I nati alla fine degli anni ’90 hanno la fortuna di dare per scontato qualcosa che non lo è mai stato: la libertà di muoversi entro i confini europei. La Convenzione di Schengen ha permesso, infatti, per la prima volta nella storia degli stati moderni, la possibilità di attraversare confini, un tempo vigilati, senza quasi rendersene conto, ma, soprattutto, senza doverne rendere conto a nessuno.
Cosa sono dopotutto i confini? Limiti di spazio, tra un dentro e un fuori, tra noi e l’altro, ma chi definisce questo limite? A volte i confini sono naturali, segnati da un fiume, da una catena montuosa o da un mare, altre volte sono stati costruiti e tracciati dall’uomo, con la volontà di definire il proprio spazio di appartenenza.

Ma oggi, nel 2021, in un mondo globalizzato e collegato in maniera immediata attraverso gli strumenti tecnologici e il web, ha davvero ancora senso parlare di confini? Arthur Schopenhauer scrisse: «Ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo», e proprio da qui dovremmo ripartire oggi.
Dallo scoppio della pandemia molti confini sono stati chiusi o maggiormente vigilati, ma già molto tempo prima, in tutto il mondo, gli uomini hanno cominciato a costruire muri per evitare il passaggio di “barbari”, di stranieri provenienti da altri paesi, che invece di un virus avrebbero potuto portare una minaccia terroristica o “rubare il lavoro” agli abitanti di quelle terre. Barriere, distese di filo spinato, eserciti schierati: l’immagine che abbiamo del confine oggi è diversa da quella di pochi decenni fa, ma allo stesso tempo riproduce un pattern ricorrente, la necessità di sentirsi protetti in quanto circondati, almeno in caso di minaccia. Ma davvero il fatto che sia delimitato rende un territorio più sicuro? O semplicemente rende più complesso qualcosa che l’uomo ha sempre fatto e continuerà a fare, cioè spostarsi? 

Con l’11 settembre e la paura del terrorismo, e infine con il 2020 e la COVID19, la necessità di avere dei confini sicuri si è fatta sempre più fondamentale, mettendo allo stesso tempo alla luce la forte interconnessione che caratterizza gli esseri umani oggi: da una lontana città cinese, il virus ha fatto il giro del mondo in pochi giorni, anche quando gli stati hanno deciso di chiudere le frontiere. Ed è forse proprio questo fatto la dimostrazione che spesso, ancora oggi, siamo portati a confondere i nostri limiti mentali con i confini del mondo: non basta chiudere le frontiere, non serve a nulla isolarsi. Ormai, che ci piaccia o no, non siamo più solo italiani, cinesi o americani, ma siamo cittadini del mondo, di un mondo più che mai connesso, nonostante le crisi che tentano di dividerlo. Agire da soli non ha più senso, respingere famiglie e bambini al confine di uno stato non fermerà il movimento delle persone, ed erigere nuovi muri non risolverà la crisi migratoria. I confini, infatti, non sono solo quelli riportati sulle mappe, non sono solo linee, ma possono essere anche ponti, e collegare, invece di dividere. 

È necessario capire quale sia il vero confine, quello fondamentale, il confine della nostra umanità: fino a che punto si possa spingere la nostra mente non solo nel creare limiti, ma anche nell’abbatterli, un passo alla volta, nella direzione di un mondo più aperto, ma non per questo meno sicuro. Per fare questo è necessario lavorare insieme, in primis sulla percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri: con chi ci identifichiamo? Con l’appartenenza ad uno stato o con la nostra natura di esseri umani? Inizia tutto da qui, dallo spazio che lasciamo ai limiti: non necessariamente i confini vanno abbattuti, sono funzionali all’organizzazione del sistema e delle nostre vite, ma è necessario che siano trasformati da confini di guerra a confini di pace, con (veri) fini di pace.