“Basato su fatti realmente plausibili”

Come reagiremmo se, in un programma tv qualunque di un giorno qualunque, una dottoranda in astronomia e il suo professore ci annunciassero che un asteroide della dimensione del monte Everest si schianterà sulla Terra nel giro di pochi mesi? 

Sembra uno scenario impossibile, degno di un film fantascientifico o apocalittico, ma, se ci concentriamo non tanto sul contenuto di quell’annuncio quanto sulle reazioni e sulle conseguenze che esso scatena, allora non pare più così distante dalla realtà. 

In “Don’t look up”, film dal cast stellare uscito nel dicembre 2021, il regista Adam McKay, con la sua vena ironica e irriverente, attraverso un evento di per sé “impossibile” tratta in maniera lucida e tagliente circostanze realmente plausibili. La necessità dell’uomo del 21° secolo di trasformare tutto in audience, minimizzando e deviando l’attenzione dalle cose realmente importanti per concentrarsi su quelle “monetizzabili”, è un ritratto amareggiante quanto realistico della nostra società: di fronte a decenni di prove scientifiche sul cambiamento climatico e la necessità di agire per bloccare un meccanismo distruttivo che –  esattamente come la cometa del film, ma in un arco di tempo più ampio –  potrebbe rendere impossibile la vita umana sul pianeta, non solo aleggia un’indifferenza pericolosa e insofferente, ma nascono anche oppositori, che non riconoscono verità scientifiche evidenti, sulla base di un timore del complotto antico come l’esistenza umana.

La stessa pandemia e il virus COVID19 sono stati oggetto di ferree opposizioni: da chi nega che il virus in sé esista, a chi non si fida di vaccini e cure al fine di controllarlo. Di fronte ad una situazione di crisi epidemiologica alcune persone sono state spinte a mettere in dubbio fatti evidenti e scientificamente comprovati, generando scetticismo nei confronti della stessa scienza. Nel film il professor Randall Mindy, interpretato da DiCaprio, dice: «Ne abbiamo fatto una fotografia, di quale altra prova abbiamo bisogno? E se non riusciamo nemmeno ad essere d’accordo sul fatto che una cometa gigante, della misura del monte Everest, che si dirige verso il pianeta Terra non sia una cosa buona, allora cosa diavolo ci è accaduto? Come possiamo continuare a rivolgerci la parola l’un l’altro?».

Negare l’evidenza e preoccuparsi solo dell’imminenza, procrastinare la soluzione di problemi esistenziali e la divulgazione di fatti scientifici per lasciare spazio a frivolezza e leggerezza: sono atteggiamenti strettamente umani, così come il panico di fronte alla realtà dei fatti nel momento in cui questa diventa innegabile, prendendo il posto di una speranza che si fa sempre meno sostenibile.

Parlando di un asteroide che si dirige verso la Terra, così come di cambiamento climatico e di riscaldamento globale, spesso si fa riferimento all’espressione “fine del mondo”, ma questa racchiude in sé tutto l’egocentrismo che la natura umana ha incarnato in maniera sempre più profonda nel tempo: questi eventi, infatti, non potrebbero alla “fine del mondo”, ma alla fine dell’uomo, nel mondo. Il pianeta Terra, infatti, continuerebbe ad esistere e si rigenererebbe anche senza di noi, che siamo semplicemente una specie che lo abita, non il mondo stesso.

Il libero pensiero e la tolleranza delle posizioni altrui è spesso la bandiera innalzata da coloro che si oppongono, in maniera anche violenta, alle evidenze scientifiche: ognuno è libero di pensare ciò che vuole e di sostenere le proprie posizioni con tutte le forze, perché è suo diritto. Ma in realtà, questa infinita tolleranza, si scontra con il paradosso evidenziato da Popper, filosofo della metà del 900: «La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi» (Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1945). 

Tollerare è bene, ma agire nell’evidenza della scienza e difendere le posizioni reali contro quelle complottiste è meglio, ed è esso stesso tolleranza, perché ne tutela l’esistenza e la coerenza.

Di fronte a minacce sempre più globali e sempre meno delimitate, è importante che gli uomini imparino ad agire insieme, in particolare i decisori: nessun singolo uomo può fermare la realtà oggettiva, né con il complotto né con la tolleranza, ma è necessario agire insieme per trovare soluzioni attuabili in tempi utili per i problemi che riguardano il mondo e la specie umana che lo abita, con tutti i suoi difetti e limiti.

LATE BLOOMERS

A 6 anni devi saper leggere, a 13 devi avere già un’idea di cosa vuoi fare da grande perché devi scegliere la scuola più adatta a te per prossimi cinque anni, a 18 devi prendere la patente e il diploma e quindi scegliere cosa fare della tua vita, a 22 tocca alla prima laurea e magari a un fidanzato/a, a 30 dovresti avere un buon lavoro e iniziare a pensare alla famiglia e così via per il resto delle nostre vite.

Fin da piccoli impariamo che per ottenere l’approvazione degli altri ed essere felici è necessario soddisfare alcuni standard entro determinati archi di tempo. Ci deve essere un obiettivo per ogni ambito della nostra vita: dall’essere i migliori a scuola ad andare all’università per poi avere un lavoro come si deve. Ci viene insegnato che c’è un’età adatta per tutto. Traguardi da raggiungere necessariamente entro un preciso periodo di tempo. Tutto questo forse perché è più facile categorizzare tutto per non pensarci. Sapere esattamente cosa sia giusto fare in ogni momento della vita. Seguire delle istruzioni sociali per non essere giudicati. Nessuno ti potrà giudicare se a 19 anni fai l’università ma se sei fuori corso a 25 anni o se torni a studiare a 40 anni allora lì sì che è un problema. Ma c’è davvero un’età giusta per tutto? Tanti hanno paura di essere indietro rispetto alle tappe della vita che la società considera consone per loro. Un fenomeno che tra i giovani si è addirittura acutizzato in questo periodo perché ci si sente di “aver perso tempo”. Negli ultimi due anni i dati su ansia, depressione e tasso di suicidi tra gli adolescenti ci dimostrano come questa pressione, in molti casi, sia diventata insostenibile. Anche se in parte è normale che certi eventi ci accadono in determinati periodi della nostra vita,certe volte la pressione sociale intorno al raggiungimento di alcune tappe è esasperata e non tiene conto della storia personale di ognuno di noi. Questo porta le persone a sentirsi inadeguate se non raggiungono gli stessi obiettivi dei loro coetanei in una tempistica adeguata. Essere fuori dagli standard viene vissuto come una vergogna. Il bello è che siamo tutti intrappolati in questi meccanismi, chi più chi meno, ne siamo inevitabilmente condizionati. Ma se fossimo dei Late Bloomers? Forse non siamo tarati per rispettare alla lettera gli standard imposti dalla società. Forse siamo delle persone che “sbocciano tardi” cioè sviluppano talenti e capacità anni dopo i propri coetanei, a volte superandoli. Sono spesso persone considerate indietro rispetto alle tappe della vita ma che hanno solo bisogno di aspettare il momento giusto per sbocciare. La vita non è una legge fisica universale: J.K.Rowling era una madre trentenne e disoccupata quando riuscì a pubblicare il libro Harry Potter diventando così famosa in tutto il mondo. Julia Child ha scoperto una passione sfrenata per la cucina francese a 50 anni, diventandone uno dei massimi esperti mondiali.

Pensare di essere troppo vecchi per cambiare, arrendersi e seguire la corrente è la strada più semplice che ci viene in mente. Bisogna trovare il coraggio di ascoltare il proprio bisogno di lentezza, il proprio tempo interno. Presto o tardi l’importante è trovare la propria strada per fiorire. Meglio essere Late Bloomers che sentirsi sbagliati per tutta la vita senza riuscire a cambiare.

Con(fini) di guerra e con(fini) di pace

I nati alla fine degli anni ’90 hanno la fortuna di dare per scontato qualcosa che non lo è mai stato: la libertà di muoversi entro i confini europei. La Convenzione di Schengen ha permesso, infatti, per la prima volta nella storia degli stati moderni, la possibilità di attraversare confini, un tempo vigilati, senza quasi rendersene conto, ma, soprattutto, senza doverne rendere conto a nessuno.
Cosa sono dopotutto i confini? Limiti di spazio, tra un dentro e un fuori, tra noi e l’altro, ma chi definisce questo limite? A volte i confini sono naturali, segnati da un fiume, da una catena montuosa o da un mare, altre volte sono stati costruiti e tracciati dall’uomo, con la volontà di definire il proprio spazio di appartenenza.

Ma oggi, nel 2021, in un mondo globalizzato e collegato in maniera immediata attraverso gli strumenti tecnologici e il web, ha davvero ancora senso parlare di confini? Arthur Schopenhauer scrisse: «Ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo», e proprio da qui dovremmo ripartire oggi.
Dallo scoppio della pandemia molti confini sono stati chiusi o maggiormente vigilati, ma già molto tempo prima, in tutto il mondo, gli uomini hanno cominciato a costruire muri per evitare il passaggio di “barbari”, di stranieri provenienti da altri paesi, che invece di un virus avrebbero potuto portare una minaccia terroristica o “rubare il lavoro” agli abitanti di quelle terre. Barriere, distese di filo spinato, eserciti schierati: l’immagine che abbiamo del confine oggi è diversa da quella di pochi decenni fa, ma allo stesso tempo riproduce un pattern ricorrente, la necessità di sentirsi protetti in quanto circondati, almeno in caso di minaccia. Ma davvero il fatto che sia delimitato rende un territorio più sicuro? O semplicemente rende più complesso qualcosa che l’uomo ha sempre fatto e continuerà a fare, cioè spostarsi? 

Con l’11 settembre e la paura del terrorismo, e infine con il 2020 e la COVID19, la necessità di avere dei confini sicuri si è fatta sempre più fondamentale, mettendo allo stesso tempo alla luce la forte interconnessione che caratterizza gli esseri umani oggi: da una lontana città cinese, il virus ha fatto il giro del mondo in pochi giorni, anche quando gli stati hanno deciso di chiudere le frontiere. Ed è forse proprio questo fatto la dimostrazione che spesso, ancora oggi, siamo portati a confondere i nostri limiti mentali con i confini del mondo: non basta chiudere le frontiere, non serve a nulla isolarsi. Ormai, che ci piaccia o no, non siamo più solo italiani, cinesi o americani, ma siamo cittadini del mondo, di un mondo più che mai connesso, nonostante le crisi che tentano di dividerlo. Agire da soli non ha più senso, respingere famiglie e bambini al confine di uno stato non fermerà il movimento delle persone, ed erigere nuovi muri non risolverà la crisi migratoria. I confini, infatti, non sono solo quelli riportati sulle mappe, non sono solo linee, ma possono essere anche ponti, e collegare, invece di dividere. 

È necessario capire quale sia il vero confine, quello fondamentale, il confine della nostra umanità: fino a che punto si possa spingere la nostra mente non solo nel creare limiti, ma anche nell’abbatterli, un passo alla volta, nella direzione di un mondo più aperto, ma non per questo meno sicuro. Per fare questo è necessario lavorare insieme, in primis sulla percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri: con chi ci identifichiamo? Con l’appartenenza ad uno stato o con la nostra natura di esseri umani? Inizia tutto da qui, dallo spazio che lasciamo ai limiti: non necessariamente i confini vanno abbattuti, sono funzionali all’organizzazione del sistema e delle nostre vite, ma è necessario che siano trasformati da confini di guerra a confini di pace, con (veri) fini di pace. 

Il G20 e il senso della fortuna oggi

Quanto facciamo affidamento alla fortuna e al destino anche nelle occasioni importanti?

Da qualche giorno spopolano le immagini che ritraggono i leader del G20 raccolti intorno alla Fontana di Trevi e intenti a lanciare la tradizionale monetina. Probabilmente si tratta di un gesto per lo più mediatico, di una photo opportunity ben sfruttata, ma inevitabilmente spinge a pensare: quanto affidiamo le nostre decisioni e la spiegazione degli eventi della nostra vita alla fortuna? Se anche i grandi della terra, nel contesto di un Summit molto importante nel regolare gli equilibri di un sistema internazionale in trasformazione, sembrano fare affidamento ad una “scaramanzia”, allora i desideri che tutti esprimiamo di fronte alle candeline nel giorno del nostro compleanno, i riti portafortuna prima di un esame o di un’occasione importante e le routine scaramantiche “scaccia sfortuna”, sembrerebbero in qualche modo meno improbabili.

Il fatto è che, la necessità di affidarsi a qualcosa di superiore, incontrollabile e indecifrabile, è non solo caratteristico dell’esistenza umana, ma fondamento di tutte quelle credenze e necessità di spiegazione che hanno dato vita alle religioni e ai culti. Il mondo è troppo grande, gli uomini sono troppo piccoli, e, anche laddove la scienza sembra ormai poter spiegare tutto, rimane insita nella mente di molti la necessità di fare affidamento a forze superiori che giustifichino gli accaduti, di per sé senza spiegarli. 

Sotto l’aspetto filosofico la fortuna è una specificazione del caso, in quanto reca agli uomini qualche vantaggio o qualche danno: identificabile con la Tyche, la Provvidenza o il destino, a seconda delle epoche e del contesto essa assume diverse sfaccettature e significati e, per esempio, nella tragedia greca, l’eroe era tale per la sua capacità di sfidare la Tyche e rendersi libero. Ma è davvero qualcosa che regola le nostre vite, o siamo noi a scegliere di affidarci al destino? 

Guidati dalla necessità di spiegare eventi sublimi, fenomeni naturali, disastri e situazioni incontrollabili, gli uomini sono sempre stati spinti a fare affidamento ad elementi trascendenti ed ineffabili, capaci di giustificare senza analizzare nel profondo, ma anche di rassicurare circa l’imprevedibilità e l’impotenza dell’essere umano. Giustificare questo tipo di eventi con il fato o la fortuna ha permesso all’uomo di rendersi indipendente e distaccato rispetto ad essi, con la possibilità di dedicarsi alle cose del mondo pur nella consapevolezza di non poterle controllare pienamente. Con lo sviluppo della scienza, poi, le spiegazioni hanno cominciato a moltiplicarsi e il “trascendente” a farsi meno accattivante nella sua vaghezza, portando ad un processo di secolarizzazione non solo politica, ma anche culturale. Tutto questo, però, non ha portato alla completa dissoluzione delle credenze: al di là degli aspetti religiosi e di culto, infatti, ancora oggi in molti, per abitudine, ricadiamo in scaramanzie o credenze trascendenti, forse più per usanza che per vera fede nei loro risultati, e penso che il lancio della monetina sia esplicativo di questo.

I grandi leader del mondo, in fondo, non sono che persone: si tende a dimenticarlo, perché quando parliamo di Angela Merkel, Boris Johnson e Mario Draghi siamo portati a pensare a delle cariche, più che a degli individui, ma questa non è la realtà delle cose. Dietro ogni titolo c’è sempre un essere umano, con i suoi pregi e i suoi difetti, la sua logica e la sua superstizione, e anche se il gesto di fronte alla Fontana di Trevi lungi dall’essere un atto di fiducia nell’esaudizione di un desiderio, è proprio in quanto tale che è stato in grado di rimanere fissato nelle nostre menti molto più di quanto non lo siano la “Global Minimum Tax” piuttosto che tutti gli altri accordi e promesse compiute in sede di Summit. 

E allora mi chiedo: siamo davvero, nel XXI secolo, un popolo di scettici e realisti, o ci sono ancora cose in cui ci piace credere senza secondi fini, ma come rifugio sicuro in un mondo di certezze scientifiche?

Linguaggio inclusivo? Quattro ragioni contro l’asterisco

Da un po’ di tempo si sta diffondendo l’uso di simboli per rendere il linguaggio scritto neutro rispetto al genere delle persone: così si scrive, ad esempio, tutt* oppure tuttə. Una scelta che mi ha sempre lasciato profondamente dubbiosa e molto critica, soprattutto perché, forse paradossalmente, io, donna, mi sento più inclusa dal termine tutti che dal termine tutt*, impronunciabile e quindi dal significato inimmaginabile. 

Occorre un ripasso della biologia umana. A livello biologico e genetico, il sesso degli esseri umani può essere o maschile o femminile: l’identità sessuale può quindi essere solo di due tipi, e caratterizza il corpo e i comportamenti della persona, dato che i livelli ormonali sono diversi nel maschio e nella femmina. Dunque il sesso è normalmente un dato di fatto, oggettivo e incontrovertibile. Ora sento già le voci di protesta di chi dice che invece nascono bambini e bambine il cui sesso non è chiaro: sono gli ermafroditi, e rappresentano casi di anomalie genetiche. Non sono la normalità e in nessun modo mostrano che esista un terzo sesso: sarebbe come dire che normalmente gli esseri umani possono essere indifferentemente ciechi oppure vedenti, dato che capita che nascano persone cieche. Detto ciò, la persona non è determinata solo dal sesso, ma anche dalla propria identità di genere. Il genere è la percezione, culturalmente influenzata, che ogni persona ha di sé: tendenzialmente sesso e genere coincidono («sono femmina e mi sento donna»), ma talvolta si delinea uno scarto che può essere doloroso e che può portare a operazioni chirurgiche e ormonali per cambiare il proprio sesso («ero femmina, ma mi sentivo uomo; ho deciso di cambiare il mio sesso per diventare maschio»). Ma il genere non è solo binario: ad esempio le persone androgine non si sentono né uomini né donne, e altre persone cambiano percezione di sé nel corso della vita. Ancora un chiarimento: l’ermafroditismo fa riferimento a un problema genetico sessuale, l’androginismo è un elemento culturale e sociale di genere. Qui un articolo de Il Post per capire meglio queste distinzioni: https://www.ilpost.it/2017/07/05/identita-di-genere/.

Ecco quattro ragioni che mi fanno dubitare di questa abitudine linguistica:

  1. Se si vuole rendere il linguaggio inclusivo di maschi e femmine, è sufficiente rivolgersi a una platea mista con tutti e tutte, ad esempio. È quindi evidente che l’operazione che si vuole portare a termine è includere non il sesso, ma i diversi generi. In altre parole: dato che alcune persone non si sentono incluse neanche da tutti e tutte in quanto non si sentono né maschi né femmine, occorrerebbe lasciare spazio a molteplici possibilità e parlare di tutt*. Il punto è questo: l’identità di genere è determinata, come abbiamo detto, dalla percezione di sé, che è qualcosa di profondamente intimo e privato, talvolta doloroso e inaccettabile. Ma è pur sempre una percezione di sé. Come può il linguaggio adattarsi alle emozioni e alle percezioni che le persone hanno di sé? Facciamo un esperimento mentale. Immaginiamo che esista un gruppo di qualche milione di persone che porta all’estremo il darwinismo e ritiene che non si possa parlare di esseri umani, ma solo di animali: quelle persone percepiscono sé e gli altri come animali, alla stregua dei cani e dei gatti. Rivendicano quindi che il linguaggio abolisca dai dizionari i termini essere umano, umanità, uomo ecc., e che per riferirsi agli uomini si usi solo il termine animale. Qualcuno li ascolterebbe? Io non credo. E perché? Innanzitutto perché il linguaggio non può essere cambiato a tavolino, sulla base di proposte di singoli gruppi; e poi perché, molto onestamente, sarebbe troppo complicato (seppure il fatto che l’essere umano sia un animale sia una questione oggettiva e non solo legata alla percezione di sé). E qualcuno riterrebbe che non ascoltarli sia discriminatorio? Probabilmente no.  
  2. Come comportarsi con tutti quei termini che di per sé indicano un maschio o una femmina in modo esclusivo? Pensate alle parole fratello, sorella, suora, prete: se la sorella di qualcuno si sente androgina, dovrei inventare ex novo una parola apposta, secondo questo ideale di linguaggio inclusivo. Ma perché, facendo riferimento sia al sesso femminile sia all’identità di genere, sarei politicamente scorretta se parlassi della «sorella androgina»? Pensate anche agli articoli determinativi, il, lo, la, i, gli, le: dovrei forse scrivere *l* oppure, per il plurale che sarebbe un misto impossibile tra i e le, direttamente *? E come pronunciare queste parole a cui non potrei semplicemente togliere la desinenza?
  3. C’è ancora una ragione per cui questo esperimento linguistico mi sembra ridicolo. La difficoltà, se non l’impossibilità, di riuscire in questo tentativo anche solo quotidianamente e in prima persona emerge da alcuni testi scritti sui social, che il più delle volte iniziano con un ciao a tutt* e proseguono con termini come qualcuno, giovani, adulti. Questo dimostra che è impossibile cambiare la struttura di una lingua già costituita. Impossibile. Per farlo si dovrebbe creare dal nulla una nuova lingua che ammetta il maschile, il femminile e il neutro, com’era in latino. Nel passaggio dal latino ai volgari italiani il neutro si è perso per volontà di semplificazione, in un modo graduale e molto spontaneo: nessuno ha imposto di eliminare il neutro. Così oggi non si può imporre una nuova regola che andrebbe a creare un terzo genere e che influenzerebbe tutta la lingua (si pensi appunto agli articoli determinativi e ad altre parole, come quelle analizzate prima). Diverso è il discorso sui nomi delle figure professionali: lì il mutamento sta accadendo perché è molto più semplice e non strutturale e perché nomi di figure professionali declinati al femminile e non solo al maschile ci sono sempre stati (maestra, professoressa, sarta). In quel caso si tratta quindi di rendere più diffusa un’abitudine linguistica già presente qui e là.

  4. Sembra che molte persone abbiano iniziato a usare l’asterisco più per moda entusiastica che per una ragione seriamente giustificata e ponderata. L’asterisco pare ormai un lasciapassare, un segno distintivo dell’inclusività, un segno di riconoscimento: «anche tu usi l’asterisco, allora sei inclusivo come me!». Forse è una difficoltà personale, ma la realtà mi ha sempre portato a diffidare delle mode nate sui social, soprattutto di quelle che portano a divisioni della massa in due fazioni, pro e contro.

Insomma, siamo di fronte a un’operazione folle e impossibile. Un’operazione che non tiene conto dei limiti cognitivi dell’essere umano, che non può avere successo in questa impresa titanica. Nel Novecento Ludwig Wittgenstein, grande filosofo del linguaggio, ragionò su quanto a fondo possiamo andare nelle ricerche delle cause che regolano il linguaggio e concluse che possiamo capire quali regole reggono il nostro gioco linguistico, ma non possiamo scendere fino alla causa prima per cui quelle regole sono state inventate. E così ha prodotto uno dei passi più belli e disarmanti dell’intera storia della filosofia:

Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: «Ecco, agisco proprio così». (Ricordati che qualche volta chiediamo spiegazioni più per la forma della spiegazione che per il suo contenuto. La nostra è una richiesta architettonica: la spiegazione è un finto cornicione, che non regge nulla).

La mia vanga, a un certo punto, si piega. Effettivamente mi sentirei senza forze se dovessi produrre anche solo una frase con strani simboli, il che mi dispiacerebbe, perché baderei più alla forma che al contenuto. La forma è importante, si sa, ma in materia di discriminazione credo sia più importante il contenuto: se oggi il vocabolario ammettesse il termine ministre senza che le donne potessero esserlo o senza che avessero il diritto di voto, l’umanità avrebbe fallito; che le donne abbiano da quasi settant’anni il diritto di voto anche se si continua a dire ciao a tutti mi pare un successo. Se tra cinquant’anni gli androgini e i transessuali non saranno discriminati sul posto di lavoro o a scuola e avranno adeguati sostegni psicologici nei casi di sofferenza e di rifiuto della propria condizione, anche se si dirà ciao a tutti e tutte, penso che l’umanità avrà raggiunto un importante traguardo.

 

 

Non c’è un pianeta B: l’umanità e l’ambiente

Bla bla bla. Così Greta Thunberg si rivolge ai politici di tutto il mondo: di fronte alle questioni ambientali, spesso, si parla molto e si agisce poco. Forse perché il problema ambientale sembra più lontano di quanto non sia realmente, o forse perché non si considerano i danni all’ambiente come danni ad un vero e proprio soggetto morale. Si tratta di capire, quindi, in che modo uno statuto morale possa essere applicato all’ambiente e come, di conseguenza, questo impatti sui doveri umani. 

La definizione che Treccani dà di «ambiente» è: 

«Con significato più concreto, la natura, come luogo più o meno circoscritto in cui si svolge la vita dell’uomo, degli animali, delle piante, con i suoi aspetti di paesaggio, le sue risorse, i suoi equilibri, considerata sia in sé stessa sia nelle trasformazioni operate dall’uomo e nei nuovi equilibri che ne sono risultati, e come patrimonio da conservare proteggendolo dalla distruzione, dalla degradazione, dall’inquinamento».

In questa sua definizione l’ambiente implica, oltre a dei fatti, anche degli atti, processi storici che lo hanno modificato in maniera concreta, e comportamenti necessari alla sua conservazione.
Molto dipende, però, da come consideriamo l’uomo nei confronti della natura: ne siamo padroni o custodi? Applicando il pensiero morale kantiano, l’ambiebte andrebbe trattato come mero mezzo per soddisfare i bisogni degli uomini o anche come fine?

L’evoluzionismo biologico darwiniano ha spazzato via le ipotesi circa la posizione gerarchica dell’uomo nella natura: egli non è più visto, nei confronti di quest’ultima, come un custode o come un padrone, ma semplicemente come una possibilità tra le tante dell’evoluzione. L’uomo si trova inserito in un ambiente e in una rete di relazioni che ne permettono la sopravvivenza. Esattamente come qualunque altro essere vivente, egli non è altro che una variante dell’evoluzione, e in quanto tale parte integrante della natura che lo circonda. Di conseguenza, proteggere l’ambiente dalla degradazione coinciderebbe con il proteggere se stessi e la propria sopravvivenza. 

Nell’etica applicata all’ambiente possono distinguersi due tipi di riflessione: un’ecologia della superficie, fondata sulla supposizione antropocentrica che l’uomo sia esterno rispetto all’ambiente e di conseguenza debba comportarsi nei suoi riguardi come un padrone o un custode, e un’ecologia del profondo, che si sviluppa dall’ambiente stesso e ha come soggetto la natura e non più l’uomo, che da categoria a sé stante diventa parte integrante dell’ambiente stesso.
L’antropocentrismo, dunque, non è sempre da condannare: esso varia da un tipo di pensiero fondato sull’idea che l’uomo sia padrone dell’ambiente e di conseguenza possa agire su di esso in maniera completamente arbitraria, ad una visione antropocentrica dell’uomo come custode della natura e dunque responsabile per essa.
Posto il fatto che, da ogni punto di vista, agire per proteggere il nostro pianeta ad oggi è l’unica scelta possibile, quale approccio, tra quello antropocentrico e quello ecocentrico, tra ecologia della superficie ed ecologia del profondo, è più corretto? 

Partendo dal presupposto che ormai, forse, è troppo tardi per discutere di categorie ontologiche, considerare l’uomo come parte integrante del sistema ambientale o come categoria superiore in grado di custodirlo o danneggiarlo è ormai indifferente. Abbiamo visto le conseguenze di un’umanità che si atteggia da padrona della natura e la sfrutta fino quasi all’osso per i propri fini e per i propri comodi, ma, arrivati al limite del tempo massimo per invertire una rotta che si prospetta catastrofica, poco conta che l’uomo si atteggi da custode o da componente dell’ambiente che deve salvare: in ogni caso l’umanità sarebbe danneggiata dalla crisi climatica, e in ogni caso, prima o dopo, le conseguenze di quest’ultima ci spingerebbero a reagire, almeno per limitare i danni. 

Che individualmente ci si voglia porre come custodi o come padroni, non cambia dunque il fatto che sempre, e in ogni caso, saremo anche parte di una trasformazione climatica che cambierà i connotati della natura e dell’ambiente all’interno dei quali solo possiamo esistere.
E se le parole non bastano, cosa siamo disposti a fare noi, nell’attesa (e nella speranza) che i politici di tutto il mondo trovino una strada comune con cui uscire da questa crisi? Dopotutto, in quanto «cittadini del mondo», anzi della natura, l’atteggiamento di ciascuno di noi è fondamentale per cambiare le abitudini e la rotta di un mondo che si è dimenticato di essere ambiente.

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