Lo scorso novembre la redazione di 1000Miglia era alla ricerca di nuovi membri. Fu così che scelse di rivolgersi ai mezzi di comunicazione più efficaci in assoluto: i Google Form. La reazione è stata inaspettatamente vivace e variegata. Ed eccoci qua, allora, a leggere alcune delle risposte che abbiamo ricevuto. 
Nel modulo Google abbiamo dato tre input di scrittura creativa: il primo era “IMMAGINA DI ESSERE UNO/A SCRITTORE/SCRITTRICE CHE DEVE INIZIARE IL SUO NUOVO LIBRO. TI TROVI DAVANTI ALLA PAGINA BIANCA. COME COMINCIA LA TUA STORIA?”
I seguenti sono stati gli incipit che ci hanno colpito di più.
Buona lettura!

 

 

Vi è mai capitata quell’impressione, quella sensazione di essere stati catapultati in un altro universo? Dove tutte le regole che conoscevate e davate per scontate non valgono più? A Jace è successo. A diciassette anni, una delle età più belle e allo stesso tempo più difficili della vita umana, si era dovuto trasferire dal frenetico centro di Roma, dove abitava con i suoi genitori, in uno sperduto paesino disperso nella campagna piemontese.

 

 

Quasi non ricordavo più come ci si sente ad avere le punte dei piedi blu. La nonna me lo diceva sempre, quando camminavo nella neve senza i doposcì. Diceva: «Qui non è come in città, non bastano mica le scarpe da ginnastica, neh. Se ti vengono i piedi blu io poi non tengo accesa la stufa tutta la notte».
Adesso, dopo anni di vita sfiorando l’Equatore, ho di nuovo i piedi blu. E lo stesso freddo che ormai si è preso il mio alluce, mi entra nelle narici e mi gela i capelli. Profuma. Profuma di freddo, e di pulito.
Tutto attorno a me è bianco. Chirurgico. Il sole non si vede, è dietro la montagna.
Non esistono ombre e sembra non esistere nulla. Nemmeno gli animali si fanno sentire. La cascata non scende più, è andata in letargo anche lei, protetta dallo strato di ghiaccio che ha fermato le sue gocce. Soltanto il vento sibila di tanto in tanto, quasi a volermi ricordare che anche se sono stata lontano per molto tempo, quel posto esiste ancora.

 

 

Non c’è nessun altro oltre me.
La pioggia sbatte contro la finestra, i lampi fotografano la stanza e gli infissi tremano, soccombendo ai colpi dei tuoni.
La solitudine mi incatena sulla logora poltrona che mi accoglie.
Mi è stato dato un unico compito.
Io, che tutta la vita l’ho percorsa di corsa, ora devo aspettare, e, aspettando, scontrarmi con la mia più cruenta compagna: me stessa.
Ho sempre temuto ma non immaginato il silenzio che ora mi strangola, l’assenza totale di calore umano che ora mi raggela il sangue nelle vene. Morire da sola è una di quelle paure che m’attanagliano tanto fortemente che sembra impossibile possano uscire dall’abbecedario dei miei incubi e materializzarsi nella realtà. Ci penso soltanto di sfuggita, sottovoce, velocemente, per attimi, così come si sfiorano le tragedie.

Guardo l’orologio. È fermo.

Immutato, stride contro la processione dei minuti che lentamente sgocciolano uno dietro l’altro, cadendo sul mio cuore, deformandone la superficie.
Goccia dopo goccia.
Mi porto le mani al petto, ne ascolto il battito. Sono ancora viva.
Stendo le mani dinanzi a me: bianche, affusolate, lunghe, simili a ragnatele che imprigionano gli angoli di vecchie cucine. Mi chiedo a cosa sia servito che queste mani ne abbiano strette altre in vita, raccolto speranze, accolto lacrime, legato intrecci, stipulato accordi, sostenuto ribellioni, coltivato l’amore.
Nulla ha potuto evitare che ora rimanessi sola con me, senza alcuna carezza altrui per sincerarmi che il mio volto sia ancora caldo e roseo, non ancora cadavere.
Non mi resta che aspettare: o la morte, o che apra gli occhi, ponendo fine a ogni assenza e sperando di venir investita dal tiepido vento della fiducia, che ho così riposto a fatica nelle intenzioni altrui. Non cercare rassicurazioni, non guardarmi attorno alla ricerca di un’ombra familiare, non immaginare il legno che scricchiola sotto il peso dei passi: questi i miei atti di coraggio. Fidarmi totalmente, aspettare, depredata dei miei sogni futuri, mentre la furia della paura annichilisce ogni progetto.
Mi chino in avanti, dondolando per tranquillizzarmi, come se fossi su un’altalena, in giardino, a bearmi delle luci e dei toni aranciati del tramonto. Invece mi lascio ipnotizzare dal tappeto rosso. E immagino che, intriso del mio sangue, sgoccioli, impregnando il parquet, e che il sangue sgattaioli al di sotto della porta che mi separa dalla bufera che impervia fuori, e richiami a me il mondo esterno.
Le pareti di questo vecchio salotto mi tengono in ostaggio: invalicabili, se vi fossero degli astanti, alle urla di una folla. Si beffano di me, ghignando, i ritratti che costeggiano il caminetto, ove nessun legno brucia e tutto è pece e cenere.

Guardo l’orologio. È ancora fermo.

Mi alzo in piedi, le gambe mi reggono ancora; mi soffermo a ricercare il segno del passaggio di un’anima viva, non demoniaca come le creature che ribollono dentro di me e mi invitano a consegnarmi all’oscurità per sempre.
Non c’è nessuna impronta sulla polvere che riveste il tavolo, terreno di conquista dei numerosi suppellettili di cristallo di famiglia. E nessuno tra questi che sia stato mosso, frantumato, spostato.
Mi chiedo se preservo la possibilità di lasciare un’impronta, se sono ancora capace di imprimermi nel mondo, ora che il mondo non c’è a definirmi.
Il silenzio mi distrugge i timpani, assordante quanto l’incertezza che mi lega a pensieri e paranoie.
Allora piego il capo all’indietro, guardo il lucernario che si staglia contro di me offrendomi uno spicchio di cielo grigio, riempio i polmoni e, diretta contro il cielo, urlo, a più non posso, come mai ho fatto, sino a che le orecchie non mi scoppiano e la gola non mi duole, graffiandomi.

Ancora, silenzio.
Neanche l’eco risponde.

 

Quella sera le lampade della locanda rendevano ancora più soffocante il rosso carminio della tappezzeria. Sospirando lasciai ricadere il bicchiere sul tavolo ormai divenuto il mio appuntamento fisso oltre il crepuscolo.
Mi stavo già slanciando a prendere una boccata d’aria, dopo aver appoggiato distrattamente il conto accanto al bicchiere, quando, improvvisamente, gli altri clienti si trascinarono meccanicamente verso le pareti, lasciando un ampio spazio sgombro al centro della sala. Ero l’unico a non sapere che cosa stesse succedendo, e questo mi indusse a fermarmi qualche istante in più davanti all’uscita del locale.
Poi apparve lei.
Alla sua vista, senza che neanche me ne accorgessi, la mia mano scivolò via dalla maniglia e mi ritrovai seduto ad un tavolo vuoto. Ero troppo orgoglioso per domandare ai miei vicini chi fosse quella donna, ma di bocca in bocca si sussurrava del Fiore Nero.
Non potevo essere un qualunque spettatore per cui smerciare il suo balletto. Decisi che non le avrei staccato gli occhi di dosso, il mio sguardo come spina che punge ad ogni giravolta. Quella misteriosa danzatrice si impadronì dei miei pensieri.
Fu così che la mia affannosa ricerca per dare un nome, una storia e un’origine al Fiore Nero ebbe inizio.