro d’Avenia, L’appello. Molti di voi avranno già letto questo romanzo e magari avranno già anche visto il film di cui sto parlando, girato al Teatro Colosseo di Torino seguendo i protocolli anti Covid, con la regia di Gabriele Vacis e pubblicato lo scorso dicembre sul canale Youtube di Libri Mondadori.

Io me l’ero perso e scoprirlo in questo momento per me è stata una ventata di aria fresca. Se anche voi ve lo siete persi, vi racconto perchè dovreste correre a vederlo.

La trama è apparentemente semplice: Omero Romeo, professore di scienze, viene chiamato a prendere in carico una classe quinta liceo la cui insegnante è mancata all’improvviso. Si tratta di una classe problematica, una classe-ghetto che raccoglie i casi più disperati della scuola. Un piccolo grande particolare: Omero, come il suo celebre omonimo greco, è cieco. Ma attraverso la sua sensibilità e l’innovazione che porta riesce a comprendere gli alunni come nessun altro prima.

Perchè questo particolare è così importante? Perchè si collega a ciò che a mio avviso rende Alessandro D’Avenia un vero grande: la capacità, nonostante il successo raggiunto come scrittore di fama internazionale e dopo vent’anni di carriera da insegnante di riconosciuto talento, di mettersi in discussione. Di sentire, forse a livello emotivo prima che razionale, la necessità di cambiare prospettiva, di andare oltre sé stesso come insegnante, come scrittore e, prima ancora, come essere umano in relazione con altri giovani esseri umani. Perchè l’appello nasce da una rivoluzione copernicana che D’Avenia ha messo in atto nel suo modo di intendere l’insegnamento. In alcune interviste D’Avenia racconta infatti che agli inizi della sua carriera era guidato da un modello di insegnamento che definisce “in stile Attimo Fuggente”. Ovvero il modello di un professore fortemente carismatico, la cui passione per ciò che insegna e per l’insegnamento stesso è così forte da accendere gli studenti, attraverso quel fuoco. Il che, a mio avviso, è già tanto: avercene di professori così, no?

Ma come fa notare lo stesso D’Avenia, in questo tipo di modello l’insegnante è una sorta di protagonista della scena e gli studenti il suo pubblico.

Ma è di questo, si chiede il docente e scrittore, che hanno veramente bisogno i ragazzi nel presente dell’ora di lezione?

Si è così reso conto di essere chiamato a diventare lui il loro pubblico. Di voler accogliere e raccogliere i nomi e le storie dietro i volti presenti nelle sue classi. Rendendo così l’insegnamento una dinamica bidirezionale, uno scambio profondamente umano: non solo una trasmissione di preziosi insegnamenti ma una condivisione di storie, talenti, passioni, dolori, speranze, vitalità. Facendo sentire gli studenti soggetti attivi, protagonisti di ciò che accade in aula.

D’Avenia con L’appello mette così a nudo la sua auto dichiarata passata “cecità” e quella di molti che, in una dinamica autoreferenziale, guardano tutto senza vedere nulla.

Tornando alla trama del romanzo: il professor Romeo, non potendo vedere i volti degli alunni, inventa allora un nuovo modo di fare l’appello che non ha niente ha che fare con l’automatismo a cui quasi tutti siamo stati abituati. Ogni mattina infatti al momento dell’appello i ragazzi sono chiamati a portare un pezzo delle loro storie di vita nell’ora di lezione. Vediamo così come il professore può davvero imparare a conoscere giorno per giorno i suoi studenti scoprendone difficoltà, talenti, paure e sogni. E così i ragazzi, sentendosi visti e ascoltati, evolvono di capitolo in capitolo, e insieme a loro evolve il professore che, attraverso le voci che restituisce a questi giovani, riflette sulla propria vita.

Il  film del racconto teatrale si rifà proprio al romanzo, con D’Avenia nel ruolo di Omero ma anche di sé stesso (quando racconta come sono nate le storie che racconta nel libro, chi le ha ispirate) e giovani studenti di teatro, allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino che interpretano gli studenti della classe.

Ascoltare le storie di Elena, Cesare detto Ruggine, Achille, Stella, Oscar, Caterina, Ettore, Elisa, Mattia,  Aurora, interpretate con passione da questi bravissimi attori in formazione, tocca il cuore. Sono storie dolorose ma la sensazione non è quella di una spettacolarizzazione del dramma fine a se stessa, tutt’altro. Quella che emerge chiara è la volontà di far parlare le ferite dei giovani, ferite profonde e spesso inascoltate ma che se accolte, viste, accompagnate, possono aprirsi ad un processo di cura e rinascita. La volontà di aprire gli occhi agli spettatori, di renderli consapevoli che dietro ogni nome che si può incontrare per la propria strada c’è un mondo.

Una lezione di cui potremmo forse fare tesoro tutti, non solo gli insegnanti, nell’incontro con un altro essere umano con cui ci troviamo ad avere a che fare. Chiederci di fronte all’altro: che cosa c’è davvero nel tuo nome? Che storia porti? Quali gioie, quali dolori, quale musica, quali ferite, quali desideri?

Ma dopo questo salto nel passato arriviamo al secondo evento di cui voglio parlarvi, collegato al primo. Se, dopo aver visto il racconto teatrale o aver letto il romanzo in questione ne siete rimasti folgorati come me, vi segnalo, mercoledì alle 21, una diretta sulla pagina Facebook di Libri Mondadori. Si tratta di un nuovo episodio del format online “Scrittori a Teatro”: partendo dai rispettivi romanzi, “L’appello” e “Italiana”, Alessandro D’Avenia e Giuseppe Catozzella racconteranno di letteratura, arte e scrittura e di ciò che li ha resi gli scrittori che sono. Da non perdere!

Intervista agli organizzatori di STASERA NON VIENE NESSUNO

Cosa succede quando non si possono più fare spettacoli dal vivo ma si vuole fare uno spettacolo in diretta streaming che non sia «semplicemente “gruppo-che-suona-davanti-a-telecamera” (cit.)»?

 

Succede che i lavoratori del mondo dello spettacolo non si arrendono, si mettono al lavoro insieme, trasformano un teatro, contattano artisti, fino a creare qualcosa di completamente diverso: Stasera Non Viene Nessuno è questo e molto altro. E il pubblico? Il pubblico non è presente ma in qualche modo c’è, è coinvolto in modi alternativi e si fa sentire, diventando coprotagonista della diretta.

 

Ho fatto qualche domanda ai brillanti ideatori di SNVN, questa serie di originali spettacoli in diretta streaming trasmessi dal Teatro Toselli di Cuneo (potete recuperare tutte le puntate su staseranonvienenessuno.it o direttamente su YouTube). Dalle loro risposte, tra una battuta e l’altra, emerge forte la voglia di tornare a fare spettacoli dal vivo, ma anche la speranza che sia dato un nuovo e più giusto rilievo a questo settore. Ed è anche questo che ha fatto SNVN: non solo offrire ottima musica, recitazione, comicità ma anche raccontare il mondo dello spettacolo in modo diverso, mettendo in luce le limitazioni e difficoltà dei lavoratori (già diffusamente presenti prima della pandemia) per creare nuove prospettive, nuove vie.

 

Da amante di concerti e spettacoli di ogni genere e da componente del pubblico da casa di Stasera Non Viene Nessuno posso dirvi questo: sappiamo tutti che ciò che si crea quando artisti e pubblico si incontrano dal vivo è insostituibile ma la sera di Natale, un’altra serata in cui restare a casa, la diretta di SNVN mi ha fatto sentire per un attimo lì. Lì dove divertimento, birra, significati, empatia ed emozioni di vario tipo si mischiano, dove ti senti parte di qualcosa di più grande, dove un collegamento fatto di musica e parole ti unisce a tutti gli altri che sono parte del pubblico e a chi si sta esibendo e su quel palco sta dando il meglio di sé. O forse musica e parole ti uniscono anche a tutti gli altri esseri umani, ti aiutano a comprenderli, a metterti nei loro panni, ad aprire la mente ancora una volta, ancora un po’ di più.

Grazie SNVN: noi non siamo potuti venire da voi, ma voi a noi siete arrivati.

1) Come nasce e con quale intento l’idea di «Stasera Non Viene Nessuno»?

L’idea iniziale di SNVN è nata in quella dozzina di giorni tra lo stop agli spettacoli dal vivo e il primo lockdown di inizio marzo. Con i Lou Tapage volevamo fare uno spettacolo in diretta streaming che non fosse semplicemente “gruppo-che-suona-davanti-a-telecamera”. È chiaro che lo spettacolo dal vivo è insostituibile e non riproducibile a distanza, tanto vale divertirsi e fare qualcosa di completamente diverso: trasformare il palco di un teatro vuoto in un salotto, dove i lavoratori dello spettacolo si ritrovino a chiacchierare, magari anche a suonarne due ma soprattutto a raccontare quel mondo dietro le quinte solitamente nascosto al pubblico. A Claudio Allione (super fonico) e Simone Drocco (Varco – Campeggio Resistente) è piaciuta l’idea e abbiamo iniziato a lavorarci su. Al gruppo si sono poi uniti l’Orchestra della Centrale e una squadra  di tecnici e artisti che hanno creduto al progetto e hanno dato un contributo immenso nel realizzarlo.

2) Per molti lavoratori dello spettacolo il pubblico è parte integrante dell’esibizione artistica: ogni replica può risultare un po’ diversa ogni volta anche per questo scambio interattivo tra chi si esibisce e chi assiste. Quali sono stati i pro (se ce ne sono stati) e i contro di organizzare spettacoli senza il pubblico in carne ed ossa?

Il pubblico non era presente in sala, vero, ma c’era. Abbiamo cercato di rimediare alla distanza con il “balconcino social-ista”, con Guido Canepa e Stefano Bertaina a fare da ponte tra il pubblico da casa e il palco. Nel corso della diretta il pubblico aveva la possibilità di intervenire e interagire con lo spettacolo tramite la chat di YouTube e le pagine dei social. Non era la stessa cosa, chiaro, ma ha creato situazioni e interazioni che difficilmente sarebbero possibili dal vivo.

Il lato positivo è che a fine serata non devi fare il giro della sala per pulire e recuperare i bicchieri vuoti, il lato negativo è che non hai nessuno con cui bere.

3) Artisti e musicisti come hanno accolto il vostro invito a partecipare?

All’inizio è stato complicato spiegare cosa volevamo fare ma una volta arrivati in teatro tutti gli artisti si sono sentiti a casa, hanno fatto proprio il salotto di SNVN. E a fine serata ci siamo sempre salutati con gli occhi umidi. Forse era amore, forse era Covid.

4) Qual è stato il feedback del pubblico da casa?

In chat sono arrivati feedback di ogni tipo, dagli apprezzamenti agli insulti personali, passando per le compravendite di Fiat Panda usate. Tirare le somme è difficile, ma con il senno di poi sarebbe stato meglio comprare il modello 4×4.

5) Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

Per quanto SNVN sia stato un laboratorio sperimentale stimolante, creativo, divertente, etc., etc., etc., ci ha comunque lasciato immutata la voglia di tornare a fare spettacoli dal vivo.

6) Cosa vi augurate per il futuro del mondo dello spettacolo?

Non di tornare com’era prima. E ci riferiamo alle condizioni contrattuali dei lavoratori dello spettacolo. Ci auguriamo che questa triste tabula rasa possa se non altro essere un’occasione per ricostruire da capo il sistema, cambiandolo in meglio. Detto così sembra più un appello del papa, quindi concluderemo con una frase più sobria: «Date una carezza ai vostri figli e ditegli: questa è la carezza di Stasera Non Viene Nessuno».

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