Pace, etica e felicità

La pace ha bisogno di un’umanità intera che ci lavori sopra, per esistere. Si sentono e si leggono persone che dicono che questa guerra è tutta colpa di un dittatore e dei suoi scagnozzi, e che il mondo ha il fiato sospeso pendendo dalle sue labbra. Ma nessuna guerra è mai colpa di una o dieci o venti persone. Chi lo dice dimentica la complessità del meccanismo, e si scorda anche delle scene e delle frasi del processo di Norimberga diventate iconiche e su cui la Arendt scrisse La banalità del male. La guerra esiste perché esistono persone che decidono di fabbricare armi; persone che poi decidono di vendere queste armi; persone che scelgono (molte altre, purtroppo, non scelgono, come in questa guerra) di imbracciare quelle armi. Queste sono le condizioni di possibilità dei conflitti, che rendono realtà ciò che inizialmente era soltanto l’ordine verbale di un presidente o un generale. Sulla guerra in Ucraina Tomaso Montanari ha scritto un bellissimo articolo che potete leggere qui.

La cultura della pace si forma a partire dal basso e dalla quotidianità: richiede un’inversione di rotta nel modo di pensare, perché, come diceva Einstein, i problemi non possono essere risolti con la stessa logica che li ha creati. Occorre sviluppare un pensiero divergente a tutto tondo e creare una nuova Weltanschauung, una nuova visione del mondo. Perché si costruisca la pace, il pensiero dominante non può continuare a incoraggiare la sete per la ricchezza e il potere, così come non è accettabile che si sia aumentata la spesa militare al 2% del PIL mentre quella per l’Università e la ricerca è allo 0.5%. La pace è innanzitutto una condizione interiore caratterizzata dalla tranquillità, ed è forse assimilabile alla beatitudine: accettare ciò che si ha, e cercare di migliorare la propria vita senza danneggiare chi ci sta accanto. Ma la pace è solida anche se c’è un’altra condizione: l’amore per l’etica – questa sconosciuta soffocata dal cinismo capitalista. L’etica quotidiana, quella che ci fa scegliere che cosa comprare, dove, che cosa leggere, come usare il tempo libero: non è una banalità, perché la consapevolezza delle proprie azioni è già responsabilità. Per gli Antichi la vita condotta nella moralità era la maggiore preoccupazione filosofica: si trattava di vivere secondo la legge morale, ricercando la tranquillità e la virtù. Oggi tutto questo è scomparso, e nella nostra cultura non ha più alcuna importanza.

Eppure etica, felicità e pace sono le tre Grazie che danzano insieme. L’unica medicina contro la guerra è educare l’essere umano. Per questo è urgentissimo insegnare ai nostri figli a soddisfare i loro desideri nel rispetto degli altri e ad accettare i limiti dell’esistenza. E, soprattutto, la grande sfida che non è più possibile rimandare è questa: ricercare la felicità prima di ogni altra cosa; la felicità vera, quella che si sposa con l’etica e che genera una solida tranquillità interiore. Questa è la strada vitale che bisogna imboccare per costruire finalmente una cultura della pace.

Filo d’erba

«Ma ti rendi conto di quanto è bello? Che non porti il peso del mondo sulle spalle, che sei soltanto un filo d’erba in un prato. Non ti senti più leggero? […] C’era qualcosa di incredibilmente rasserenante nell’essere solo un filo d’erba, che non faceva la differenza per nessuno, che non aveva la responsabilità di tutti i mali del mondo».  (Strappare lungo i bordi, Zerocalcare)

Parole che toccano il cuore e arrivano a colpire la sensibilità di ciascuno di noi, che viviamo in una società dove l’apparenza è diventata la nuova divinità a cui consacrare tutto, anche il proprio sentire, anche i propri limiti costitutivi. L’ansia da prestazione coinvolge tutti, come se la possibilità di una vita tranquilla fosse irrimediabilmente perduta. Eppure il modello occidentale e capitalista non è l’unico possibile; se la pensiamo così, siamo sbandieratori di TINA (There is no alternative). Liberi di esserlo, ma, per le persone che su questo pianeta devono rimanerci (si spera) ancora una cinquantina di anni almeno, pensare che non ci sia possibilità di cambiamento diventa decisamente opprimente.

Non mi riferisco a un cambiamento mondiale, che, per quanto auspicabile, non dipende totalmente dalle scelte di fili d’erba, quali noi siamo. Parlo di un cambiamento personale, con cui imparare a staccarsi un po’ dal mondo che ci circonda e ci obbliga a vivere in modi che a volte non ci fanno stare bene. La carriera è importante, soprattutto per il successo personale ed economico che ne deriva. Ma non tutti sono fatti per arrivare al successo: ci sono persone che non ce la fanno a sostenere certi ritmi di vita; che arriverebbero al successo, in un mondo più lento, ma non in questo. Certo, imparare a superare i propri limiti è occasione di crescita e di scoperta di sé. Ma forse lo è anche imparare a conviverci, con quei limiti. Imparare a guardarli con amore, anziché con aria di sfida; ad accettarli, anziché nasconderli. Perché ciò che davvero riempie la vita non è la dimostrazione data agli altri, ma la pace con se stessi, che deriva dalla constatazione che dopotutto siamo solo un filo d’erba in un prato, che deve fare bene la sua parte, ma da cui non dipende totalmente la bellezza dell’intera radura.

Qualcuno dice che quando moriremo Dio ci farà solo due domande: la prima, «sei stato felice nella tua vita?». La seconda, «hai reso felice qualcuno?». Non ci sarà chiesto se abbiamo reso felici due, cinque o venti persone, no. Una persona: è sufficiente una. La prima domanda di Dio è se siamo stati felici noi, non importa con quali mezzi, se con il lavoro, l’amore o lo studio; ciò che conta è il risultato: sei felice? Questa è La Domanda dell’esistenza, è il punto interrogativo per cui siamo vivi. E sarebbe bellissimo se alla fine del nostro percorso sulle strade del mondo potessimo rispondere di sì, che siamo stati felici. Anche se non siamo stati una quercia maestosa e solitaria nel bel mezzo della foresta, anche se per tutta la vita ci siamo accontentati. Anche se siamo stati un filo d’erba.

Quattro propositi per il nuovo anno

  1. Amare le persone che ci sono accanto, soprattutto la famiglia. Da qualche decennio la famiglia è passata in secondo piano rispetto al lavoro, a un individualistico tempo libero, alle proprie passioni solitarie. Ma la famiglia è la prima sorgente della felicità: se la felicità non è lì, non si può essere pienamente sereni. Fare cose con i propri figli, con i propri compagni di vita, perché solo così si può amare e sentirsi amati e perché l’amore è la cura per tutte le angosce e per tutte le paure. Lasciare andare le barriere; imparare a disarmarsi; imparare a fidarsi. Per amare senza tensioni. E per non inverare le parole cantate da Lucio Dalla il 31 dicembre: «c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra».
  2. Essere consapevoli di essere nati nella parte giusta del mondo. Il pensiero di un’ingiustizia inspiegabile lascia sgomenti. È il problema filosofico della teodicea (cioè della giustizia divina), il problema teologico dell’imperscrutabilità del volere di Dio, il problema umanistico del caso, del fato. È un problema che non verrà mai risolto, anche perché nessuna risposta è in nessun modo soddisfacente. Resta il fatto che vi sono popoli in cui le donne non possono studiare. In cui i bambini hanno dei sogni ma vedono solo scheletri di palazzi bombardati. In cui le madri lanciano i bambini ai soldati oltre il filo spinato. In cui uomini e donne prendono d’assalto gli aerei per scappare dalla dittatura e poi volano giù durante il decollo. In cui le persone non hanno il vaccino per salvarsi dalla pandemia perché in questo capitalismo cancerogeno i soldi valgono più della vita. Essere consapevoli di questo è un dovere umano. È vero, il nostro sgomento davanti a questo pensiero non conosce cura, ma l’unico modo per renderlo utile è essere grati. Ringraziare per quello che si ha e difenderlo con tutte le proprie forze: parlo della salute individuale; del denaro che ci permette di non essere per strada; della democrazia che ci permette di votare; delle leggi che permettono alle donne di studiare; di questa parte di mondo dove, nonostante tutti i problemi, la guerra non c’è.
  3. Imparare a non essere né ottimisti né pessimisti sul futuro, ma realisti. Il mondo non sta andando né verso il peggio né verso il meglio. Ci sono alcune predizioni che spaventano e altre che rincuorano. Per tanti versi stiamo molto meglio dei nostri nonni, per altri il loro mondo era migliore di questo. Bisognerebbe assumere uno sguardo chirurgico, molto fine e attento al dettaglio: lì siamo migliorati, là siamo peggiorati. Cogliere le differenze. Essere grati per i grandi progressi degli ultimi decenni, ed essere critici e attivi contro i regressi o contro ciò che, semplicemente, non è peggiorato ma non è ancora migliorato.
  4. Aiutare (anche economicamente) chi è in difficoltà. È sempre stato così: chi sta bene vuole stare meglio. Ci sono famiglie e persone che non hanno soldi per fare la spesa, persone che a quarant’anni si ritrovano ancora precari e che per costruire una famiglia gettano il cuore oltre l’ostacolo pieni di timori e speranze. Regalare un buono per la spesa o comprare un po’ di cibo da portare al banco alimentare sono gesti che ai benestanti costano poco e che per i bisognosi significano tanto.

Non auguro un anno migliore, indimenticabile e tante altre cose retoriche dette ogni 31 dicembre. Auguro un anno buono, in cui riuscire a migliorarsi un po’, perché se non migliorano le persone nel loro gruppo familiare e amicale, il mondo, da solo, non può cambiare in bene.

Buon anno!

Linguaggio inclusivo? Quattro ragioni contro l’asterisco

Da un po’ di tempo si sta diffondendo l’uso di simboli per rendere il linguaggio scritto neutro rispetto al genere delle persone: così si scrive, ad esempio, tutt* oppure tuttə. Una scelta che mi ha sempre lasciato profondamente dubbiosa e molto critica, soprattutto perché, forse paradossalmente, io, donna, mi sento più inclusa dal termine tutti che dal termine tutt*, impronunciabile e quindi dal significato inimmaginabile. 

Occorre un ripasso della biologia umana. A livello biologico e genetico, il sesso degli esseri umani può essere o maschile o femminile: l’identità sessuale può quindi essere solo di due tipi, e caratterizza il corpo e i comportamenti della persona, dato che i livelli ormonali sono diversi nel maschio e nella femmina. Dunque il sesso è normalmente un dato di fatto, oggettivo e incontrovertibile. Ora sento già le voci di protesta di chi dice che invece nascono bambini e bambine il cui sesso non è chiaro: sono gli ermafroditi, e rappresentano casi di anomalie genetiche. Non sono la normalità e in nessun modo mostrano che esista un terzo sesso: sarebbe come dire che normalmente gli esseri umani possono essere indifferentemente ciechi oppure vedenti, dato che capita che nascano persone cieche. Detto ciò, la persona non è determinata solo dal sesso, ma anche dalla propria identità di genere. Il genere è la percezione, culturalmente influenzata, che ogni persona ha di sé: tendenzialmente sesso e genere coincidono («sono femmina e mi sento donna»), ma talvolta si delinea uno scarto che può essere doloroso e che può portare a operazioni chirurgiche e ormonali per cambiare il proprio sesso («ero femmina, ma mi sentivo uomo; ho deciso di cambiare il mio sesso per diventare maschio»). Ma il genere non è solo binario: ad esempio le persone androgine non si sentono né uomini né donne, e altre persone cambiano percezione di sé nel corso della vita. Ancora un chiarimento: l’ermafroditismo fa riferimento a un problema genetico sessuale, l’androginismo è un elemento culturale e sociale di genere. Qui un articolo de Il Post per capire meglio queste distinzioni: https://www.ilpost.it/2017/07/05/identita-di-genere/.

Ecco quattro ragioni che mi fanno dubitare di questa abitudine linguistica:

  1. Se si vuole rendere il linguaggio inclusivo di maschi e femmine, è sufficiente rivolgersi a una platea mista con tutti e tutte, ad esempio. È quindi evidente che l’operazione che si vuole portare a termine è includere non il sesso, ma i diversi generi. In altre parole: dato che alcune persone non si sentono incluse neanche da tutti e tutte in quanto non si sentono né maschi né femmine, occorrerebbe lasciare spazio a molteplici possibilità e parlare di tutt*. Il punto è questo: l’identità di genere è determinata, come abbiamo detto, dalla percezione di sé, che è qualcosa di profondamente intimo e privato, talvolta doloroso e inaccettabile. Ma è pur sempre una percezione di sé. Come può il linguaggio adattarsi alle emozioni e alle percezioni che le persone hanno di sé? Facciamo un esperimento mentale. Immaginiamo che esista un gruppo di qualche milione di persone che porta all’estremo il darwinismo e ritiene che non si possa parlare di esseri umani, ma solo di animali: quelle persone percepiscono sé e gli altri come animali, alla stregua dei cani e dei gatti. Rivendicano quindi che il linguaggio abolisca dai dizionari i termini essere umano, umanità, uomo ecc., e che per riferirsi agli uomini si usi solo il termine animale. Qualcuno li ascolterebbe? Io non credo. E perché? Innanzitutto perché il linguaggio non può essere cambiato a tavolino, sulla base di proposte di singoli gruppi; e poi perché, molto onestamente, sarebbe troppo complicato (seppure il fatto che l’essere umano sia un animale sia una questione oggettiva e non solo legata alla percezione di sé). E qualcuno riterrebbe che non ascoltarli sia discriminatorio? Probabilmente no.  
  2. Come comportarsi con tutti quei termini che di per sé indicano un maschio o una femmina in modo esclusivo? Pensate alle parole fratello, sorella, suora, prete: se la sorella di qualcuno si sente androgina, dovrei inventare ex novo una parola apposta, secondo questo ideale di linguaggio inclusivo. Ma perché, facendo riferimento sia al sesso femminile sia all’identità di genere, sarei politicamente scorretta se parlassi della «sorella androgina»? Pensate anche agli articoli determinativi, il, lo, la, i, gli, le: dovrei forse scrivere *l* oppure, per il plurale che sarebbe un misto impossibile tra i e le, direttamente *? E come pronunciare queste parole a cui non potrei semplicemente togliere la desinenza?
  3. C’è ancora una ragione per cui questo esperimento linguistico mi sembra ridicolo. La difficoltà, se non l’impossibilità, di riuscire in questo tentativo anche solo quotidianamente e in prima persona emerge da alcuni testi scritti sui social, che il più delle volte iniziano con un ciao a tutt* e proseguono con termini come qualcuno, giovani, adulti. Questo dimostra che è impossibile cambiare la struttura di una lingua già costituita. Impossibile. Per farlo si dovrebbe creare dal nulla una nuova lingua che ammetta il maschile, il femminile e il neutro, com’era in latino. Nel passaggio dal latino ai volgari italiani il neutro si è perso per volontà di semplificazione, in un modo graduale e molto spontaneo: nessuno ha imposto di eliminare il neutro. Così oggi non si può imporre una nuova regola che andrebbe a creare un terzo genere e che influenzerebbe tutta la lingua (si pensi appunto agli articoli determinativi e ad altre parole, come quelle analizzate prima). Diverso è il discorso sui nomi delle figure professionali: lì il mutamento sta accadendo perché è molto più semplice e non strutturale e perché nomi di figure professionali declinati al femminile e non solo al maschile ci sono sempre stati (maestra, professoressa, sarta). In quel caso si tratta quindi di rendere più diffusa un’abitudine linguistica già presente qui e là.

  4. Sembra che molte persone abbiano iniziato a usare l’asterisco più per moda entusiastica che per una ragione seriamente giustificata e ponderata. L’asterisco pare ormai un lasciapassare, un segno distintivo dell’inclusività, un segno di riconoscimento: «anche tu usi l’asterisco, allora sei inclusivo come me!». Forse è una difficoltà personale, ma la realtà mi ha sempre portato a diffidare delle mode nate sui social, soprattutto di quelle che portano a divisioni della massa in due fazioni, pro e contro.

Insomma, siamo di fronte a un’operazione folle e impossibile. Un’operazione che non tiene conto dei limiti cognitivi dell’essere umano, che non può avere successo in questa impresa titanica. Nel Novecento Ludwig Wittgenstein, grande filosofo del linguaggio, ragionò su quanto a fondo possiamo andare nelle ricerche delle cause che regolano il linguaggio e concluse che possiamo capire quali regole reggono il nostro gioco linguistico, ma non possiamo scendere fino alla causa prima per cui quelle regole sono state inventate. E così ha prodotto uno dei passi più belli e disarmanti dell’intera storia della filosofia:

Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: «Ecco, agisco proprio così». (Ricordati che qualche volta chiediamo spiegazioni più per la forma della spiegazione che per il suo contenuto. La nostra è una richiesta architettonica: la spiegazione è un finto cornicione, che non regge nulla).

La mia vanga, a un certo punto, si piega. Effettivamente mi sentirei senza forze se dovessi produrre anche solo una frase con strani simboli, il che mi dispiacerebbe, perché baderei più alla forma che al contenuto. La forma è importante, si sa, ma in materia di discriminazione credo sia più importante il contenuto: se oggi il vocabolario ammettesse il termine ministre senza che le donne potessero esserlo o senza che avessero il diritto di voto, l’umanità avrebbe fallito; che le donne abbiano da quasi settant’anni il diritto di voto anche se si continua a dire ciao a tutti mi pare un successo. Se tra cinquant’anni gli androgini e i transessuali non saranno discriminati sul posto di lavoro o a scuola e avranno adeguati sostegni psicologici nei casi di sofferenza e di rifiuto della propria condizione, anche se si dirà ciao a tutti e tutte, penso che l’umanità avrà raggiunto un importante traguardo.

 

 

1940-2021: trova le differenze

Da oltre un anno i social e le piazze sono attraversati da grida che assimilano le norme di contenimento della pandemia al passaporto biologico sotto il nazismo e alle discriminazioni razziste e politiche del primo Novecento. Questo dato di fatto è solo il punto di partenza per una riflessione più ampia, vale a dire: quale dev’essere il ruolo della storia?

Com’è noto, nella seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), Nietzsche distinse tre tipi di conoscenza storica: la storia antiquaria, quella fatta dai nostalgici che mummificano la storia e non riescono a procedere verso il futuro; la storia monumentale, di chi seleziona i fatti cadendo nella trappola della mitizzazione; la storia critica, di chi vuole liberarsi dal peso del passato recidendo le proprie radici. Senza toccare qui la posizione di Nietzsche a riguardo, ciò che è interessante è come il peso valoriale e storico del Nazifascismo continui a incidere sul modo europeo di vedere il presente, sebbene sia trascorso quasi un secolo. E questo, seppur comprensibile, non è totalmente un bene, per due motivi.

Innanzitutto così si rischia di cadere vittime dell’ossessione del passato, che ci impedisce di procedere svelti, di guardare alla novità, a ciò che non è mai esistito e che non si può confrontare col sentiero tracciato dai nostri avi. Qualsiasi ossessione fa sì che si veda solo ciò che si vuole vedere e che, probabilmente, si sia ciechi verso cose anche ben più salienti e incisive. Un esempio pratico: le norme pandemiche sono additate come discriminatorie in un senso politico e per questo alcuni cittadini scendono nelle piazze talvolta con modi violenti. Ma chi scende nelle piazze per protestare contro una sanità carente e mal funzionante che ha in parte causato le molti morti nel mondo? Chi scende nelle piazze per rivendicare che i Paesi dimenticati del globo abbiano accesso al vaccino e a investimenti sanitari? Attenzione, queste domande provocatorie non vogliono invitare all’inutile benaltrismo (quello di chi obietta a un’osservazione asserendo che in realtà «c’è ben altro di cui preoccuparsi»), ma solo a fare riflettere che è facile nascondersi tra le supponenti onde retoriche dei radical chic, mentre è molto faticoso intraprendere riflessioni molto più profonde e quindi molto impopolari.

Il secondo problema è che questo atteggiamento è il sintomo di un’incapacità: quella di prestare attenzione al dettaglio per trovare le differenze (proprio come nei giochi della Settimana enigmistica!). Lo studio della storia dovrebbe insegnare a cogliere le differenze tra un’epoca storica e un’altra – ed è un lavoro per cui non a caso serve una laurea. Con questo presupposto, non si può paragonare questo anno e mezzo al totalitarismo nazifascista. Certo, alcuni filosofi e giuristi concordano sul fatto che la democrazia è tanto fragile quanto bella e che poco basta per schiacciarla, ma il loro è un monito doveroso in qualsiasi epoca di crisi, addirittura economica.

L’ossessione fa vivere male se stessi e gli altri, e di conseguenza è oggetto di studio della psicologia. La disabilità di cogliere i dettagli e di operare dei distinguo è correggibile considerando di volta in volta il contesto storico. Che la storia si ripeta è una frase più retorica che sensata: può essere che esista questa sorta di eterno ritorno dell’uguale, perché l’essere umano in fondo è solcato da alcune tendenze abbastanza immutabili. Che però queste tendenze conducano a un pezzo di storia esattamente identico a un altro è impossibile (d’altronde il principio degli indiscernibili di Leibniz è sempre valido: mai si potranno trovare due foglie identiche tra loro). E una capacità critica solida e affascinante può svilupparsi solo con un allenamento molto preciso: l’allenamento a trovare le differenze.

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