Le radici del giornalismo italiano affondano nel terreno fertile del 1600, secolo in cui gli avvisi e i fogli di notizie manoscritte vengono sostituiti da “gazzette a stampa” quindicinali o settimanali.

Le prime città a dotarsi di un bollettino settimanale sono Firenze e Genova rispettivamente nel 1636 e nel 1639. Le prime gazzette hanno il formato di libri e sono composte di un minimo di due e un massimo di quattro pagine, poiché la periodicità a 8 pagine comparirà solo verso la metà del secolo, precisamente nel 1660, anno di nascita del primo vero quotidiano moderno a Lipsia.

In Italia, tra il 1600 e il 1700 si amplia la rete delle gazzette dette “privilegiate” ovvero finanziate dai governi locali; ne escono a Torino, Bologna, Mantova, Messina, Parma e Modena, ma anche in altri centri minori. Nati come liberi libelli alla fine del XVII secolo, subiscono i primi casi di censura, sia statale che ecclesiastica, che ne scoraggia la produzione.

La Rivoluzione Francese segna una tappa fondamentale nella storia della stampa, dando al giornalismo un rinnovato impulso. L’articolo XI della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo (1789) recita infatti: «La libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge».

Con la nascita del giornalismo politico in Europa si forma l’Opinione Pubblica, infatti in Italia le notizie provenienti dalla Francia rivoluzionaria provocano eccitazione e curiosità. In quegli anni cadono le restrizioni sulla stampa e, nel triennio giacobino, escono a Milano quattro giornali, venti a Genova e dieci tra Venezia, Roma e Napoli. Nascono in quel periodo le prime forme di giornalismo politico, sui temi della libertà di stampa e sul movimento patriottico neonato. Nel 1804 Napoleone torna in Italia e proclama la nascita delle Repubbliche napoleoniche. La penisola pullula oramai di giornali, anche se non più liberi, ma orientati verso la politica francese. Successivamente, con l’introduzione della “macchina a fabbricazione continua di carta”, cresce il numero di pagine e aumentano le tirature.

Per tutto il periodo della restaurazione, fino alla promulgazione degli editti del 1847-48, non esiste in Italia un giornalismo politico nel senso completo del termine, perché le idee nuove e nazionaliste vengono ancora espresse attraverso semplici fogli letterari e culturali. La fioritura dei giornali che si era verificata nelle fasi rivoluzionarie si ripete in misura molto più ampia e intensa nel 1848-49, biennio in cui la scena giornalistica italiana diventa tumultuosa a causa delle importanti rivolte cittadine. Nel clima della guerra di indipendenza compare a Torino la «Gazzetta del Popolo», primo giornale a prezzi popolari, con distribuzione al mattino e linguaggio semplice rivolto alla collettività.

La figura del giornalista, negli anni precedenti all’unificazione nazionale, comincia ad assumere lineamenti peculiari. Avvicinandosi al 1871, anno di Roma capitale, a muovere l’anima del giornalismo sono sempre le battaglie politiche: la sinistra sta cercando di fronteggiare lo strapotere della destra, cominciando ad impossessarsi di alcuni mezzi di informazione precedentemente appartenuti agli storici rivali politici. Questo gli varrà il governo nel 1876, anno in cui nasce a Milano il «Corriere della Sera».

Agli inizi del ‘900, nel momento in cui si aprono per l’Italia prospettive di progresso civile, sociale ed economico, la situazione dell’editoria giornalistica presenta ancora notevoli difficoltà ed è ancora fragile, non avendo un vero e proprio riconoscimento ufficiale. La popolazione cresce a ritmo sostenuto e il processo di urbanizzazione accelera, ma il 48% della popolazione resta ancora analfabeta.

Con la prima guerra mondiale, i giornali si dividono tra fronte neutralista e fronte interventista, incidendo molto sull’impostazione dei quotidiani, in primis perché cambiano diverse proprietà, in secondo luogo poichè muta l’intonazione delle notizie. La diffusione della stampa cresce nei primi mesi di conflitto, poi diminuisce con l’aumentare dei costi di produzione bellica e la successiva crisi economica. In questi anni avviene un forte incremento della censura voluto dal generale Luigi Cadorna, il quale non simpatizzava eccessivamente per la stampa. Tutte le notizie venivano dunque emanate dall’Ufficio Stampa del Comando Supremo dell’Esercito.

Tra il 1920 e il 1922 nascono nuovi giornali di partito e, nel periodo successivo alla marcia su Roma, avvenuta il 28 ottobre 1922, si assiste ad una sempre maggiore repressione delle libertà giornalistiche. Il direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini, dopo numerosi attacchi squadristi, è costretto alle dimissioni. Infine, il 31 dicembre 1925, con la promulgazione delle leggi fascistissime, cessa la libertà di stampa. Cardini di questa legge sono gli articoli uno e sette, che creano la figura del direttore responsabile e istituiscono l’ordine dei giornalisti, controllato dal sindacato fascista, la cui iscrizione è obbligatoria per esercitare la professione. In poche parole i direttori diventano veri e propri vassalli del Duce. Mussolini, per limitare ancora di più la libertà dei giornalisti, si concentra su due obiettivi: il primo è sottoporre all’obbedienza i maggiori quotidiani cittadini; il secondo è dare un’impronta dottrinaria ai giornali inserendoli nella macchina del consenso, senza creare veri e propri Giornali di Stato. Nei confronti della stampa cattolica il regime adotta un particolare tatto, poiché nel complesso i fogli cattolici assecondano le propensioni della Chiesa ad un dialogo con il regime, in virtù dei Patti Lateranensi.

Anche la stampa della Resistenza è in quegli anni un fenomeno di dimensioni considerevoli, oltre che di grande valore politico. Si muove su due cardini preferenziali, la Stampa Clandestina e i Fogli delle Formazioni Partigiane. I principali giornali contro il fascismo sono l’«Unità», per quanto riguarda l’ala comunista, e l’«Italia Libera», che è l’organo d’informazione preferenziale del Partito d’Azione.

Dopo la Seconda Guerra mondiale escono molti giornali, alcuni con nuovo nome dopo l’esperienza fascista. Tra i più importanti abbiamo «Il Resto del Carlino», che fino al 1953 si chiamerà «Il Giornale dell’Emilia», il «Secolo XIX», «La Nazione», «Il Messaggero» e il «Giornale d’Italia». Nel luglio 1945 Rizzoli ottiene l’autorizzazione a pubblicare il settimanale «Oggi» in 16 pagine formato tabloid.

Il primo gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione, che nell’articolo 21 si propone di ridare libertà all’editoria giornalistica. Esso infatti afferma che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dall’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume».

Gli anni cinquanta sono il periodo d’oro del giornalismo italiano. I rotocalchi soddisfano sia il desiderio di favole moderne, sia l’aspirazione ad un’esistenza di benessere. Alcuni, come «Oggi», guadagnano molte copie vendute con articoli su famiglie reali, miliardari e divi del cinema. Il 2 ottobre 1955 nasce l’«Espresso»: 16 pagine al prezzo di 50 lire, il direttore è Arrigo Benedetti affiancato da Eugenio Scalfari. Questo giornale si fa paladino delle inchieste sulla malapolitica e sulle grandi questioni irrisolte, come l’abusivismo edilizio.

Il 1956 vede la nascita de «Il Giorno», che punta nella sua sezione politica alla collaborazione tra democristiani e socialisti, difendendo l’intervento pubblico in economia contro lo strapotere di Confindustria, e sostenendo le richieste d’indipendenza dei Paesi del Terzo Mondo.

Se la radio non ha mai messo in crisi l’attività giornalistica, con all’evento della televisione, nel 1954, viene a strutturarsi l’informazione di massa e le vendite dei formati cartacei calano vertiginosamente, soprattutto con la nascita del Telegiornale. Sulle prime i giornali incassano il colpo assestatogli dall’informazione televisiva incrementando il numero di pagine e la diversità di servizi, sempre più specifici ed intriganti, e aumentando anche il colore presente nelle immagini in essi contenute.

Il decennio che va dal 1970 al 1980 si caratterizza per la nascita del Giornalismo d’Attacco. Nel biennio 1968-69 la contestazione giovanile, la riscossa dei sindacati, le bombe di Milano, la nascita e lo sviluppo del Movimento Femminista scuotono il mondo dell’Informazione nostrana. Nascono «Il Giornale», sotto la direzione di Indro Montanelli e «La Repubblica», appoggiata da Mondadori ed amministrata da Eugenio Scalfari. Montanelli voleva creare un anti-Corriere della Sera con una linea politica moderata, un cartaceo che si rivolgesse ai cittadini insolenti nei confronti dei giochi di potere e del PCI. Scalfari dal canto suo voleva rivolgersi a coloro che, poliedrici, seguivano notizie di politica, economia, cultura e spettacolo, senza cronaca locale e con pochissimo sport.

Agli inizi degli anni ‘80 nascono le reti televisive commerciali, mentre la legge per l’editoria, garantendo maggiori fondi economici, salva molti quotidiani, consentendo di compiere le indispensabili riconversioni tecnologiche. I primi network sono Canale 5 di Silvio Berlusconi e Prima Rete del Gruppo Rizzoli.

La battaglia tra televisione e cartaceo continua fino al 1992, anno in cui le maggiori testate promuovono un ringiovanimento dei direttori, introducendo dei gadget all’interno dei giornali per venderne più copie.

Con l’avvento del satellite prima e di internet dopo, l’andamento delle vendite diminuisce ancora e, la sempre maggior facilità nel reperire notizie on-line fa calare drasticamente il numero di tirature.

Infine, secondo recenti studi riguardanti la sociologia dell’informazione, la produzione cartacea è destinata a scomparire nei primi 50 anni del XXI secolo: rimarranno forse solo i libri, seppur venduti in misura minore, come supporto per lo studio, e per i pochi romantici ancora attirati dal profumo di una buona carta stampata.

 

 ***Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf