«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra»

(Dichiarazione Schuman, 9 maggio 1950)

L’Europa ha vissuto gli ultimi settant’anni in una bolla dorata di pace e sviluppo economico: dopo la Seconda Guerra Mondiale, la nascita delle Comunità Europee e poi dell’Unione Europea ha gettato le fondamenta per una comunità di sicurezza i cui attori non considerano più la guerra come uno strumento per risolvere le controversie, ma preferiscono usare la diplomazia e gli accordi per prorogare una convivenza pacifica duratura. Il problema, però, è che questa comunità di sicurezza non è estesa a tutto il mondo, ma le guerre continuano ad esistere e ad uccidere. Sempre più raramente parliamo di tradizionali conflitti tra stati: le nuove guerre, infatti, coinvolgono più attori e, in misura sempre crescente, i civili. 

Come ogni fenomeno improvviso, è difficile rendersi conto della condizione di privilegio in cui si vive finché questo privilegio non viene minacciato: nel momento in cui un conflitto viene a bussare alle porte dell’Europa occidentale, stracciando quel velo fasullo di eguaglianza che copre la trasmutazione di diritti in privilegi, esso ci ricorda di essere cittadini del mondo prima ancora che cittadini d’Europa, un mondo imperfetto e turbolento, che non potremo tenere fuori dalla porta per sempre. 

Il conflitto è una condizione naturale dell’umano: Hobbes parla di uno stato di natura dell’uomo caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti e dalla legge della giungla, per cui solo il più forte, alla fine, vince. Gli uomini, per porre fine a questa condizione sgradevole e pericolosa, hanno dato vita alle società organizzate e agli Stati, ma la componente conflittuale insita nella natura umana ha continuato ad esistere, trasferendosi dall’individuo alla società, e la guerra degli uomini è diventata una guerra tra popoli e stati. 

Come uscire dal loop del conflitto? L’Europa ci ha provato, ma sfidando la base delle relazioni internazionali tradizionali: la centralità dello Stato. Solo mettendo in secondo piano, in primo luogo, l’individuo e in secondo luogo lo stato, cooperando per un bene comune superiore (la pace) si può davvero costruire una comunità di sicurezza capace di eliminare il conflitto. Ma non possiamo di certo dire di aver raggiunto questo livello di stabilità né fuori dall’Europa né, visti i recenti sviluppi, al suo interno. Finché saranno la strategia e la brama egemonica a controllare le relazioni tra gli Stati così come tra le persone, i conflitti non cesseranno di esistere e l’umanità non cesserà di essere in pericolo. 

Riconoscere il fatto che il conflitto non sia sparito con la Seconda Guerra Mondiale, ma esista tuttora in molte parti del mondo e non troppo lontane, è un punto di partenza fondamentale per affrontare davvero in profondità il tema della guerra: dal 30 luglio 2020 al 30 luglio 2021 il nostro Pianeta ha vissuto quasi 100.000 situazioni di conflitto. Lavorare sui motivi dello scontro prima che sui suoi effetti, e dunque sulla natura umana in quanto tale e sulla natura degli Stati nazione, potenziare il progetto dell’Unione Europea e proiettarlo sull’intero sistema internazionale, potrebbe essere l’origine di un nuovo Leviatano, radicato nella pace e nella cooperazione, un “Leviatano di sicurezza”.