Ricordando Natalia Ginzburg

Ma il cancello che a sera

s’apriva, resterà chiuso

per sempre, e deserta

è la tua giovinezza.

Spento il fuoco,

vuota la casa.

(Natalia Ginzburg, Memoria)

Cent’anni fa a Palermo nasceva Natalia Levi, meglio conosciuta con il cognome del primo marito, Leone Ginzburg. Ma di siciliano l’autrice non ha conservato nulla, anzi, nascere in Sicilia è stato un evento del tutto accidentale: la famiglia Levi si trovava a Palermo perché il padre Giuseppe aveva ottenuto lì la cattedra di anatomia comparata. Ben presto, quando Natalia ha solo tre anni, i Levi si trasferiscono a Torino, in una grande casa in via Pastrengo. L’autrice dirà in seguito: «non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale […] mi immaginavo però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo […] cullandomi nella nostalgia, o in una finzione di nostalgia, feci la prima poesia della mia vita, composta di soli due versi: Palermino Palermino / sei più bello di Torino». E a Torino la vita di Natalia è legata a doppio filo: qui cresce, scopre sé stessa, inizia a scrivere e frequenta i più straordinari intellettuali dell’epoca. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, l’infanzia della Ginzburg non si può propriamente definire felice. Natalia è stata istruita in casa da insegnanti private e questo è stato per lei motivo di solitudine. Quando veniva portata a scuola per sostenere l’esame di fine anno, un sommesso senso di invidia la pervadeva: anche lei avrebbe voluto essere povera come quei bambini, povera ma felice insieme agli altri, povera però come tutti. In questi anni a farle compagnia sono i libri a cui si appassiona e le poesie che scrive e che è costretta a nascondere ai fratelli per non venire derisa. Anche i primi tempi al Liceo Classico Vittorio Alfieri, quando studia finalmente in classe con altri coetanei, sono segnati da una nota di malinconia: è, ad esempio, l’unica a non avere un vicino di banco. In ogni caso, fin da subito si distingue per l’abilità nella scrittura con i suoi temi, che si guadagnano il plauso dell’insegnante e l’onore di esser declamati alla cattedra. Nel periodo liceale legge Anton Chekhov e Alberto Moravia, che erge a suo maestro: «Lessi e rilessi Gli indifferenti più volte, col preciso proposito di imparare a scrivere. Quello che volevo che mi fosse insegnato, era la facoltà di muovermi in un mondo impietrito, e Moravia mi sembrava il primo che si fosse alzato e mosso camminando nella precisa direzione del vero», spiega.

Occorre ora fare un salto di circa trent’anni e piombare nel 1963, quando Natalia Ginzburg vince il premio Strega – scalzando autori di notevole statura come Beppe Fenoglio e Tommaso Landolfi – con il suo Lessico famigliare. Il libro è, come dichiara in un’intervista rilasciata per la Rai, una sorta di «diario diseguale», di «autobiografia scoperta» in cui l’autrice ripercorre la sua vita dagli anni Venti agli anni Cinquanta. L’intento primario era quello di mettere per iscritto il vocabolario sui generis che la sua famiglia utilizzava e trasformarlo in un racconto, ma poi il materiale si è infittito ed il progetto si è concretizzato in un romanzo.

In realtà, è difficile catalogare il libro come romanzo, e anche l’etichetta “autobiografia” gli sta stretta. Certo, i fatti raccontati sono realmente accaduti, così come veri sono i personaggi, ma l’autrice stessa tiene a precisare nell’Avvertenza che Lessico famigliare «benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare». È la memoria, per quanto frammentaria, a fare da propulsore ed a scandire il ritmo del libro, ed i ricordi che affiorano vengono messi su carta in maniera spontanea, senza seguire un preciso ordine cronologico, così che i vari piani temporali finiscono per intersecarsi. Il risultato è un flusso continuo di memorie, separate solo da spazi bianchi e non suddivise per capitoli o, come accade ad esempio ne La coscienza di Zeno, grandi aree tematiche. Inoltre, fatto piuttosto insolito per un’autobiografia, la protagonista non è la voce narrante: «questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia» scrive sempre nell’Avvertenza. Natalia-personaggio rimane, infatti, in ombra e a campeggiare fin dalla prima pagina è il padre, vera fucina di espressioni come «sempio» (stupido), «negrigura» (gesto inappropriato), «babe» (amiche di sua moglie), che costituiscono quel lessico valido solo tra le mura di casa a cui rimanda il titolo: «una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati».

Le pagine di Lessico famigliare permettono di intrufolarsi nella vita dell’autrice e di capire cosa accadeva nella Torino di quegli anni. Sarà ad esse, quindi, che si ricorrerà per continuare a raccontare gli anni Trenta di Natalia. Riprendiamo dal periodo del liceo, che è lo stesso del fascismo, a cui tutta la famiglia Levi è avversa, in particolare il fratello Mario, che faceva parte della cellula torinese del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» insieme a Leone Ginzburg. È proprio Mario a far sì che Leone e Natalia si incontrino, nel ’33. Lei aveva scritto un paio di racconti, Mario li aveva passati a Leone e Leone li aveva spediti alla rivista «Solaria». Fu così che l’autrice pubblicò il suo primo racconto, I bambini. Poi, lei e Leone si legarono sempre di più e, nel ’38, pochi anni dopo la fine del liceo, i due convolarono a nozze e andarono a vivere nella casa di via Pallamaglio (ora via Morgari 11). Ginzburg fu un convinto dissidente del fascismo: «Leone, la sua passione vera era la politica». Fu anche socio fondatore della casa Editrice Einaudi, anch’essa nata negli anni Trenta.

Il libro fa ben comprendere ciò che è stata Einaudi ai suoi albori, le amicizie tra einaudiani come Cesare Pavese, Balbo e lo stesso Ginzburg, l’ascesa della casa editrice. Natalia racconta, ad esempio, che Leone e Giulio Einaudi dovettero insistere per convincere Pavese a lavorare con loro: «Diceva: – Non ho bisogno di uno stipendio […] –. Aveva una supplenza al liceo. Guadagnava poco, ma gli bastava. Poi faceva traduzioni dall’inglese […] Scriveva poesie. Le sue poesie avevano un ritmo lungo, strascicato […] alla fine si persuase, entrò anche lui a lavorare con Leone in quella piccola casa editrice». La casa editrice consiste, inizialmente, in due locali al terzo piano di un palazzo in via Arcivescovado 7, ma poi si ingrandisce e, quando la sede antica crolla durante un bombardamento, si trasferisce in corso Re Umberto.

La Ginzburg scrive anche della Seconda Guerra Mondiale e di ciò che ha comportato per lei ed i suoi cari. Prima della guerra, Leone insegnava letteratura russa a Torino ma perse presto il posto perché si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al Partito Fascista; poi anche il padre di Natalia, Giuseppe, perdette la sua cattedra e si trasferì a Liegi, in Belgio, per continuare ad insegnare. Quando, nel ‘38, entrarono in vigore le leggi razziali, a Natalia e suo marito fu ritirato il passaporto e Leone, essendo antifascista, ogni volta che un’autorità politica giungeva a Torino, veniva arrestato in misura preventiva. In seguito, venne mandato al confino, in Abruzzo, dove Natalia lo seguì con i loro figli e diede alla luce Alessandra. La vocazione alla scrittura, negletta in questo periodo, viene risvegliata grazie all’ausilio di Pavese, che scrive: «Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro più bello del mio», il libro in questione è Paesi tuoi, in cantiere in quell’anno. Nel ‘42 esce finalmente il primo vero romanzo ginzburgiano, La strada che va in città, che l’autrice, a causa delle leggi razziali, è costretta a pubblicare con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Nel luglio del ’44 Leone lascia il confino per Roma e la moglie a novembre lo raggiunge: «Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice […] Leone dirigeva un giornale clandestino […] Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più». Muore lì, in prigione, torturato dai tedeschi, e la Ginzburg più tardi riverserà nella poesia Memoria il suo dolore per la morte del marito.

Terminato il confitto mondiale, l’autrice si sofferma a ragionare sulle tendenze letterarie del dopoguerra. Ora lavora all’Einaudi e scrive: «Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare […] Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia». Sono, questi, gli anni del neorealismo, in cui tutti sono presi dalla smania di raccontare l’esperienza vissuta. Sono anche gli anni Cinquanta – aperti dal suicidio di Pavese, di cui la Ginzburg non manca di scrivere -, sui quali si conclude Lessico famigliare.

Il valore documentario del romanzo è considerevole, anche se non c’è un vero intento cronachistico. C’è solo, più forte di tutto, la voglia di raccontare saltellando qua e là tra i ricordi.

Storia di uno scrittore calabrese e della sua terra: Gente in Aspromonte

Gente in Aspromonte è il libro più ricordato di uno scrittore oggi immeritatamente tra i più dimenticati: Corrado Alvaro. Ad essere più precisi, Gente in Aspromonte è una raccolta di novelle in cui l’autore ripercorre, con l’ausilio della memoria, l’infanzia trascorsa a San Luca, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria. Da questo scavo nel passato risulta non un’autobiografia, bensì una serie di racconti, crudi, oggettivi, sulla vita degli abitanti dell’Aspromonte e sul mondo rurale in sé, con le sue tradizioni, la sua arretratezza e in particolare i suoi rapporti di potere: Alvaro guarda senza diaframmi la dura realtà degli oppressi, con l’occhio del romanziere e giornalista vocato al realismo e sempre attento ai problemi che attanagliano il mondo.

«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque», comincia a raccontare l’autore nella novella eponima che apre la raccolta. E non è, infatti, bella la vita di Argirò, pastore aspromontano e padre di quattro figli, che deve fare i conti, in un braccio di ferro spietato, con la sventura. Quelli come lui vivono in montagna, in case di frasche e di fango e si stupiscono quando, scendendo in città, scorgono case di muri. Quelli come lui devono ogni giorno tribolare per affrontare le asperità della vita, la ferocia dei potenti e dare da mangiare alla propria famiglia. Ma i tormenti sembrano non aver fine: prima Argirò viene licenziato da Filippo Mezzatesta, uno degli impietosi proprietari terrieri dell’Aspromonte; poi il torrente manda all’aria il suo raccolto. La famiglia del pastore è costretta, così, a un nuovo giro di vite: la moglie deve trovare impiego come domestica e il figlio Antonello viene mandato in città a lavorare, mentre Argirò percorre ogni giorno venti chilometri a piedi per fare servizio di trasporto tra il paese e il mare.

In questa catena di disgrazie, la nascita del figlio Benedetto si carica, per la famiglia, di grandi aspettative. Benedetto, difatti, si scopre da subito molto sveglio e veloce nell’apprendimento e Argirò decide di stringere ancora i denti e farlo studiare in seminario, perché possa in futuro riscattare la famiglia. Il vero protagonista della novella, però, non è Argirò, e nemmeno Benedetto. È Antonello, che, al pari di Agostino nella Malora di Beppe Fenoglio, deve vivere un’esistenza sacrificata e insapore come il pane e l’acqua di cui solo si nutre per supportare la famiglia e permettere al fratello più brillante di prendere i voti. Deve perfino rinunciare all’amore: «non ti invischiare, non t’innamorare, altrimenti siamo perduti» lo avverto il padre. Sarà proprio Antonello a insorgere, mettendo in atto una degna vendetta per liberare i compaesani dalla piaga-Mezzatesta.

Questa è una delle tredici storie condite di miseria e sopraffazione che Alvaro racconta, non senza una certa dose di moralismo, per far sentire la voce degli oppressi e fornire la testimonianza diretta di una terra in cui, all’inizio del Novecento, la modernità non è ancora riuscita a fare capolino. Scrive della Calabria nonostante la lontananza fisica dalla regione del sud Italia; torna col pensiero a San Luca anche dopo essere emigrato a Milano e aver viaggiato in Francia e Germania. Ma questo non deve stupire: come insegna Pavese «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (C. Pavese, La luna e i falò).

Le mille e una Napoli. La città partenopea attraverso i libri di Raffaele La Capria.

Napoli è una città che disorienta per la sua eterogeneità. Il senso che domina il forestiero che non la conosce e la visita per la prima volta è quello di un profondo sperdimento: «sapere “dove si è ”non è certo facile a Napoli», scrive Raffaele La Capria (R. La Capria, L’occhio di Napoli, in Opere, Mondadori, p. 946). È impossibile, infatti, indovinare cosa si staglierà appena voltato l’angolo, durante una passeggiata, ma ogni passo permetterà di conoscere una nuova, diversa anima della città: dal suo cuore più verace, il centro storico, un reticolato di vie strette e gremite di cornetti per scacciare il malocchio, alle strade ariose e moderne della zona Chiaia, che ricordano di più Torino o Milano. E poi dal barocco della Chiesa del Gesù Nuovo, alle colorate maioliche del Monastero di Santa Chiara, passando per gli imponenti Maschio Angioino e Castel dell’Ovo, affacciati sul mare. Napoli è perfetta per chi ama la storia antica, con le rovine romane di Pompei ed Ercolano alle pendici del Vesuvio, ma anche per chi vuole godersi il mare, dalla esclusiva Capri alla meno frequentata Procida.

Immancabilmente, la città si presta anche per chi vuole fare una bella passeggiata nei luoghi della letteratura italiana. Molti, infatti, sono gli autori che hanno raccontato il capoluogo campano e che hanno
contribuito a fornire ulteriori prospettive da cui ammirarlo e interpretarlo, da Boccaccio, a Leopardi – sepolto, insieme a Virgilio, proprio a Napoli, all’interno del Parco Vergiliano – alla più contemporanea e
misteriosa Elena Ferrante. Nel novero degli scrittori napoletani rientra anche Raffaele La Capria, vincitore sia di numerosi premi alla carriera (Premio Campiello, Premio Chiara, Alabarda d’Oro, Brancati), sia, nel 1961, del Premio Strega con il suo più celebre romanzo Ferito a morte. La città è una parte consistente della sua narrativa e il rapporto che lo scrittore ha con essa è tormentato. Da un lato, La Capria ama il posto in cui è nato, soprattutto per il mare, onnipresente nei suoi libri, dall’altro ne rimane invischiato ed esso lo paralizza: «la mattina mi svegliavo col desiderio di intraprendere qualcosa, qualsiasi pur minima cosa rassomigliante a un lavoro, e sapevo che non avrei potuto far altro che girovagare per le strade della città senza concludere nulla» spiega ne L’occhio di Napoli. Perciò decide di lasciare Napoli e andare altrove, prima a Parigi, poi a Londra, poi ancora a Roma. Lo stesso accade a Massimo De Luca, protagonista di Ferito a morte e alter ego di La Capria, che, risucchiato dalla borghesia napoletana, è incapace di fare davvero qualcosa di diverso dall’errare tra un Circolo e un bar e, quindi, parte per Roma.

Importante è il punto di vista privilegiato da cui, nella giovinezza, l’autore ha potuto osservare e vivere la città: palazzo Donn’Anna, edificio simbolo del barocco napoletano che affaccia direttamente sul mare della borghese riviera di Posillipo. Il palazzo venne fatto costruire nel XVII secolo dal viceré di Napoli e duca di Medina don Ramiro Guzman per la moglie napoletana Anna Carafa. Donn’Anna, però, morì e la costruzione è rimasta ancora oggi incompiuta. L’autore abitò nello splendido edificio negli anni Trenta ed esso è lo scenario di molte pagine principali dei suoi romanzi. In Ferito a morte, ad esempio, per Massimo De Luca Palazzo donn’Anna diviene il simbolo della dicotomia tra Storia e Natura: la Storia è ciò di cui è artefice l’uomo, quindi l’edificio stesso, mentre la Natura, eterna nemesi della Storia, fa sì che il palazzo si avvii verso il declino, per mezzo del fenomeno denominato “bradisismo”. Il dualismo Storia – Natura è caratteristico dei libri dello scrittore e può essere considerato una modalità di comprensione di Napoli. Anche Gaetano, altro personaggio cardinale di Ferito a morte, ad esempio, propone un’opposizione tra Napoli, intesa come Foresta Vergine – quindi Natura – e Storia. Per spiegare meglio questo dualismo, ne L’occhio di Napoli l’autore ricorre alle Lettere Luterane di Pasolini: «Non è vero che comunque si vada avanti. Anzi assai spesso le società regrediscono o peggiorano» dice Pasolini a Gennariello, avvertendolo di non credere nella Storia e nel progresso.

Napoli è, appunto, un esempio magistrale di come la modernità possa essere una «mezza modernità», un «falso progresso», di come essa possa subire una battuta d’arresto, se minacciata dalla Natura. Natura che è da intendersi anche come natura umana, o meglio, napoletana. Infatti, anche la mentalità napoletana, secondo La Capria, concorre a rendere immobile la città e a impedirle di progredire per davvero: l’insistenza su un passato a cui si guarda sempre nostalgicamente, l’ostinazione ed esaltazione del dialetto e la borghesia con le sue giornate sempre uguali trascorse al Circolo Nautico sono alcune delle zavorre che ancorano Napoli a un tempo circolare, una lunga giornata che continua a ripetersi. Sebbene l’autore non possa fare a meno di scrivere della città che gli ha dato i natali, egli ritiene che la sua napoletanità sia un vero e proprio anatema. Essere uno scrittore nato a Napoli comporta un pedaggio da pagare: venire considerati sempre alla luce della città e dell’idea che si ha di essa. Parlare di Napoli ridimensiona l’autore agli occhi del lettore e del critico: «Se si parla di Pavese non si dice subito: scrittore piemontese. Se si nomina Gadda o Moravia non si dice subito: milanese, romano, e non è questo un predicato indispensabile per circoscriverne la risonanza, l’interesse e l’importanza» denuncia (R. La Capria, L’occhio di Napoli, p. 951). La città partenopea getta ombra sugli scrittori che ne parlano ed è, in ogni caso, difficile scriverne senza scadere nei soliti clichés, per questo, La Capria opta per lo scrivere di Napoli con la penna del demistificatore: sagace, ironico, crudo, alla stregua del Leopardi del periodo napoletano. Parla dei suoi problemi, ma anche delle sue bellezze e la difende da chi l’ha denigrata. Una frase diretta proprio a uno di questi denigratori, il poeta Guido Ceronetti, il quale sostiene che in nessun luogo come a Napoli sia così disumano e insopportabile vivere, cattura perfettamente il sentire dell’autore. Dopo aver spiegato il significato della parola greca deinós, usata per esprimere un sentimento insieme spaventevole e stupendo, La Capria, infatti, scrive: «Vorrei dire a Ceronetti: Guarda che anche Napoli è deinós, spaventevole e stupenda insieme. Ma questo ti sfugge» (R. La Capria, L’occhio di Napoli, p. 957).