Quanto facciamo affidamento alla fortuna e al destino anche nelle occasioni importanti?

Da qualche giorno spopolano le immagini che ritraggono i leader del G20 raccolti intorno alla Fontana di Trevi e intenti a lanciare la tradizionale monetina. Probabilmente si tratta di un gesto per lo più mediatico, di una photo opportunity ben sfruttata, ma inevitabilmente spinge a pensare: quanto affidiamo le nostre decisioni e la spiegazione degli eventi della nostra vita alla fortuna? Se anche i grandi della terra, nel contesto di un Summit molto importante nel regolare gli equilibri di un sistema internazionale in trasformazione, sembrano fare affidamento ad una “scaramanzia”, allora i desideri che tutti esprimiamo di fronte alle candeline nel giorno del nostro compleanno, i riti portafortuna prima di un esame o di un’occasione importante e le routine scaramantiche “scaccia sfortuna”, sembrerebbero in qualche modo meno improbabili.

Il fatto è che, la necessità di affidarsi a qualcosa di superiore, incontrollabile e indecifrabile, è non solo caratteristico dell’esistenza umana, ma fondamento di tutte quelle credenze e necessità di spiegazione che hanno dato vita alle religioni e ai culti. Il mondo è troppo grande, gli uomini sono troppo piccoli, e, anche laddove la scienza sembra ormai poter spiegare tutto, rimane insita nella mente di molti la necessità di fare affidamento a forze superiori che giustifichino gli accaduti, di per sé senza spiegarli. 

Sotto l’aspetto filosofico la fortuna è una specificazione del caso, in quanto reca agli uomini qualche vantaggio o qualche danno: identificabile con la Tyche, la Provvidenza o il destino, a seconda delle epoche e del contesto essa assume diverse sfaccettature e significati e, per esempio, nella tragedia greca, l’eroe era tale per la sua capacità di sfidare la Tyche e rendersi libero. Ma è davvero qualcosa che regola le nostre vite, o siamo noi a scegliere di affidarci al destino? 

Guidati dalla necessità di spiegare eventi sublimi, fenomeni naturali, disastri e situazioni incontrollabili, gli uomini sono sempre stati spinti a fare affidamento ad elementi trascendenti ed ineffabili, capaci di giustificare senza analizzare nel profondo, ma anche di rassicurare circa l’imprevedibilità e l’impotenza dell’essere umano. Giustificare questo tipo di eventi con il fato o la fortuna ha permesso all’uomo di rendersi indipendente e distaccato rispetto ad essi, con la possibilità di dedicarsi alle cose del mondo pur nella consapevolezza di non poterle controllare pienamente. Con lo sviluppo della scienza, poi, le spiegazioni hanno cominciato a moltiplicarsi e il “trascendente” a farsi meno accattivante nella sua vaghezza, portando ad un processo di secolarizzazione non solo politica, ma anche culturale. Tutto questo, però, non ha portato alla completa dissoluzione delle credenze: al di là degli aspetti religiosi e di culto, infatti, ancora oggi in molti, per abitudine, ricadiamo in scaramanzie o credenze trascendenti, forse più per usanza che per vera fede nei loro risultati, e penso che il lancio della monetina sia esplicativo di questo.

I grandi leader del mondo, in fondo, non sono che persone: si tende a dimenticarlo, perché quando parliamo di Angela Merkel, Boris Johnson e Mario Draghi siamo portati a pensare a delle cariche, più che a degli individui, ma questa non è la realtà delle cose. Dietro ogni titolo c’è sempre un essere umano, con i suoi pregi e i suoi difetti, la sua logica e la sua superstizione, e anche se il gesto di fronte alla Fontana di Trevi lungi dall’essere un atto di fiducia nell’esaudizione di un desiderio, è proprio in quanto tale che è stato in grado di rimanere fissato nelle nostre menti molto più di quanto non lo siano la “Global Minimum Tax” piuttosto che tutti gli altri accordi e promesse compiute in sede di Summit. 

E allora mi chiedo: siamo davvero, nel XXI secolo, un popolo di scettici e realisti, o ci sono ancora cose in cui ci piace credere senza secondi fini, ma come rifugio sicuro in un mondo di certezze scientifiche?