1940-2021: trova le differenze

Da oltre un anno i social e le piazze sono attraversati da grida che assimilano le norme di contenimento della pandemia al passaporto biologico sotto il nazismo e alle discriminazioni razziste e politiche del primo Novecento. Questo dato di fatto è solo il punto di partenza per una riflessione più ampia, vale a dire: quale dev’essere il ruolo della storia?

Com’è noto, nella seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), Nietzsche distinse tre tipi di conoscenza storica: la storia antiquaria, quella fatta dai nostalgici che mummificano la storia e non riescono a procedere verso il futuro; la storia monumentale, di chi seleziona i fatti cadendo nella trappola della mitizzazione; la storia critica, di chi vuole liberarsi dal peso del passato recidendo le proprie radici. Senza toccare qui la posizione di Nietzsche a riguardo, ciò che è interessante è come il peso valoriale e storico del Nazifascismo continui a incidere sul modo europeo di vedere il presente, sebbene sia trascorso quasi un secolo. E questo, seppur comprensibile, non è totalmente un bene, per due motivi.

Innanzitutto così si rischia di cadere vittime dell’ossessione del passato, che ci impedisce di procedere svelti, di guardare alla novità, a ciò che non è mai esistito e che non si può confrontare col sentiero tracciato dai nostri avi. Qualsiasi ossessione fa sì che si veda solo ciò che si vuole vedere e che, probabilmente, si sia ciechi verso cose anche ben più salienti e incisive. Un esempio pratico: le norme pandemiche sono additate come discriminatorie in un senso politico e per questo alcuni cittadini scendono nelle piazze talvolta con modi violenti. Ma chi scende nelle piazze per protestare contro una sanità carente e mal funzionante che ha in parte causato le molti morti nel mondo? Chi scende nelle piazze per rivendicare che i Paesi dimenticati del globo abbiano accesso al vaccino e a investimenti sanitari? Attenzione, queste domande provocatorie non vogliono invitare all’inutile benaltrismo (quello di chi obietta a un’osservazione asserendo che in realtà «c’è ben altro di cui preoccuparsi»), ma solo a fare riflettere che è facile nascondersi tra le supponenti onde retoriche dei radical chic, mentre è molto faticoso intraprendere riflessioni molto più profonde e quindi molto impopolari.

Il secondo problema è che questo atteggiamento è il sintomo di un’incapacità: quella di prestare attenzione al dettaglio per trovare le differenze (proprio come nei giochi della Settimana enigmistica!). Lo studio della storia dovrebbe insegnare a cogliere le differenze tra un’epoca storica e un’altra – ed è un lavoro per cui non a caso serve una laurea. Con questo presupposto, non si può paragonare questo anno e mezzo al totalitarismo nazifascista. Certo, alcuni filosofi e giuristi concordano sul fatto che la democrazia è tanto fragile quanto bella e che poco basta per schiacciarla, ma il loro è un monito doveroso in qualsiasi epoca di crisi, addirittura economica.

L’ossessione fa vivere male se stessi e gli altri, e di conseguenza è oggetto di studio della psicologia. La disabilità di cogliere i dettagli e di operare dei distinguo è correggibile considerando di volta in volta il contesto storico. Che la storia si ripeta è una frase più retorica che sensata: può essere che esista questa sorta di eterno ritorno dell’uguale, perché l’essere umano in fondo è solcato da alcune tendenze abbastanza immutabili. Che però queste tendenze conducano a un pezzo di storia esattamente identico a un altro è impossibile (d’altronde il principio degli indiscernibili di Leibniz è sempre valido: mai si potranno trovare due foglie identiche tra loro). E una capacità critica solida e affascinante può svilupparsi solo con un allenamento molto preciso: l’allenamento a trovare le differenze.

La decrescita felice

A fine ‘800 Giovanni Verga descriveva il progresso come “una fiumana inarrestabile che procede verso una dura lotta di selezione degli uomini”. Insomma ci stava dicendo che il mondo va avanti senza preoccuparsi di chi rimane indietro. Va bene tutto pur di progredire e innovare sempre di più. Bisogna stare al passo con i tempi, indietro non si torna, quello che ieri era nuovo oggi è già vecchio. Quello che oggi è nuovo sarà vecchio domani. 

In economia si parla di crescita pari a zero o crescita negativa ma mai decrescita o diminuzione. Dobbiamo crescere ed arricchirci. Non ci accontentiamo mai, anche se stiamo bene, c’è sempre qualcosa di più bello che dobbiamo assolutamente avere.  Perfino nell’educazione si parla di avere abbastanza crediti e non avere debiti per poter andare avanti.  Siamo addirittura arrivati a misurare il sapere in debiti e crediti. Fin da subito ci fanno capire che quello che conta nella vita si compra e si vende. Ma in un mondo finito, con risorse finite e con capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile. Potremmo forse imparare a dare qualità alle cose, a vivere meglio consumando meno.

Nel libro La decrescita felice: la qualità della vita non dipende dal PIL , Maurizio Pallante spiega come i segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita, su cui si fondano le società industriali, che continuano a moltiplicarsi: si sta avvicinando l’esaurimento delle fonti fossili e l’arrivo di guerre per averne il controllo. I mutamenti climatici e l’aumento dei rifiuti  minacciano il nostro futuro. Eppure gli economisti e i politici, con l’aiuto dei mass media, continuano a porre nella crescita del prodotto interno lordo il senso stesso dell’attività produttiva. La decrescita felice è uno slogan per indicare la necessità di un “cambio di paradigma culturale”, di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante della crescita basato sulla produzione esorbitante di merci e sul loro rapido consumo. 

Per decrescita si intende, infatti, la riduzione selettiva degli sprechi, delle cose che oggettivamente non servono a niente. L’obiettivo è quello di spargere la consapevolezza della necessità e della bellezza di rallentare, proteggere la natura, gli animali e l’ambiente. Cercare un modo diverso di impostare i rapporti umani privilegiando la convivialità e collaborazione piuttosto che la competizione. In questo cambiamento la tecnologia ci serve. Non è la tecnologia che deve decidere per noi ma dobbiamo essere noi ad indirizzarla: se usciamo da un sistema dominato dall’economia che impone di produrre e consumare sempre di più con la concorrenza, se cominciamo a contemplare più la cooperazione e l’altruismo, allora troveremo le tecnologie adatte al progetto. Inoltre, per decrescita non si intende recessione. Non significa diminuire in modo generale e incontrollato tutta la produzione di merci, sia quelle utili sia quelle inutili perché, così facendo, si causerebbe una forte disoccupazione. Al contrario, decrescita felice vuole creare occupazione in attività utili volte a eliminare gli sprechi.

Purtroppo, chi segue le mode imposte dalla pubblicità nell’alimentazione, nell’abbigliamento o nelle vacanze, consuma molto di più di chi non le segue e fa crescere il prodotto interno lordo. Anche se è difficile disintossicarsi dalla dipendenza da consumo bisogna arrivare ad acquistare le merci in funzione dei bisogni reali e non indotti. La pandemia ci ha insegnato che è possibile vivere meglio con meno, anche se le circostanze erano quelle di un’imposizione e non di una scelta. La lezione, per alcuni, è stata capire la necessità di uscire dalla società della crescita, per molti altri, invece, c’è l’aspirazione a tornare alla vita come prima, soprattutto da parte di molti governi che non hanno approfittato di questa esperienza, ma hanno iniziato subito la corsa a tornare all’economia tradizionale.

Nel 2021 l’Earth Overshoot Day è stato il 29 luglio, ciò vuol dire che, a partire dal 29 luglio fino al 31 dicembre, l’umanità consumerà risorse non prodotte dal pianeta Terra. Forse è arrivato il momento di smontare il mito della crescita, di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, di elaborare un altro sapere e un altro saper fare, di sperimentare modi diversi di rapportarsi con gli altri e con noi stessi. 

Laurea versus bottega

Alla fine dello scorso mese, il Fatto Quotidiano ha pubblicato un report dal titolo allarmante: in Italia solo il 29% dei giovani tra i venticinque e i trentaquattro anni è laureato. Probabilmente, però, questa affermazione così gravida di inquietudine dice poco o nulla. E per un motivo molto semplice, a cui si può arrivare richiamando alla mente lo status di istruzione di alcuni celebri personaggi.

Giusto per essere attuali, Raffaella Carrà non era laureata. Aveva studiato, e anche molto duramente e precocemente: già a otto anni era andata a Roma per iniziare a studiare danza e poi recitazione. Fabrizio de André aveva una pessima pagella scolastica, ma con le sue canzoni seppe comunicare un mondo. Questi personaggi di spessore non erano semplicemente talentuosi o geniali: avevano capacità potenziali che furono portate all’atto dallo studio e da buoni maestri. È chiaro, quindi, che una laurea di per sé non vuole dire nulla. I nostri nonni avevano studiato, quando avevano le possibilità, giusto tre o cinque anni, ma del buon senso, nella maggior parte dei casi, non sono mai stati privi. Occorre ritornare a nobilitare le arti meccaniche, come venivano chiamate nel Medioevo, perché il sapere artigiano è un sapere che non ha assolutamente nulla da invidiare alla conoscenza scientifica, letteraria o medica. Tra il Quattrocento e il Cinquecento fu proprio la filosofia a rivalutare profondamente il sapere tecnico artigiano: l’idea era che l’essenza della natura e di Dio fosse comprensibile tramite una sinergia di teoria e manualità, di speculazione e osservazione empirica. In questa temperie culturale Niccolò Cusano, filosofo tedesco di primo piano, nel 1450 pubblicò il De idiota, opera dal titolo affatto denigrante, in quanto l’idiota è semplicemente una persona formata non su un sapere libresco, ma su quello artigiano. E l’idiota cusaniano sa intagliare cucchiai che, con uno specchio posto sulla superficie, riflettono la realtà, e quindi lasciano intravedere l’essenza delle cose.

Se si vuole cambiare il mondo in meglio, è essenziale insegnare ai bambini il valore dei mestieri artigiani, e sarebbe incredibilmente utile per la società che ritornasse la possibilità di studiare nella bottega fin dalla tenera età: Michelangelo, Leonardo, Botticelli diventarono grandi artisti (e non geni) perché fin dall’infanzia studiarono nelle botteghe del Verrocchio o di altri personaggi di simile caratura. Forse sarebbe urgente rivalutare la funzione della scuola; forse bisognerebbe decidere se si desidera formare tutti laureati oppure persone che, tramite l’attuazione delle proprie potenzialità, riescano a soddisfare anche le esigenze di una civiltà. Una civiltà che necessita tanto dell’avvocato quanto del cuoco, tanto del professore quanto del bidello, tanto del medico quanto dello spazzino. L’intagliatore di cucchiai non vale né più né meno del filosofo: fa qualcosa di diverso, maneggia la realtà con le dita anziché con i concetti logici. Ma la filosofia e l’artigianato, direbbe Cusano, non sono che «congetture»: prospettive diverse su una medesima realtà, tentativi di approssimazione asintotica a una verità divina che non può mai essere colta integralmente, ma avvicinata nel migliore dei modi se i punti di vista in dialogo sono molteplici e differenti. 

Eutanasia tra scienza, etica ed empatia

Negli ultimi anni il tema dell’eutanasia e delle pratiche di fine vita è diventato tanto centrale nel dibattito pubblico quanto controverso. È utile, dunque, portare alla luce quelli che sono gli elementi che la bioetica mette a disposizione affinché ciascuno possa crearsi un’opinione che sia effettivamente fondata.

Mentre nel XIX e XX secolo i bambini sapevano tutto sul morire, oggi sanno tutto sulla nascita e sul sesso, ma nulla sulla morte: quest’ultima è stata come cancellata, con una rimozione che, però, lungi dal negarla, pretendendo piuttosto di decidere sul da farsi. È così che sono emerse le pratiche del suicidio assistito (per mezzo del quale si forniscono all’interessato i mezzi per causare la propria morte) e dell’eutanasia (in cui a compiere l’atto che causa la morte è un terzo che agisce su richiesta esplicita dell’interessato terminale).

Ad opporsi fortemente ad esse, però, vi è il tradizionale atteggiamento del “vitalismo medico”, prospettiva secondo cui il dovere primo del medico sarebbe fare sempre tutto per prolungare la vita fisica e procrastinare la morte, partendo dalla tesi assiologica secondo cui la vita biologica sarebbe sempre buona in sé e la morte sempre il peggiore dei mali. Può darsi che in tempi passati il vitalismo fosse plausibile, ma con le scoperte mediche e l’allungarsi della prospettiva di vita hanno iniziato ad emergere i primi dubbi al riguardo.

Grazie al progresso medico e scientifico, infatti, è oggi possibile allungare la vita fisica di un individuo, ma ne vale davvero sempre la pena?  Ci sono casi in cui, arrivati a un certo stadio della malattia, gli sforzi dovrebbero essere diretti alla creazione di un’atmosfera serena e familiare, piuttosto che all’accanimento terapeutico. Questo ha portato alla nascita di una nuova branca dell’assistenza sanitaria: la medicina palliativa, che ha lo scopo di garantire una morte dignitosa e serena, rivolgendo grande attenzione alle relazioni sociali e agli interessi esistenziali del paziente.

Le critiche al vitalismo medico e l’avvento delle cure palliative segnano una svolta nell’approccio alle fasi terminali della vita, ma non sono chiare le implicazioni dal punto di vista deontologico, ossia su ciò che è concretamente lecito o illecito fare in tali situazioni. Da una parte vi è chi ritiene che la morte volontaria non sia mai moralmente ammissibile, dall’altra, invece, chi sostiene che quest’ultima sia più che lecita in presenza di una “condizione infernale”, caratterizzata da una sofferenza fisica tale da giustificare la scelta di porre fine alla propria esistenza.

I sostenitori della prima posizione propongono un’umanizzazione della morte, evitando l’accanimento terapeutico e accompagnando il morente con affetto fino alla fine, ma condannando qualunque atto teso a causare artificialmente la morte. Dal punto di vista teorico questa posizione basa le proprie considerazioni sull’idea che vi sia una differenza sostanziale tra il fare e il lasciare accadere, tra uccidere e lasciar morire, considerando cure palliative ed eutanasia pratiche alternative.

D’altra parte vi è chi ritiene che la “buona morte” richieda necessariamente la possibilità del suicidio assistito o dell’eutanasia volontaria in situazioni estreme, ritenendo che l’errore di chi le rifiuta risieda nel sopravvalutare la distinzione tra fare e lasciare accadere, al punto da limitare la nostra responsabilità solo all’azione dell’uomo e non anche all’azione della natura. Tale distinzione inevitabilmente sfuma in un’epoca in cui la morte avviene spesso in ospedale, per cui le fasi finali della vita del paziente sono tutt’altro che naturali, ma artificiali e prevedibili.

Una frequente obiezione posta alle pratiche di fine vita è legata al pericolo che esse portino a conseguenze sociali disastrose: si tratta un’obiezione empirica, perché, di principio, non ci sono motivi per condannare la morte volontaria. Tale critica obbietta che se le pratiche dovessero diffondersi le persone si sentirebbero in pericolo nella loro integrità, paragonando la situazione che si andrebbe a creare alla vita in un regime totalitario. In realtà le cose non stanno affatto così: le persone non verrebbero uccise prematuramente e senza ragione, ma l’eutanasia sarebbe attuata esclusivamente su richiesta dell’interessato affetto da una malattia terminale. Quindi, il fatto che sia una procedura volontaria, pubblica e controllata, dovrebbe essere garanzia sufficiente ad evitare eventuali abusi.

Qualunque obiezione di principio alle pratiche di fine vita, legata a credenze religiose o presupposti morali, dovrebbe essere di per sé sterile di fronte alla volontà del singolo malato terminale, unico legittimo autore di una scelta originata da una situazione di sofferenza che nessun individuo dovrebbe essere costretto a procrastinare di fronte alla possibilità pratica di porvi fine, che sia mediante la più drastica eutanasia o l’accompagnamento palliativo alla fine della propria esistenza.

Cos’è davvero la “teoria del gender” (e perché non dovrebbe spaventarci)

Negli ultimi mesi si è sentito parlare parecchio di “questione di genere”, concetto spesso usato dalle parti politiche al fine di designare, da un lato, un problema di fondamentale importanza per una società che vuole essere sempre più inclusiva, e dall’altro, il vaso di Pandora contenente tutti i mali che possano colpire una società fondata sulla famiglia tradizionale, come se parlare di gender fosse non tanto un tentativo di ampliamento di conoscenza della sessualità, che vada oltre la classica divisione binaria tra uomo e donna, ma la vera e propria base per la fine dell’esistenza della sessualità tradizionalmente intesa. Poiché si ha paura di qualcosa solo finché questo resta ignoto, penso sia fondamentale capire perché la questione di genere non debba spaventare, ma si riveli imprescindibile per fondare nella società una solida base di rispetto dell’identità di tutte quelle persone che, nate biologicamente di un sesso, non si riconoscono nel genere che viene socialmente affidato loro, senza allo stesso tempo arrecare alcun vero danno alla cultura o alla morale tradizionale.

Il sesso non è il genere: il sesso si riferisce agli esseri umani in quanto “femmine” e “maschi”, ed è strettamente connesso a fattori biologici, mentre il genere si riferisce agli esseri umani in quanto “uomini” e “donne”, e dipende da fattori sociali. Dunque, nasciamo femmine (o maschi), ma le pratiche sociali ci impongono di diventare donne (o uomini) e di interpretare ruoli differenti all’interno della società. Il genere è un “tipo” sociale e, in quanto tale, non esiste indipendentemente da un sistema culturale di riferimento.

Il sesso biologico non è né sufficiente né necessario per definire l’appartenenza ad un genere, e per spiegare questo passaggio farò riferimento al caso di Thomas Beaties, il primo uomo transgender a portare avanti una gravidanza totalmente naturale: riconosciuto socialmente come uomo, ma con ancora un sistema riproduttivo femminile, egli rappresenta un caso evidente di discordanza tra genere e sesso, mettendo in discussione i metodi tradizionalmente utilizzati per distinguere uomini e donne: non solo il sesso non basta in generale a definire il genere, ma non è neppure necessario essere femmina (o essere maschio) per essere donna (o essere uomo). Non esiste qualcosa come “la natura delle femmine e dei maschi”, esistono tipi diversi di corpi umani e non c’è un unico modo per classificarli. In natura ci sono più distinzioni di quelle riconosciute dalla tradizionale dicotomia femmina/maschio, e non è facile nemmeno per la scienza stabilire in che cosa esattamente consista la differenza tra i due sessi. Ne è un esempio la storia di Maria Josè Martìnez Patino: negli anni ’80 l’atleta apprese di essere dotata di cromosoma XY (maschile) attraverso un test genetico, sebbene fosse anatomicamente femmina. 

La questione non si riduce al fatto che sia riduttivo definire la femmina come “individuo dotato di cromosoma XX e portatrice di ovuli” e il maschio come “individuo dotato di cromosoma XY e portatore di spermatozoi”, ma il punto è che il modello che riconosce solo due sessi non è sufficiente a render conto di tutte le differenze tra individui, poiché vi sono stadi intermedi o diversi e si rivela necessario introdurre altre forme di sesso. In The five sexes: why Male and Female are not enough (1993) Fausto-Sterling suggerisce di aggiungere tre sessi ai due formalmente riconosciuti con caratteristiche morfologiche, cromosomiche, anatomiche e ormonali specifiche (ferm, merms e herms).

Un approccio convenzionalista al genere, che riconosca dunque l’imposizione di un genere come una mera convenzione sociale, presenta un grande vantaggio: la possibilità di render conto del fatto che il modo in cui donne e uomini vivono la loro appartenenza al genere varia da società a società, poiché i nostri concetti di genere non hanno alcuna validità universale, ma riflettono un insieme di norme e prassi accettate, per cui non tutte le donne né tutti gli uomini vivono la loro condizione di donna o di uomo allo stesso modo. Un approccio convenzionalista propone un’analisi contestualizzata, mettendo in conto il fatto che l’identità di genere sia creata attraverso un percorso individuale che ha a che fare col mondo intimo delle proprie emozioni, affetti e fantasie.

Non c’è nulla che debba spaventare nella questione di genere: quest’ultimo è una convenzione, un costrutto sociale, e in quanto tale, per natura, solleva questioni e interrogativi. Se per anni si è data per scontata l’aderenza di sesso e genere, alla luce di esigenze differenti in persone transgender o non-binary, adottare una classificazione più inclusiva non va a minare alle radici di una società fondata sulla famiglia tradizionale, ma ad allargare la base descrittiva di un’identità di genere il cui essere binaria non ha vero fondamento scientifico e non permette un’inclusione davvero totale.

I settantun anni dell’Unione Europea

Il 9 maggio 1950 l’Europa intraprendeva il cammino che avrebbe portato, sette anni più tardi, alla nascita dell’Unione Europea. Esattamente settantun anni fa, l’allora ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, tenne a Parigi un discorso in cui proponeva con forza la riappacificazione tra Francia e Germania, che avrebbero dovuto mettere in comune le proprie risorse di carbone e acciaio: nel 1951 nascerà così la prima comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio (CECA). Nella prospettiva di Schuman, tale strategia avrebbe fatto sì che «una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile».

È superfluo sottolineare la gravissima crisi politica e sociale che l’Unione Europea (come l’intero mondo, del resto) non riesce a superare da anni: mancano decisioni forti e coraggiose rispetto al mar Mediterraneo che sempre più sta diventando un cimitero, rispetto all’emergenza ambientale che non si vuole affrontare per gli enormi interessi economici in gioco, rispetto a politiche lavorative che almeno tentino un’altra direzione rispetto a quella capitalista, che sta ormai dando prova del proprio fallimento. È difficile difendere ancora l’istituzione dell’Unione Europea: la si vorrebbe sociale mentre rivela continuamente la propria natura meramente economica. Qui non si vuole elogiare una realtà politica che andrebbe infatti conosciuta in modo specifico e approfondito; si vuole piuttosto ricordare la grandezza del sogno di quei politici che oltre settant’anni fa trovarono uno stratagemma per evitare una nuova guerra tra i paesi del continente. Diedero prova della propria creatività politica, proprio come ricorda l’apertura della dichiarazione di Schuman: «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». D’altronde quella politica è un’arte, che, in quanto tale, si nutre della capacità immaginativa dei suoi attori.
Ecco che allora la politica tutta e, nello specifico, quella dell’Unione Europea, dovrebbe sapersi anche reinventare per poter rispondere alle domande cogenti che ogni tempo pone con una propria specificità. Come ha brillantemente messo in luce Tomaso Montanari a Piazzapulita poche settimane fa, vi sono temi ed emergenze che restano costantemente fuori dal dibattito politico. Sono i problemi dei sommersi, non dei salvati: dei migranti, dei lavoratori sfruttati, delle donne vittime di violenza e di discriminazione sul lavoro, dei poveri. Sono i dolori di un’enorme porzione di popolo, che però restano ostinatamente esclusi dall’agenda politica nazionale e sovranazionale. Sono vite di cui però non dovrebbero occuparsi soltanto gli intellettuali, ma soprattutto chi esercita l’arte del buon governo.

È tardissimo per recuperare il troppo tempo perduto, che non tornerà mai, ma almeno si può evitare di perderne ancora. È sempre più tardi, ma con azioni coraggiose e concrete forse si può salvare ancora qualcosa: «l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».

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