Laboratorio di teatro dell’oppresso a Cuneo: rivivere un’oppressione, cercare soluzioni condivise e…divertirsi insieme!

Il 12 e 13 settembre ho preso parte ad un’iniziativa molto particolare che si è svolta a Cuneo, presso il Parco della Gioventù, dove è stato allestito il circo contemporaneo Zoé in città e in collaborazione con delle associazioni del territorio, quali Micò Aps e Fondazione Nuto Revelli.  In particolare, si è voluto coinvolgere anche giovani membri dei progetti Start the change (https://www.startthechange.eu) e P.E.E.R (“Praticare Eguaglianze Esercitare Resistenze” realizzato da Micò Aps, Fondazione Nuto Revelli, Arcigay Cuneo GrandaQueer e Ora e Sempre all’interno del bando “Mondo Ideare” finanziato dalla Fondazione Crc).

Il titolo dell’attività già mi ispirava molto: Laboratorio di teatro dell’oppresso e forum, ma è stata la mia partecipazione in prima persona a confermare l’interesse. In realtà, non sapevo assolutamente di cosa si trattasse, come molti dei partecipanti, ma mi sono buttata e devo dire che ne sono rimasta molto soddisfatta. Conducevano il laboratorio due esperti provenienti da Torino: Monica Prato, psicoterapeuta e attrice e Paolo Pollarolo, antropologo africanista ed economista.

Vi starete chiedendo: “Cos’è il Teatro dell’oppresso?”.

Il TdO è un metodo teatrale molto potente e coinvolgente che utilizza varie tecniche, giochi ed esercizi con lo scopo educativo di portare allo scoperto i conflitti presenti nella società o nel mondo interiore dei singoli e cercare soluzioni collettive. È un dispositivo recente: è nato negli anni ’60 in Brasile, durante la dittatura, per opera di Augusto Boal che unì il suo impegno politico alla formazione teatrale. Il risultato è un teatro corale che può essere considerato un sistema educativo nonché strumento di cambiamento poiché induce i partecipanti a portare in scena dei problemi e dei conflitti, affrontarli attraverso i gesti e le parole, ma soprattutto, cercarne la soluzione insieme e capire le varie alternative proposte. Anche il pubblico diventa attivo grazie al suo coinvolgimento in scena: da spettatore diventa spett-attore. In pratica, il Teatro dell’oppresso ci ricorda che la parola sta alla base della nostra società e che sono il confronto e l’ascolto a permettere il cambiamento, che sia personale o globale.

Le due giornate si sono svolte all’insegna del divertimento e devo ammettere che mi sono portata a casa un bagaglio di conoscenze del tutto nuove. All’inizio, attraverso vari lavori di gruppo, come ad esempio, giochi basati sui nomi dei partecipanti, sulle aspettative riguardo al laboratorio, sulla fiducia, esercizi di preparazione per sciogliere rigidità corporee ed emotive, momenti di improvvisazione e di risate, abbiamo cercato l’unione nel gruppo, formato da persone diverse: giovani e meno giovani, uomini e donne, attivisti, studenti, lavoratori… Non è stato semplice, ma alla fine si è creata un’atmosfera alquanto piacevole ed è stato come se ognuno di noi si conoscesse da mesi! Era proprio uno degli obiettivi principali quello di creare un gruppo unitario, basato sulla fiducia reciproca e sulla bellezza della diversità come punto di forza.

Tra un gioco e l’altro, le ore sono volate ma avrei voluto fermare il tempo per assaporare quei momenti di allegria e spensieratezza tipici dell’infanzia. D’altronde, eravamo un po’ come dei bambini alle prese con dei giochi di gruppo, ma sotto all’apparenza ludica delle attività, si nascondevano valori profondi ed insegnamenti utili per il laboratorio. Infatti, i giochi servivano come preparazione per l’attività principale, cioè la realizzazione di due scene rappresentanti due situazioni considerate conflittuali e oppressive. Ogni partecipante è stato invitato a pensare ad un evento in cui emergesse un’oppressione, sia collettiva che personale, per poi metterla in scena grazie all’aiuto del gruppo e di Monica e Paolo. Sono stati i singoli membri a scegliere i vari attori e a rappresentare, senza l’ausilio della parola, le scene, “plasmandole” a proprio piacimento. Sono emerse situazioni differenti ma molto significative. Dopodiché, insieme, abbiamo scelto le due scene più adatte alla rappresentazione, trasformandole in atti teatrali con tanto di battute. Abbiamo provato molte volte, abbiamo riso e pianto, abbiamo anche finto e spesso la realtà e la finzione sembravano un tutt’uno, mentre l’oppressione emergeva sempre di più, fino a diventare intollerabile, proprio come nella vita reale.

La prima scena rappresentava un conflitto personale: un atto di bullismo avvenuto a scuola. In particolare, trattava i temi della discriminazione e dell’incomprensione nei confronti di una ragazza omosessuale; mentre la seconda scena si basava su un fatto di cronaca cuneese: l’ordinanza n. 488 anti-accattonaggio, finalizzata al contrasto del degrado urbano, causato dall’abusiva occupazione di suolo pubblico ed al bivacco, ed alla tutela della convivenza civile, igiene, bellezza e rispetto dei beni, degli spazi e dei luoghi pubblici. Due tematiche molto rilevanti e profonde che meritano di essere approfondite e capite, affinché se ne possa comprendere l’assurdità.

Infine, con nomi di fantasia, ci siamo esibiti al pubblico domenica 13 alle ore 17 nel grande tendone allestito dal circo Zoé in città. L’emozione era tanta, soprattutto per chi, come me, era alla prima esperienza di teatro. Trattandosi di uno spettacolo forum, il pubblico è stato da subito coinvolto nella ricerca di possibili soluzioni da mettere in pratica nelle situazioni di conflitto rappresentate. In parecchi sono intervenuti: chi ha voluto sostituire un personaggio, chi ne ha aggiunto uno, chi ha cercato di trovare un compromesso, chi ha denunciato pesantemente il fatto… Il risultato ottenuto è stato sorprendente, un vero e proprio coinvolgimento attivo da parte degli attori e del pubblico che hanno interagito insieme in cerca di una o più soluzioni ai problemi. Il cambiamento sulla scena è stato inevitabile poiché erano situazioni dinamiche, come vuole il teatro dell’oppresso in cui i vari punti di vista si intrecciano e modificano sempre la scena di partenza. È stato molto curioso notare come gli spettatori si siano trasformati in attori e viceversa senza un minimo di copione, provando in prima persona l’ebrezza dell’improvvisazione e facendo ricorso soltanto ai propri valori e alle proprie emozioni.

Questa esperienza mi ha lasciato tanto. In primis, un bel rapporto con il gruppo con cui spero di condividere nuove esperienze in futuro. Non eravamo solo attori, eravamo compagni di avventura e condividevamo molte passioni e molti valori che abbiamo cercato di far emergere in scena. Ho provato in prima persona quanto sia arricchente la diversità e ne sono rimasta affascinata. Inoltre, grazie a questo laboratorio, ho potuto lasciarmi andare e dar voce ad alcuni conflitti che mi tenevo dentro, forse per paura di espormi o per timore del giudizio altrui. Ho anche scoperto quanto sia difficile sfidarsi e sfidare le proprie emozioni. Tutto questo grazie alla tecnica del teatro dell’oppresso e in particolare, grazie a Monica e Paolo che hanno reso possibile la realizzazione dello spettacolo, aiutandoci, facendoci divertire, spronandoci e supportandoci.

Ringrazio gli organizzatori dell’evento: Micò Aps, Fondazione Nuto Revelli, Circo Zoè in città, progetto Start the change e P.E.E.R, Monica e Paolo e tutti coloro che ne hanno preso parte. È stata un’esperienza incredibile!

Waiting for ROSBettola: intervista a Edith e Leo Gastinelli, gestori del nuovo locale che aprirà a Rosbella

Dopo questo periodo particolare la voglia di bersi una birra, magari all’aperto, è più forte che mai…e a Rosbella, frazione di Boves immersa nella natura, sta prendendo forma un locale che sembra fatto apposta per rispondere a questa esigenza, e a molte altre! Ho intervistato i due giovani futuri gestori di questa nuova realtà, i fratelli Edith e Leo Gastinelli. Due ragazzi ambiziosi, creativi, che stanno lavorando duro per questo progetto che unirà tradizione e innovazione, cultura e prodotti locali di qualità, in un’ottica 100% green!

1) Raccontatemi di voi…come vi siete formati e com’è nata l’idea della ROSBettola?

EDITH: Io ho studiato al liceo artistico, che non rispecchia molto quello che ho fatto dopo, a parte l’aspetto creativo. Nei miei primi anni di liceo ho conosciuto Andrea Bertola, mastro birraio di fama internazionale: aveva passato un’estate a Rosbella e una sera con lui, già 10 anni fa, era saltata fuori l’idea della ROSBirra, per gioco. Grazie ad Andrea mi sono avvicinata al mondo della birra artigianale, che per me a quell’età era sconosciuto: in Italia è una realtà degli ultimi 10-15 anni, non è una tradizione radicata come quella del vino, ad esempio. Durante il liceo ho iniziato a seguire Andrea per birrifici locali, a frugare nel suo mondo. Mi piaceva pensare di poter ambire a diventare il suo aiuto. Finita scuola ero indecisa se continuare con gli studi di grafica e fotografia o se immergermi nel mondo della birra. Ho scelto la seconda opzione e ho seguito Andrea nell’unico birrificio artigianale di Gozo, piccola isola vicino a Malta, dove lui faceva da consulente. A Malta arrivò, l’anno successivo, anche un altro consulente: dal suo rigore tecnico e dal genio creativo di Andrea ho potuto imparare moltissimo. Dopo questa prima esperienza full immersion nel mondo della birra, ho trascorso un periodo in Cile, per poi tornare in Italia. Tornata qui è partita l’avventura al birrificio Troll: sapevo che cercavano personale e a me mancava lavorare in birrificio, il suo profumo, la sua atmosfera, e quella sensazione che ti dà fare il lavoro che ti piace, avendo tra l’altro avuto la fortuna di trovarlo subito. Durante le mie esperienze nei birrifici ho potuto apprendere e sperimentare tutte le fasi di produzione e confezionamento della birra: se vuoi produrre in modo autonomo devi saper gestire ogni fase, ed è anche il bello di questo lavoro per me. Se imposti il lavoro con una settimana di produzione al mese sai che ogni settimana è diversa, una settimana produci, una rifermenti, una imbottigli, una etichetti. E poi c’è la soddisfazione di riuscire in un lavoro duro, considerato “da uomini” perché fisicamente pesante in alcuni aspetti: alzare sacchi da 25 kg per macinare i malti, ad esempio. Ma se pensiamo alla storia del prodotto, nella tradizione dell’antico Egitto e della Mesopotamia erano le donne a fare la birra. Oltre all’esperienza al Troll, un altro passo importante per la nascita della ROSBettola è stata la mia partecipazione a ReStartAlp, un campus per l’imprenditoria giovanile sulle Alpi, un incubatore d’impresa per la rivitalizzazione della montagna. Io non avevo una base di studi di economia o imprenditoria e in quei tre mesi intensivi al campus ho imparato molto: analisi dei costi e dei mercati, fare un business plan… rendermi conto se un progetto è realizzabile concretamente a livello di costi e allestimenti. Non ho vinto il campus, il che è stata una fortuna perché mi sarebbero arrivati subito i finanziamenti e avrei dovuto partire quattro anni fa, mentre così abbiamo avuto ancora qualche anno per macinare l’idea. Alla fine dell’anno scorso abbiamo partecipato a un bando del GAL, entrando in graduatoria: ci ha assicurato fondi europei che hanno coperto una parte dell’investimento che abbiamo fatto per la ROSBettola. Dovevamo aprire a maggio ma con la quarantena siamo rimasti bloccati, e a maggio sono iniziati i lavori. Anche con la pandemia siamo rimasti fiduciosi e nonostante questa sfortuna alla fine è stato un periodo utile perché le persone stanno rivalutando tantissimo la montagna. Hanno voglia di un posto all’aperto dove bere birra buona e mangiare cose sane.

LEO: Io ho fatto l’alberghiero, che calza a pennello con quello che andrò a fare adesso e con le prospettive di sviluppo della ROSBettola. Da quando sono piccolo sono appassionato di cucina, quando andavo a trovare mia nonna cucinavamo sempre insieme. Ho appena finito scuola ma durante il percorso scolastico ho potuto fare esperienza. Ho seguito il consiglio di un cuoco di Cuneo, amico di famiglia, scegliendo di fare stage in panetteria e in macelleria: luoghi dove non si fa ristorazione in senso stretto, ma che ti permettono di conoscere nel dettaglio il prodotto che vai a finalizzare. Alla ROSBettola proporremo il ROSBread, un pane speciale che avrà nell’impasto le trebbie della ROSbirra. Dopo esperienze al panificio A Fuoco Vivo a Peveragno e alla macelleria Martini a Boves, ho avuto la possibilità di sperimentarmi in cucina, ma all’estero. Sono andato in un ristorante a Barcellona, una prima esperienza in cucina bellissima e particolare, perché ho dovuto confrontarmi con la lingua straniera. Poi ho continuato in un hotel a Cervinia, in una brigata enorme dove mi sono trovato bene e, nella stagione estiva, a Punta Ala, in Toscana. Ho capito però che non è nelle cucine così grandi che mi esprimo al meglio. Sono tornato a Boves e ho aiutato per un periodo mio zio in pasticceria. Qui alla ROSBettola avrò la possibilità di fare piccola ristorazione, posso iniziare a tirare fuori tutta la mia passione, potrò fare cose nuove, creare proposte interessanti.

2) Che cosa offrirà la ROSBettola a chi verrà a conoscerla?

EDITH: Alla ROSBettola ci sarà la ROSBirra: la produco nel birrificio del Troll ma è una ricetta inedita che ho studiato io. Nella ROSBirra ci sarà un ingrediente speciale che la rende unica, un ingrediente veramente a chilometro zero, raccolto a 5 metri dalla ROSBettola. Avremo un grande prato e offriremo modalità alternative di piccola ristorazione: non per forza seduti al tavolo, dentro o fuori, ma chi vorrà potrà avere il suo cestino da picnic e il suo plaid per mangiare e bere nel prato. All’inizio sarà più un pub-birreria con taglieri di salumi e formaggi d’alpeggio, hamburger, panini gourmet, il tutto con la massima ricerca nella qualità degli ingredienti, selezionati a livello locale. Poi speriamo di avere la possibilità e le motivazioni per ingrandirci un po’ e ristrutturare la nostra tavernetta, creando lì la cucina vera e propria, magari preparando anche prodotti in barattolo: le ROSBontà. Non vogliamo collaborare con multinazionali, al posto delle classiche Coca e Fanta vorremmo offrire nuovi prodotti, succhi con le materie prime della zona, Kombucha (bevanda ricavata dal tè fermentato, molto dissetante). Vogliamo davvero fare scelte green, crediamo che sia l’unico modo che abbiamo noi giovani per invertire la tendenza che sta portando alla distruzione del pianeta. Sappiamo che l’abbiamo sporcato troppo, sprecando moltissimo, e adesso ci tocca fare quel passo indietro, ritornare alla terra, alle scelte locali. E la ROSBettola è un’occasione d’oro per concretizzare il cambiamento e trasmetterlo. Un concetto che abbiamo a cuore è quello della globalizzazione al contrario. È l’idea delle osterie di una volta: ognuna aveva il proprio vino, di propria produzione, che trovavi solo in quella specifica osteria. Non troverete i nostri prodotti nei locali di Cuneo, Boves, Peveragno: i prodotti della ROSBEttola rimarranno qui a Rosbella e dovrete vivervi l’esperienza della montagna per poter godere anche dei suoi frutti. Spesso, quando si inizia a produrre qualcosa, lo si pensa subito in scala industriale, invece qui l’idea è opposta, far salire la gente, rivalutare il territorio. La ROSBettola sarà anche un centro di cultura e socialità, un centro nevralgico di incontro. Stiamo già collaborando con professionisti di diversi ambiti (come Valeria Pretato, insegnante di yoga). Da una parte offriremo esperienze aggiuntive a chi verrà qui a bere e mangiare, dall’altra daremo uno spazio a chi fa attività, anche nuove e di nicchia.

LEO: Il nostro intento è proprio quello di riavvicinare le persone alla montagna, staccarle un po’ dalla città. Per me la grossa soddisfazione sarebbe vedere i miei amici, i ragazzi giovani, che ritornano ad apprezzare la natura. Speriamo di aprire ad agosto: io sto dando una mano a tutti, non vedo l’ora di aprire. Saremo anche negozio di prossimità. Per me è tutto perfetto: sono felice, carico e motivato!

3) Voi siete nati da queste parti ma avete viaggiato un bel po’. Perché la scelta di tornare e creare qualcosa di vostro proprio a Rosbella? 

EDITH: Credo che la scelta dei miei genitori di lasciarci sempre liberi di andare sia stata vincente. Perché quando obblighi qualcuno a stare in un posto emergono i lati negativi, invece se tu parti, poi apprezzi anche quello che hai lasciato. Mi è rimasta impresso un concetto che lessi tempo fa in Lalla Romano: non si torna se non nel luogo dal quale non si è mai partiti. Io non sono mai andata via di qui per scappare, perché qualcosa qua non mi piaceva, sono partita per imparare, ma ho sempre avuto l’idea di riportare qua le esperienze e le conoscenze maturate in giro. Non sapevo che sarebbe stato adesso, forse avrei voluto viaggiare ancora molto prima di dare vita alla ROSBettola, però l’occasione è arrivata ora e sarebbe stato un peccato non coglierla. Entrambi teniamo molto a Rosbella, e la nostra famiglia è stata nel 2000 la prima a ripopolare stabilmente la borgata, che oggi conta già quindici residenti. I miei hanno spostato il loro studio di produzione video da Boves a Rosbella nel 2009 e hanno lavorato tutta la vita sul rivalutare la montagna e dimostrare che di montagna si può vivere. La nostra missione è provare che anche se siamo giovani non dobbiamo per forza andare a lavorare nelle città e che si può vivere e lavorare in montagna, reinventarsi nella montagna, rivalutandola. Il presidio è importantissimo per non far morire una zona montana. Ci sono anche tanti altri esempi di borgate che sono rinate grazie al turismo e purtroppo anche tanti altri di borgate che sono morte perché non c’è più stato presidio. Noi speriamo di riuscire ad arrivare alla fine della missione dimostrando che a Rosbella dal niente che c’era possiamo arrivare ad avere bed & breakfast, osteria, birrificio: vita vera.

LEO: Ho girato molto anch’io, grazie anche al permesso e all’incoraggiamento dei nostri genitori. Non è semplice: devi uscire dalla tua zona di confort, superare magari la paura di sbagliare o fare figuracce e buttarti. Io ad esempio con le lingue straniere sono una frana, però ce l’ho sempre fatta. Ma se devo essere sincero per me non ci sono posti migliori di Rosbella. Questo posto fa parte di me, siamo una cosa unica: ha sempre cullato i miei limiti e tirato fuori le mie migliori risorse, il meglio di me.

Pensieri sull’attore: mito, sognatore, lavoratore

Vedi l’attore (*) sul palco, e ti chiedi che strano mestiere sia il suo: tu hai sempre visto solo persone che fanno lavori con orari fissi, di giorno o di notte, ma mai che prevedono impegni saltuari e solo in alcuni periodi. Hai iniziato a vedere (o meglio il verbo “partecipare al”?) teatro qualche mese fa e ti è venuto questo pensiero. Continui a “partecipare al teatro”, cresce la tua stima per coloro che dal palco ti regalano emozioni: attori, registi, scrittori. E ad un certo punto inizi a vederli come eroi, esseri illuminati, tendenti al divino. Stop, facciamo un passo indietro.

Da quando è iniziata la mia passione per il teatro, è cresciuta in me la curiosità per l’attore: non tanto quello sul palco, ma quello che poggia la testa sul cuscino, dopo una doccia in una notte di estate per lavarsi il sudore della serata a recitare; insomma la mia curiosità per quello spazio che viene prima del palco. Spazio umano, di lavoro e vita, che nello stesso modo dello spazio del palco, è stato, con un processo di mitizzazione della mia mente, elevato a livelli divini. La mia mitizzazione dell’attore non è un approccio utile a considerarlo un lavoratore come gli altri, e infatti io lo considero un lavoratore diverso, ma, e questo ma è fondamentale: non diverso per i diritti e le garanzie che deve avere.

Secondo l’interpretazione di Marx del lavoro, l’attore è il lavoratore per eccellenza: nel suo lavoro esprime, oggettivizza se stesso, nel modo più autentico. E infatti nel mondo del lavoro di oggi sempre più artificiale e spersonalizzato a livelli diversi, l’attore sembra essere un lavoratore “strano”, ma è eccome un lavoratore. A questo punto, qualcosa non torna: allora perché io lo mitizzo? Probabilmente ho molta stima di una persona che ha ancora il coraggio di lavorare in questo modo, ho invidia della sua passione. E mitizzandolo lo pongo come modello distante da me, non reale, qualcosa a cui non posso davvero giungere: così mi precludo in partenza il percorso che potrebbe portare anche me a lottare per un mestiere che mi permetta di esprimere me stessa. E’ la realtà intorno che preme, coi suoi ritmi e le sue richieste, che sembrano così più a portata di mano.

Ancora in cerca di una prospettiva, ho fatto qualche domanda a due attori, partendo dalle mie curiosità.

Partiamo da un momento peculiare della vita di un attore: gli applausi del pubblico. E’ una coincidenza che entrambi gli attori che ho intervistato abbiano citato questo momento spontaneamente? Erika dice che il momento più difficile per me è alla fine dello spettacolo, quando devo prendere gli applausi, in quel momento l’attore toglie la maschera e non ha più il personaggio a proteggerlo, e allora lì viene fuori Erika con tutta la sua fragilità e timidezza, ancora ho difficoltà a ricevere i complimenti. E Federico invece: durante il periodo di repliche il momento più bello è quello degli applausi. L’incontro con il pubblico.

Erika ha parlato di difficoltà a ricevere i complimenti e di maschere, ed ecco che ritornano a galla per me una serie di domande: il teatro aiuta a diventare più estroversi? Aiuta a superare timidezza e impaccio?  E’ una domanda comune, ma anche mal posta, e mi hanno aiutato a rifletterci in questo senso le parole di Federico: Il teatro fa bene, ti trasforma. È una buona medicina per la vita e sicuramente può rivelarsi utile anche per chi è introverso.[ ] La pratica del teatro riesce a toccare qualcosa di estremamente profondo. [ ]E la stessa utilità, ovviamente, vale anche per chi possiede un carattere più estroverso. La sua “apertura” verso il prossimo può sicuramente rivelarsi un’arma vincente dal punto di vista teatrale. È un’apertura verso i compagni in scena così come verso il pubblico.[ ] E quell’apertura che il teatro ti permette di esplorare, quell’ ascolto verso il prossimo, quella sensibilità che per forza deve essere il tuo terreno di gioco, riesci a portartela dietro nella vita di tutti i giorni.

Scendiamo ora dal palco e indaghiamo dietro le quinte: com’è la routine per un attore? Ha una routine? Mentre Federico mi risponde che più che altro ha una routine di lavoro – Lo studio continuo del testo, la memoria, le prove… – Erika pone l’attenzione su un aspetto del lavoro a volte sottovalutato: Ogni mattina faccio i 5 Tibetani, esercizi presi dallo yoga che lavorano sull’ equilibrio dei chakra. Sono per me un rituale che rafforza il corpo e lo spirito. Ritengo che l’attore debba fare un gran lavoro su di sé, prendendosi cura della sua anima e del tempio che la  custodisce: il corpo. L’attore è un’atleta.

Rimanendo sempre dietro le quinte: quando non si va in scena, i periodi di creazione e di prove come sono? Federico dice che il momento più significativo è proprio la ricerca, il momento delle prove. Lo stare in contatto con i colleghi e trovare insieme la meraviglia che riuscirà a far decollare il lavoro. E invece Erika testimonia una certa difficoltà – La cosa più faticosa sono i periodi di inattività teatrale – ma che si rivela alla fine fruttuosa:  la criticità del momento rende quei periodi in assoluto i più proficui e creativi. Io stessa in periodi del genere ho scritto pensieri che poi hanno portato alla nascita di uno spettacolo.

Usciamo ora dalla sala prove e parliamo dell’inizio di una carriera teatrale: come nasce un attore? Che difficoltà incontra? E qui di nuovo le risposte vanno d’accordo: Federico dice che i suoi genitori lo hanno sempre appoggiato, ma aggiunge: Devo dire, però, che da quando è diventato un mestiere è anche motivo di scontro. Mi hanno sempre implorato di trovare un piano B, perché capiscono che, ahimè, non è un lavoro che assicura una certa continuità. E Erika parla di appoggio totale dei suoi genitori, di sua madre che è la mia Fan numero uno e non vede l’ora di vedermi su Rai 1 a fare una “fiscion” come le chiama lei; ma ricorda anche come al primo anno di scuola di teatro suo padre le abbia detto: Con il teatro non si campa!. E aggiunge: A distanza di anni devo dargli ragione, io purtroppo non faccio solo l’attrice, e negli anni ho svolto così tanti lavori da dovermi creare un doppio Curriculum, quello artistico e quello civile!.

Quest’ultima amara affermazione non significa che Erika non consideri il teatro un mestiere, anzi alle mie domande, risponde che è la professione più bella e insieme più difficile e che per l’attore far teatro è insieme passione e lavoro.  E Federico aggiunge che deve essere considerato come tale, non solo da noi artisti ma da chiunque e che come per tutte le cose, anche in teatro serve un valido percorso d’istruzione, e poi chiaramente la pratica. Nonostante questo anche lui, come Erika, dice che la cosa più faticosa è vivere di questo mestiere.

Entrambi aprono il delicato discorso del lavoro teatrale in Italia: Erika dice che è molto complicato fare l’attore, almeno in Italia, non ci sono tutele adeguate ed è un continuo stare sulla fune; Federico, parlando dei lavoratori teatrali e della situazione critica del lavoro oggi, dice: la nostra categoria sembra risentirne più delle altre. È giunto il momento di dare maggiore dignità alla figura dell’attore, ma mi sento di dire dell’artista in generale. Fare teatro, sì, è un mestiere. E come tale deve essere regolarmente retribuito. E deve avere garanzie. E deve avere tutele.

Per finire, mi hanno molto colpito, a proposito della difficoltà di questo mestiere, alcune affermazioni: quelle di Erika sulla difficoltà di accettare che era questo il suo “Sogno”: sin da piccola mi sono sempre vista donna in carriera, impegnata. Ho fatto diversi cambi all’università prima di comprendere che la mia strada era il palcoscenico. Sono passata da Scienze Biologiche a Giurisprudenza! Ma non fare quello che desideravo mi faceva stare male. E, tornando alla situazione di oggi, Federico parla di una passione che ci brucia dentro che impedisce di rassegnarsi, del bisogno di far sentire la propria voce, trovare insieme una soluzione, e non dimentica il pubblico: “Mai come ora il pubblico ha bisogno di noi, e figuriamoci: mai come ora noi abbiamo bisogno di pubblico. Perché altrimenti il nostro mestiere puf, svanisce in un attimo. Se non c’è pubblico non c’è teatro.

Probabilmente non definitiva, ma ecco la prospettiva a cui sono giunta: l’approccio migliore per chi ama il teatro (ma direi l’arte in generale) è considerare l’artista (*) un esempio di “lavoratore alla Marx”, uno dei pochi rimasti, stimarlo, ma non perciò, tramite la mitizzazione, negargli le sue sembianze di un lavoratore con dei bisogni, come tutti gli altri. Questo aggraverebbe una crisi del teatro (e dell’arte), che oggi è stata messa ancor più in risalto dalla pandemia, dall’assenza di misure per tutelare la classe dei lavoratori artisti. E’ una crisi di considerazione del teatro (e dell’arte), che si riflette oggi nel “ma non è un’attività fondamentale”; non credo che sarebbe azzardato dire che questa crisi, iniziata ormai da anni, ha uno dei suoi motivi principali nell’idea che l’arte, ”lavoro alla Marx”, non produce niente di concretamente visibile, di misurabile in termini di quantità; ma è un lavoro che dà vita – vita! Non oggetti inanimati –  a spazi di condivisione e libertà.

 

(*) si sono usati i termini “artista” e “attore” come equivalenti della totalità di tutti gli artisti e attori indipendentemente del loro genere

Ringrazio molto Erika La Ragione e Federico Palumeri per aver risposto alla mie domande, ampiamente e con piacere.

Intervista a Isabella Bodino, creatrice di Mirya: centro per la salute e il benessere delle donne

La rubrica per cui scrivo s’intitola “A caccia di eventi”. In questo tempo particolare, in cui una delle poche certezze che abbiamo è la necessità di rimanere a casa, è difficile trovare qualcosa che possa assomigliare ad un evento come lo intendiamo classicamente. Ma c’è chi nonostante tutto è riuscito a trovare il modo di creare eventi pieni di positività, a mantenere vivi i legami e a crearne di nuovi: è il caso di Isabella Bodino e dello Staff di Mirya che hanno deciso di mettersi in gioco con competenza e generosità, organizzando qualcosa di molto interessante e utile nello spazio virtuale! Ho intervistato Isabella per far conoscere lei e Mirya, il suo meraviglioso centro che auguro a tutti di poter visitare presto, partecipando in carne, anima e ossa ai suoi corsi, di cui nel frattempo si può avere un assaggio via web.

Isabella, raccontaci un po’ di te, che tipo di formazione hai? Di che cosa ti occupi?

Ho un percorso di formazione eclettico fin dall’inizio! Ho studiato Psicologia per quasi tre anni, sono sempre stata affascinata dalla mente e dall’emotività umana, ma non ero soddisfatta, sentivo che qualcosa mi mancava…  Mi sono iscritta a Biologia pensando che studiare la vita nei suoi meccanismi più piccoli avrebbe portato soddisfazione e riempimento all’irrequietezza che sentivo, ma ancora non era ciò che faceva per me. Allora ho iniziato a lavorare, mi sono sposata, la mia vita è andata in un’altra direzione, per poi ricominciare la ricerca: ho provato con Relazioni Internazionali e Diplomatiche, di cui ho dato altri sette esami, per poi finalmente spostarmi verso ciò che mi apparteneva davvero. Attraverso lo studio dell’antropologia in una prospettiva di genere e, al contempo, della medicina alternativa, mi sono resa conto che esistevano sapienze antiche femminili e rituali, capaci di trasmettere un modo di vivere la femminilità sano, equilibrato e creativo; qualcosa che la donna del mondo contemporaneo ha perso, a causa di numerosi e schiaccianti tabù che si sono radicati nei secoli. Pensiamo ad esempio a come le donne affrontano importanti transizioni fisiologiche e aspetti della vita come il menarca, il ciclo mestruale, la sessualità, la gravidanza, la menopausa, pur con un eccellente sviluppo scientifico e tecnologico nella nostra società non possiamo dirci davvero libere di vivere e apprezzare questi aspetti, o anche solo di parlarne. Facciamo una festa per i diciotto anni ma nessuno prepara le ragazze giovani ad entrare nel menarca, a scoprire la propria emotività, il proprio corpo e i suoi cambiamenti profondi, le sue ciclicità. Molte donne hanno problemi con tutti questi aspetti (mestruazioni dolorose, cistite, candida, vulvodinia, anorgasmia, menopausa critica, relazioni difficoltose, attacchi di panico e ansia, mancanza di autostima): la prima cosa che consiglio alle donne è sempre una visita dal medico, ci tengo a sottolineare che questi professionisti vanno assolutamente consultati e ascoltati; ma quando il problema non è solo fisiologico, quando non c’è qualcosa di organico a giustificare il dolore, bisogna lavorare sull’emotività della donna e sulla rottura dei tabù. E quando c’è un problema organico o fisiologico, le pratiche offerte in studio possono aiutare e facilitare la scomparsa del dolore, insieme alla medicina allopatica. Faccio l’esempio classico dell’ulcera: la curerò seguendo le indicazioni del medico, certo, ma devo anche chiedermi perché il mio stomaco è sempre così contratto e sviscerando il problema potrò evitare di ricaderci periodicamente. Abbiamo anche perso il significato dei termini che usiamo, diciamo “hai il ciclo” invece di “mestruazione” e parlandone spesso con accezione negativa, ma questo non dovrebbe essere la normalità. Noi donne ci siamo allontanate dal nostro sentire, dalle nostre percezioni, come sostiene la scrittrice e psicanalista junghiana Clarissa Pinkola Estés: alcune donne si trovano ad avere oggi “un istinto rovinato”, si sentono svuotate, smarrite, sconnesse dal loro nucleo più profondo e dalla natura, dalla Madre Terra e questo causa molta sofferenza. Mi sono quindi messa alla ricerca di sapienze antiche e tecniche moderne che, insieme, potessero restituire alla donna un benessere su diversi livelli: fisico, psicologico, emotivo, spirituale. Ho viaggiato molto per ricercare queste conoscenze: mi sono formata in Inghilterra, in Portogallo, in Israele, in Egitto, in Perù, in Messico e nel Piccolo Tibet. All’estero ho potuto sperimentare i benefici di un approccio sincretico e integrato che in Italia ancora manca. Così mi sono diplomata in Craniosacrale biodinamico (tecnica che deriva dall’osteopatia), con una specializzazione su bacino e utero e una sui traumi perinatali e postnatali, sono diventata Rieducatrice Certificata del pavimento pelvico, insegnante di Womb Yoga, uno yoga dedicato al corpo femminile, e ho studiato con molti maestri come Alexandra Pope a Londra (psicologa, esperta internazionale di mestrualità e ciclicità femminile), Giorgio Nardone (psicoterapeuta esperto di Problem Solving e Coaching Strategico Breve) e figure  più spirituali (per saperne di più, consultare la sua biografia). E ho creato Mirya.

Ci racconti che cos’è Mirya e come è nato questo progetto?

Mirya è un centro per la salute e benessere delle donne, che ha sede in via Statuto 13, a Cuneo. Uno spazio arredato con l’intenzione di creare un’atmosfera intima, rilassante, luminosa. Al suo interno offro sedute individuali di Craniosacrale biodinamico, Problem Solving Strategico e altre tecniche e ho messo a punto tre percorsi per aiutare le donne (in gruppo, poiché credo nel potere trasformativo del gruppo e nella creazione di un rapporto solidale e supportivo tra le donne) a riappropriarsi della propria ciclicità, dei propri talenti, ad amare sé stesse, per avere anche relazioni più profonde con gli altri. Le donne si sono accontentate della superficialità relazionale che caratterizza il nostro tempo. Ma in realtà è qualcosa che le fa sentire spesso vuote e insoddisfatte, come se mancasse sempre qualcosa, e spesso non hanno strumenti per cambiare questa situazione, strumenti che io invece voglio condividere con loro. A partire da una profonda conoscenza del proprio corpo, dal recupero di una sessualità sana e profonda offrendo innanzitutto un luogo dove poterne parlare liberamente, senza giudizio. Inoltre ho ampliato l’offerta creando un team con diverse professioniste: fisioterapeute, che lavorano, con grande attenzione su edemi postoperatori, patologie linfoedematose post-traumatiche, buona funzionalità del perineo; una nutrizionista, che a partire dall’alimentazione lavora sull’importante connessione tra l’intestino e il resto del corpo; psicologi. Poi offriamo corsi di danza orientale e di Danza e Consapevolezza, una pratica espressiva che si basa su movimenti spontanei e liberi; corsi sulla gravidanza, sulla mestrualità, sulla menopausa, Shiatzu e Pilates.

Quindi corsi rivolti esclusivamente alle donne?

In realtà insieme allo psicologo Pietro Viano abbiamo creato un percorso anche per gli uomini che hanno bisogno di un sostegno emotivo che li legittimi alla sensibilità e di nuove informazioni per un rapporto più profondo con le donne che stanno cambiando.  E per le ragazze giovani abbiamo il Womb yoga, uno strumento per imparare a percepire il proprio corpo: sono convita che se una ragazza giovane impara ad avere una profonda percezione del suo corpo e della sua preziosità, ciò la aiuterà anche a essere più attenta agli stimoli esterni, a riconoscere le intenzioni del prossimo, a proteggersi.

Nel sito di Mirya troviamo anche alcuni racconti scritti da te. Che cos’è per te la scrittura?

Per me è sempre stata una forma di terapia per trasformare le emozioni in personaggi o scenari. Nello scrivere mi manca la costanza tecnica, nel senso che riesco a farlo solo quando sto sperimentando emozioni molto forti o in periodi di cambiamento. Credo che, soprattutto in questo momento, la scrittura possa avere una valenza terapeutica per tutti e possa essere un buon aiuto per dare forma alle emozioni che stiamo vivendo.

Qual è stato l’approccio di Mirya alla complessa situazione che stiamo vivendo, con una pandemia in corso?

Aprire ancora più il cuore e fluire con la situazione invece che andarle contro, osservare la paura e imparare a gestirla. Io dico grazie a tutte le professioniste di Mirya perché abbiamo creato molti eventi quotidiani sulla piattaforma di videoconferenza online Zoom, per dare una routine alle persone, per aiutarle a svegliarsi presto, cosa molto utile per chi tende alla depressione. Abbiamo subito attivato una meditazione mattutina per ritrovare la stabilità e l’amore e far fluire la paura, poiché dove c’è l’amore non può esserci la paura, e viceversa. E poi un risveglio tonico, pilates, yoga (uno dinamico e uno aperto a tutta la famiglia, pensato per chi ha bambini), rilassamento frazionato, serate tematiche. Ci sono più di sessanta persone che partecipano solo alla meditazione mattutina. Il nostro supporto è gratuito e aperto a tutti. E Mirya non vede l’ora di riaprirsi a chiunque voglia passare, anche solo per bere una tisana e informarsi. In seguito a ciò che sta accadendo ci impegneremo ancora di più a ripristinare il contatto con la natura. Un antico detto dei Nativi americani dice: “Ciò che fai alla Terra fai alla donna, ciò che fai alla donna, fai alla Terra”. Recuperare l’essenza delle donne significa recuperare anche un approccio più attento e rispettoso al pianeta.

Chi volesse contattare Isabella può trovarla al: 3343854922.

E per saperne di più su Mirya si può consultare la pagina Facebook Mirya – Lo Spazio delle Donne e il sito: https://www.mirya.it/ .

“Thanks for vaselina” di Carrozzeria Orfeo: descrizione sincera di un’umanità travagliata ma che sa ancora amare

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Questi famosissimi versi della poesia Itaca di K. Kavafis esprimono lo spirito dello spettacolo teatrale Thanks for vaselina, con cui ormai da sette anni Carrozzeria Orfeo delizia il suo pubblico: la dolcezza con cui racconta un pezzo di storia di Fil, Charlie, Wanda, Lucia e Annalisa; la determinazione con cui ci mostra i difetti umani, ma anche la possibilità di riscattarsi e le potenzialità nascoste; la speranza con cui ci lascia alla fine.

Carrozzeria Orfeo, compagnia nata a Mantova nel 2007, tra febbraio e i primi di marzo è passata allo Stabile di Torino, con Thanks for vaselina (2013), ma anche con altre due produzioni più recenti: Animali da bar (2015) e Cous Cous Klan (2017); per poi continuare un tour nei maggiori teatri italiani. Di loro dicono: «Nel nostro lavoro abbiamo deciso di stare su quel fragile confine dove, all’improvviso, tutto può inevitabilmente risolversi o precipitare, provando a fotografare un’umanità socialmente instabile, carica di nevrosi e debolezze, attraverso un occhio sempre divertito e, soprattutto, innamorato dei personaggi che racconta». Dal 2007 hanno realizzato otto spettacoli, di cui Thanks for vaselina è il sesto, vincendo numerosi premi.
È uno spettacolo difficile da raccontare: le emozioni impediscono una sintesi chiara e concisa. Incominciando da una trama di base che tuttavia non rende onore a quello che lo spettacolo è, direi: Fil e Charlie (che appaiono fin dall’inizio opposti, l’uno cinico, l’altro idealista, ma lo spettacolo ci riserberà sorprese) sono soci nel progetto di esportare marijuana dall’Italia al Messico (in un immaginario scenario in cui l’America ha bombardato il Messico per estendere lì la sua democrazia, distruggendo tutte le piantagioni del luogo). Tuttavia il primo tentativo di iniziare l’affare è da poco andato a finire male: infatti un pluricitato carlino (che mai si vede in scena, questo rende il tutto così spassoso!) vaga per le strade della città dopo essere scappato dall’aeroporto dove stava per essere inviato in Messico. In quel carlino c’è la marijuana. I due, con la madre di Fil, Lucia, e una grassa e insicura ragazza di nome Wanda, escogiteranno e cercheranno di mettere in pratica un nuovo piano, mentre improvvisamente si presenterà a casa il padre di Fil, anni prima scappato di casa.
Si vede subito che lo spettacolo punta a farci ridere, fin da quando Fil si lamenta urlando contro Charlie: «Dovevi proprio scegliere un carlino con l’anca rifatta, un carlino handicappato?». E Charlie: «Disabile, non handicappato!». Ma poi quando Wanda, divenuta parte del nuovo piano, inizia a parlarci della sua vita, lo spettacolo prende quella curva delicata che non perderà mai per il resto della performance, diventa racconto delle fragilità e delle potenzialità umane. Anche Lucia è un personaggio che rispecchia la doppia natura dello spettacolo: ha col figlio un rapporto disastroso, ma nasconde un legame che solo a fine spettacolo si scoprirà; è da poco uscita da una cura per ludopatici, che non sembra abbia molto funzionato, perché continua a chiedere in giro spiccioli per giocare. Ma appare subito un donna generosa, infatti si occupa di una prozia malata, e altruista: non appena Wanda entra nelle loro vite, se ne prende cura e la incoraggia a lottare contro la sua insicurezza.

Emergono spaccati di vita emozionanti, in particolare dall’ingenua Wanda e dall’ex marito di Lucia e padre di Fil: non credo che potrò mai dimenticare la sensazione provata guardando la scena in cui parla con Lucia seduto sul divano. Non credo che mai dimenticherò il racconto dell’atto di amore di Wanda verso suo fratello.
Il valore di una vita, la cura uno per l’altro, il difficile rapporto tra figli e genitori, le scelte personali portate avanti con convinzione per la propria vocazione, il riscatto dalle difficoltà. Sono tante le cose che mi rimarranno nel cuore di questo spettacolo, grazie soprattutto alla sincerità delicata con cui i personaggi sono descritti e fatti interagire. Sembra davvero che siano stati amati dal regista e dagli attori stessi – protagonisti di una recitazione impeccabilmente coinvolgente – che infatti a fine spettacolo hanno accompagnato il pubblico nelle lacrime. Il senso generale che mi ha dato è stato di tristezza, ma mi sono sentita anche spinta a riflettere sul valore della vita, sulle proprie scelte, sul ricercare il proprio benessere. E cercherò in tutti i modi di andare a vedere altri spettacoli di Carrozzeria Orfeo, se questo è il risultato, e invito tutti voi a fare altrettanto. Aspettando che ripassino qui in Piemonte.

Visto domenica 9 febbraio 2020 al teatro Gobetti, Torino.

drammaturgia Gabriele Di Luca
con Gabriele Di Luca, Pierluigi Pasino, Massimiliano Setti, Beatrice Schiros, Francesca Turrini
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
musiche originali Massimiliano Setti
luci Diego Sacchi
costumi e scene Nicole Marsano
e Giovanna Ferrara
Carrozzeria Orfeo – Marche Teatro

Per info su Carrozzeria Orfeo e lo spettacolo: https://www.carrozzeriaorfeo.it/ ; https://www.carrozzeriaorfeo.it/spettacolo/thanks-for-vaselina

In Cuneo e provincia arrivano le proiezioni di SUITCASE STORIES – Storie di viaggio e migrazione: intervista con l’Associazione MiCò

Viaggi e migrazioni, siamo sicuri di sapere già tutto su questi temi così attuali? In vista delle prossime proiezioni dell’emozionante documentario SUITCASE STORIES ecco un’intervista con l’associazione MiCò, realizzatrice del progetto insieme al regista Francesco Scarafia e il giornalista Francesco Rasero.
Un documentario per conoscere un po’ di più, per conoscere in modo nuovo. Per viaggiare oltre i luoghi comuni grazie a chi ci apre la porta sulla sua storia di vita.

1) Come nasce e di cosa si occupa l’associazione MiCò?
MiCò in piemontese vuol dire “Anch’Io”: questo nome sottolinea la nostra vision improntata all’accoglienza e alla cittadinanza attiva. Siamo un’APS (Associazione di Promozione Sociale) nata a Cuneo nel 2015. Abbiamo molteplici obiettivi: creare una rete non istituzionale autofinanziata a sostegno di richiedenti asilo e rifugiati in uscita dai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS); promuovere la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione e contrastare le discriminazioni e l’intolleranza; realizzare progetti di inclusione sociale e lavorativa per i migranti; promuovere l’Intercultura, intesa come dialogo tra le culture, come processo complesso che implica la de-costruzione delle nostre categorie e l’ascolto curioso dell’altro e di sé.
MiCò è attualmente costituita da un gruppo intergenerazionale di volontari, molti dei quali erano già attivi nel 1992 nell’accoglienza di famiglie in fuga da Sarajevo. Con la nuova ondata migratoria, si è sentita la necessità di ripetere l’esperienza. Sosteniamo i beneficiari nella ricerca della casa e del lavoro, nella conoscenza del territorio e nella creazione di una rete sociale. Numerosi sono stati i/le ragazzi/e entrati/e e usciti/e dal progetto, dopo un periodo definito di sei mesi o un anno, con cui sono stati mantenuti i legami creati. Oggi fanno parte del progetto tre ragazzi, due del Mali e uno dal Senegal, che vivono nello stesso appartamento, e un ragazzo del Gambia che è ospite di una famiglia. Questo progetto di Terza Accoglienza, il Social network solidale, è totalmente autofinanziato tramite quote private. I/le volontari/e son organizzati/e in tre gruppi operativi: Busso alla porta, che si occupa di questioni pratiche legate all’accoglienza; Entefanag (che significa “anch’io” in lingua bambara), che organizza e comunica azioni per creare una cultura di rispetto e inclusione, parlando della migrazione con prospettive e linguaggi nuovi e insoliti; e il gruppo Azione politica, che agisce insieme ad altre realtà del territorio attraverso la rete Minerali Clandestini.
Micò intraprende anche altri progetti finanziati, promossi e realizzati da un’équipe professionale formata dalle psicoterapeute Elena Elia ed Elisa Dalmasso e dagli antropologi Giulia Marro e Claudio Naviglia. SUITCASE STORIES – Storie di viaggio e migrazione (Italia, 2019, 23’) è uno di questi progetti.

2) Come nasce nello specifico l’idea di SUITCASE STORIES?
Nella primavera dello scorso anno siamo stati contattati da un regista di Bra, Stefano Scarafia, e un giornalista di Carmagnola, Francesco Rasero. Stavano cercando un’associazione cuneese con cui co-progettare un reportage da proporre a Frame, Voice, Report!, un bando europeo con l’obiettivo di aumentare l’impegno dei cittadini per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. Li abbiamo incontrati e ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda.  L’idea iniziale prendeva spunto da Airport security, reality americano in cui gli intervistati potevano raccontarsi davanti alle telecamere attraverso oggetti che stavano trasportando in valigia. Noi di MiCò abbiamo proposto di inserire nei luoghi di transito, oltre all’aeroporto di Levaldigi, anche la stazione ferroviaria e quella dei bus, il Movicentro. Questo per dare uno spaccato più ampio delle migrazioni nel territorio cuneese: quelle iniziate decenni fa, che ora vedono persone spostarsi in aereo per far visita ai paesi d’origine, e quelle recenti, che vedono ancora molti in attesa del riconoscimenti di uno status valido per ottenere documenti per viaggiare o per restare.

2) Come avete scelto i protagonisti delle storie di vita e di viaggio che il documentario racconta? Quali sono state le reazioni e quanta la disponibilità dei protagonisti di fronte alla richiesta di raccontarsi?
Questa fase non è stata semplice, perché volevamo riuscire a coinvolgere protagonisti di età, sesso e provenienza diversi. Abbiamo quindi attivato molti canali per incontrare persone provenienti da paesi più o meno lontani: Ilham, quindicenne nata in italia da genitori Marocchini; Fejzian, giovane praticante avvocato che a dodici anni ha lasciato l’Albania per raggiungere il padre; Ousseni, della Costa d’Avorio, che da sei anni raccoglie la frutta nel saluzzese; Belowe, giovane mamma originaria della Nigeri; Clarence, camerunese in Italia da tre anni, che ha fondato un’associazione per aiutare i migranti ad integrarsi in Piemonte; Nisveta, originaria di Sarajevo, arrivata in Italia come profuga di guerra; Dabo, maliano, che non ha ancora conosciuto la sua piccola nata dopo l’inizio del suo viaggio; e Alexandra, rumena, mediatrice culturale. Insieme a queste storie vi è anche quella di Paolo e Lucia che hanno scelto di far diventare la loro casa quella che quarant’anni fa era meta di vacanza e dalla Sardegna si sono così spostati a Cuneo.
Partecipare alle riprese è stato straordinario: i protagonisti non avevano un copione da seguire, venivano messi a loro agio dal regista e si aprivano passo dopo passo rispondendo alle domande del giornalista. Chi ha mostrato un oggetto estratto dalla propria valigia ha raccontato storie di quotidianità, intrecciate con ricordi passati e speranze per il futuro. Storie che arrivano da lontano, che richiamano odori, suoni e colori cari ai protagonisti, che li ricordano con nostalgia e sorrisi malinconici.

5) Che cosa vi piacerebbe portare nella provincia di Cuneo e fuori con la diffusione di SUITCASE STORIES, con i diversi spaccati di realtà che offre?
La nostra intenzione è quella di raccontare la migrazione da prospettive differenti rispetto alla retorica dominante. Vogliamo dare la possibilità di ascoltare le parole di chi vive sulla propria pelle la migrazione, attraverso il racconto intimo e personale, per umanizzare il fenomeno e raccontare dettagli che spesso vengono omessi. Facendo questo, il nostro desiderio è quello di portare i cuneesi a riflettere sul fatto che siamo tutti inseriti in regimi di mobilità. Viaggiamo continuamente per lavoro, per studiare, per conoscere, per divertirci, per abitare e ri-abitare i luoghi. Risulta quindi anacronistico distinguere ancora un “noi” stanziale e un “loro” che migra. E risulta fuorviante rispetto alla realtà: tutti siamo in mobilità, solo in modalità, tempi, spazi e confini diversi. Questo cambio di prospettiva e di paradigma può aiutare a osservare i fenomeni migratori con un’altra consapevolezza, nella direzione di un’accettazione della diversità che ci accomuna tutti.  Questa riflessione condivisa, su cosa siano la migrazione e il viaggio, è un elemento che accomuna tutte le presentazioni del documentario che organizziamo in provincia nei cinema, nelle scuole o all’interno di eventi di paese.

6) Dove si può trovare il documentario e quando e dove saranno le prossime proiezioni in Cuneo e provincia?
Il documentario è disponibile online sul sito www.suitcasestories.it suddiviso in tre puntate oppure in versione integrale. Sta avendo inizio anche un tour di proiezioni a partire dalla prima serata lunedì 3 febbraio alle 21 al Cinema Teatro Magda Olivero di Saluzzo, inserita nell’appuntamento DIRITTI/ROVESCI. Nelle settimane successive il documentario toccherà diversi paesi della Granda, circuito dei Presìdi di Piemonte Movie aderenti a Movie Tellers – narrazioni cinematografiche: giovedì 13 febbraio a Cuneo al Cinema Lanteri; mercoledì 19 febbraio a Barge al Cinema Comunale; martedì 25 febbraio a Savigliano al Cinema Aurora; giovedì 27 febbraio a Dronero al Cinema Iris; martedì 10 marzo a Bra al Cinema Vittoria; giovedì 12 marzo a Busca al Cinema Lux e martedì 17 marzo a Ceva al Cinema Sala Borsi.

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