Negli ultimi mesi si è sentito parlare parecchio di “questione di genere”, concetto spesso usato dalle parti politiche al fine di designare, da un lato, un problema di fondamentale importanza per una società che vuole essere sempre più inclusiva, e dall’altro, il vaso di Pandora contenente tutti i mali che possano colpire una società fondata sulla famiglia tradizionale, come se parlare di gender fosse non tanto un tentativo di ampliamento di conoscenza della sessualità, che vada oltre la classica divisione binaria tra uomo e donna, ma la vera e propria base per la fine dell’esistenza della sessualità tradizionalmente intesa. Poiché si ha paura di qualcosa solo finché questo resta ignoto, penso sia fondamentale capire perché la questione di genere non debba spaventare, ma si riveli imprescindibile per fondare nella società una solida base di rispetto dell’identità di tutte quelle persone che, nate biologicamente di un sesso, non si riconoscono nel genere che viene socialmente affidato loro, senza allo stesso tempo arrecare alcun vero danno alla cultura o alla morale tradizionale.

Il sesso non è il genere: il sesso si riferisce agli esseri umani in quanto “femmine” e “maschi”, ed è strettamente connesso a fattori biologici, mentre il genere si riferisce agli esseri umani in quanto “uomini” e “donne”, e dipende da fattori sociali. Dunque, nasciamo femmine (o maschi), ma le pratiche sociali ci impongono di diventare donne (o uomini) e di interpretare ruoli differenti all’interno della società. Il genere è un “tipo” sociale e, in quanto tale, non esiste indipendentemente da un sistema culturale di riferimento.

Il sesso biologico non è né sufficiente né necessario per definire l’appartenenza ad un genere, e per spiegare questo passaggio farò riferimento al caso di Thomas Beaties, il primo uomo transgender a portare avanti una gravidanza totalmente naturale: riconosciuto socialmente come uomo, ma con ancora un sistema riproduttivo femminile, egli rappresenta un caso evidente di discordanza tra genere e sesso, mettendo in discussione i metodi tradizionalmente utilizzati per distinguere uomini e donne: non solo il sesso non basta in generale a definire il genere, ma non è neppure necessario essere femmina (o essere maschio) per essere donna (o essere uomo). Non esiste qualcosa come “la natura delle femmine e dei maschi”, esistono tipi diversi di corpi umani e non c’è un unico modo per classificarli. In natura ci sono più distinzioni di quelle riconosciute dalla tradizionale dicotomia femmina/maschio, e non è facile nemmeno per la scienza stabilire in che cosa esattamente consista la differenza tra i due sessi. Ne è un esempio la storia di Maria Josè Martìnez Patino: negli anni ’80 l’atleta apprese di essere dotata di cromosoma XY (maschile) attraverso un test genetico, sebbene fosse anatomicamente femmina. 

La questione non si riduce al fatto che sia riduttivo definire la femmina come “individuo dotato di cromosoma XX e portatrice di ovuli” e il maschio come “individuo dotato di cromosoma XY e portatore di spermatozoi”, ma il punto è che il modello che riconosce solo due sessi non è sufficiente a render conto di tutte le differenze tra individui, poiché vi sono stadi intermedi o diversi e si rivela necessario introdurre altre forme di sesso. In The five sexes: why Male and Female are not enough (1993) Fausto-Sterling suggerisce di aggiungere tre sessi ai due formalmente riconosciuti con caratteristiche morfologiche, cromosomiche, anatomiche e ormonali specifiche (ferm, merms e herms).

Un approccio convenzionalista al genere, che riconosca dunque l’imposizione di un genere come una mera convenzione sociale, presenta un grande vantaggio: la possibilità di render conto del fatto che il modo in cui donne e uomini vivono la loro appartenenza al genere varia da società a società, poiché i nostri concetti di genere non hanno alcuna validità universale, ma riflettono un insieme di norme e prassi accettate, per cui non tutte le donne né tutti gli uomini vivono la loro condizione di donna o di uomo allo stesso modo. Un approccio convenzionalista propone un’analisi contestualizzata, mettendo in conto il fatto che l’identità di genere sia creata attraverso un percorso individuale che ha a che fare col mondo intimo delle proprie emozioni, affetti e fantasie.

Non c’è nulla che debba spaventare nella questione di genere: quest’ultimo è una convenzione, un costrutto sociale, e in quanto tale, per natura, solleva questioni e interrogativi. Se per anni si è data per scontata l’aderenza di sesso e genere, alla luce di esigenze differenti in persone transgender o non-binary, adottare una classificazione più inclusiva non va a minare alle radici di una società fondata sulla famiglia tradizionale, ma ad allargare la base descrittiva di un’identità di genere il cui essere binaria non ha vero fondamento scientifico e non permette un’inclusione davvero totale.