Da oltre un anno i social e le piazze sono attraversati da grida che assimilano le norme di contenimento della pandemia al passaporto biologico sotto il nazismo e alle discriminazioni razziste e politiche del primo Novecento. Questo dato di fatto è solo il punto di partenza per una riflessione più ampia, vale a dire: quale dev’essere il ruolo della storia?

Com’è noto, nella seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), Nietzsche distinse tre tipi di conoscenza storica: la storia antiquaria, quella fatta dai nostalgici che mummificano la storia e non riescono a procedere verso il futuro; la storia monumentale, di chi seleziona i fatti cadendo nella trappola della mitizzazione; la storia critica, di chi vuole liberarsi dal peso del passato recidendo le proprie radici. Senza toccare qui la posizione di Nietzsche a riguardo, ciò che è interessante è come il peso valoriale e storico del Nazifascismo continui a incidere sul modo europeo di vedere il presente, sebbene sia trascorso quasi un secolo. E questo, seppur comprensibile, non è totalmente un bene, per due motivi.

Innanzitutto così si rischia di cadere vittime dell’ossessione del passato, che ci impedisce di procedere svelti, di guardare alla novità, a ciò che non è mai esistito e che non si può confrontare col sentiero tracciato dai nostri avi. Qualsiasi ossessione fa sì che si veda solo ciò che si vuole vedere e che, probabilmente, si sia ciechi verso cose anche ben più salienti e incisive. Un esempio pratico: le norme pandemiche sono additate come discriminatorie in un senso politico e per questo alcuni cittadini scendono nelle piazze talvolta con modi violenti. Ma chi scende nelle piazze per protestare contro una sanità carente e mal funzionante che ha in parte causato le molti morti nel mondo? Chi scende nelle piazze per rivendicare che i Paesi dimenticati del globo abbiano accesso al vaccino e a investimenti sanitari? Attenzione, queste domande provocatorie non vogliono invitare all’inutile benaltrismo (quello di chi obietta a un’osservazione asserendo che in realtà «c’è ben altro di cui preoccuparsi»), ma solo a fare riflettere che è facile nascondersi tra le supponenti onde retoriche dei radical chic, mentre è molto faticoso intraprendere riflessioni molto più profonde e quindi molto impopolari.

Il secondo problema è che questo atteggiamento è il sintomo di un’incapacità: quella di prestare attenzione al dettaglio per trovare le differenze (proprio come nei giochi della Settimana enigmistica!). Lo studio della storia dovrebbe insegnare a cogliere le differenze tra un’epoca storica e un’altra – ed è un lavoro per cui non a caso serve una laurea. Con questo presupposto, non si può paragonare questo anno e mezzo al totalitarismo nazifascista. Certo, alcuni filosofi e giuristi concordano sul fatto che la democrazia è tanto fragile quanto bella e che poco basta per schiacciarla, ma il loro è un monito doveroso in qualsiasi epoca di crisi, addirittura economica.

L’ossessione fa vivere male se stessi e gli altri, e di conseguenza è oggetto di studio della psicologia. La disabilità di cogliere i dettagli e di operare dei distinguo è correggibile considerando di volta in volta il contesto storico. Che la storia si ripeta è una frase più retorica che sensata: può essere che esista questa sorta di eterno ritorno dell’uguale, perché l’essere umano in fondo è solcato da alcune tendenze abbastanza immutabili. Che però queste tendenze conducano a un pezzo di storia esattamente identico a un altro è impossibile (d’altronde il principio degli indiscernibili di Leibniz è sempre valido: mai si potranno trovare due foglie identiche tra loro). E una capacità critica solida e affascinante può svilupparsi solo con un allenamento molto preciso: l’allenamento a trovare le differenze.