Kid Yugi e l’arte della citazione

Francesco Stasi (aka Kid Yugi) è un rapper emergente classe 2001, originario di Massafra, un centro di circa trentamila abitanti della provincia di Taranto. Il suo nome è comparso sulle bocche degli appassionati del genere dopo l’uscita del disco d’esordio, The Globe, avvenuta il 4 novembre 2022 per Universal. L’album aveva colpito positivamente il pubblico per il suo estro lirico fin dal titolo, che già denotava una forte tendenza alla citazione. Yugi, come dichiarato in un’intervista a Billboard, voleva richiamare infatti il teatro a cielo aperto messo in piedi dalla compagnia di William Shakespeare nel 1599, con l’intento di porlo a confronto con la cosiddetta “vita di strada”, topos lirico costante nei testi di genere rap. “Queste strade sembrano teatri / ‘sto sipario non vuole abbassarsi” sono i versi che chiudono “Hybris” (sì, la stessa hybris dell’Iliade), la prima traccia di The Globe. E i riferimenti al teatro non si fermano alla prima traccia: “Grammelot”, “King Lear” e “Il ferro di Čechov” sono i titoli di alcuni pezzi del primo album che testimoniano l’affiatamento del rapper con alcuni elementi o testi fondamentali del teatro moderno (rispettivamente: la tecnica teatrale onomatopeica messa in atto, tra gli altri, da Dario Fo; la nota tragedia di Shakespeare e la pistola (o fucile) di Anton Čechov, il principio narrativo ideato dall’autore russo per cui un’arma, presente in una messa in scena, prima o poi deve aprire il fuoco). 

 

Il primo marzo di quest’anno Kid Yugi ha rilasciato la sua seconda fatica, I Nomi del Diavolo, declinando in ciascuna traccia dell’album i diversi nomi e volti che può assumere il male. Per farlo Kid Yugi attinge a letteratura (la copertina, il pezzo “Il Signore delle Mosche”), musica (“Paganini”), mitologia (“Lilith”, “Lucifero”), ma anche alla realtà (“Denaro”, “Ilva”), mostrando il ventaglio di identità che nel suo immaginario il diavolo può incarnare. Ciò non deve però far pensare a un album “satanista”, anzi: come dichiarato nell’intervista a teatro rilasciata per Esse Magazine, il diavolo da lui immaginato non assume una forma totalmente maligna, ma lascia aperto lo spiraglio per una tensione verso il bene.
Al di là di scelte o limiti artistici che possono caratterizzare più o meno piacevolmente il lavoro del rapper pugliese, ciò che è nuovamente interessante per le orecchie degli ascoltatori è il numero di pregnanti citazioni a cui Yugi riesce a dar vita. Come fa notare una pagina IG di divulgazione sulla musica hip-hop, TastieraCapitale (https://www.instagram.com/tastieracapitale?utm_source=ig_web_button_share_sheet&igsh=ZDNlZDc0MzIxNw==), la dote particolare di Yugi è quella di accostare elementi di campi d’interesse culturale apparentemente opposti nel giro di poche rime, senza che questo risulti forzato o poco credibile per i suoi fini. Un esempio lo troviamo in una serie di versi autocelebrativi tratti da “Yung 3p 4”, la nona canzone de I Nomi del Diavolo

 

La mia merda è culto, il mio zoccolo duro sono i papaboys

Non è trap, è voglia di far sesso come Sigmund Freud

Dieci K al mese, spingo come un Boeing

(Kid Yugi – “Yung 3p 4”)

 

Tralasciando qualsiasi giudizio morale, fuorviante nell’analisi di certi testi musicali (questo discorso è lungo, complesso, più di quanto si possa pensare, e non è questa la sede per discuterne), possiamo notare ciò che è stato segnalato sopra: il cliché per cui i trapper hanno meno problemi “a rimorchiare” non è espresso dal rapper in maniera diretta, ma passando attraverso Sigmund Freud, il più noto studioso di psicanalisi del ‘900, che riservava a desideri inconsci di tipo sessuale le cause di certe inclinazioni individuali(es. complesso di Edipo). Nel frattempo troviamo attacchi ironici alla religione («il mio zoccolo duro sono i papaboys») o ostentazione di una ormai agiata condizione economica («Dieci K [= diecimila euro] al mese, spingo come un Boeing»). Il suo immaginario è questo, e a trascinarlo avanti sulle basi musicali è la sua voce possente, forse talvolta poco orecchiabile, ma di certo veemente, sia per i contenuti d’impatto comunicati, sia per il timbro grave che la caratterizza.

L’analisi di TastieraCapitale è acuta nell’evidenziare tale pregio della penna di Kid Yugi, e la sua riflessione porta me a farne una riguardo alla definizione stessa di citazione. Essa assume infatti valore quando ciò che viene ripreso dal modello precedente non è semplicemente un richiamo letterale, ma ottiene un nuovo significato, più ricco, dato dall’autore della citazione tramite le connessioni testuali sorte nel suo pensiero, tra il momento di lettura del modello precedente e il momento di scrittura. Kid Yugi si dimostra un maestro nel far fruttare l’intertestualità, un concetto affine alla memoria letteraria su cui i filologi del XX secolo hanno riflettuto a lungo. Se l’intertestualità, secondo il critico letterario francese Roland Barthes (1915-1980), prevede che ogni testo (letterario e non) possa essere interpretato in molteplici modi da ogni singolo lettore capace di tessere con esso nuove relazioni testuali, anche allontanandosi dalle iniziali volontà dell’autore, allora possiamo capire come il rapper di Massafra sia un lettore particolarmente fertile, in grado di esemplificare, tramite i suoi testi, la teoria letteraria dello studioso francese (per info in più a riguardo: https://www.eroicafenice.com/salotto-culturale/il-dialogo-intertestuale-dalle-origini-ad-oggi/ ). Ma non solo testi, perché Kid Yugi guarda, ascolta, respira; film, musica, ma anche la vita stessa, sono elementi, frutto della sua esperienza individuale, che vanno ad impilarsi nel suo vasto bagaglio di conoscenze. Quando scrive, poi, riversa questo bagaglio sulla pagina, forgiando il suo stile impregnato di citazioni.

 

Per qualche altro esempio, basti guardare la copertina de I Nomi del Diavolo, dove il rapper si trova su un «un trono demoniaco circondato da fanatici che si dimenano per toccarlo e quasi soppiantarlo dallo status raggiunto, omaggio alla celebre opera di Michail Bulgakov (Il maestro e Margherita, ndr) che rimanda alla scena del ballo di Satana», come indicato sapientemente in questo articolo di rapteratura.it (“I Nomi Del Diavolo”: l’Apocalisse di Kid Yugi è in terra – Rapteratura). Oppure si ascolti “Lilith”, brano in cui Yugi, attraverso il riferimento alla religione mesopotamica, descrive la propria amante come il demone femminile associato alla tempesta, portatrice di sciagure e morte. O, ancora,“Paganini”, che già dal titolo rivela un richiamo al celebre violinista di epoca romantica Niccolò Paganini, noto anche per la leggenda di un misterioso patto con il diavolo allo scopo di ottenere, in cambio dell’anima, il talento musicale. In questo brano, prende forma la visione violenta e contemporaneamente erudita tipica della scrittura del rapper di Massafra, che si avvale persino, a fini autocelebrativi, di riconoscere la complessità dei propri testi («Il mio slang indecifrabile, sembra latinorum»). 

 

Sei dolore senza limiti, zoodiaci di lividi

La stanza degli spiriti, la danza delle Silfidi

L’affetto di Misery, le fiamme degli inferi

Il canto delle sirene nei tuoi occhi limpidi

(Kid Yugi – “Lilith”)

 

Dieci mitra in sincro, sembreranno il chorus

In un live al Forum, Yugi ultimo shōgun

Questa merda è il mio tesoro, lo difendo come Gollum

Pressione addosso, salvo la mia terra come Goku

Voglio comprarmi un Panzer, non voglio una Lotus

Terzo occhio è quello di Horus, Fat Man sull’Atomium

Questa non è trap, puoi definirla un Horcrux

Non ho mai preso il Valium, San Cosimo era opium

Il mio slang indecifrabile, sembra latinorum

Torno a casa su un nastro di Möbius, rap magnum opus

(Kid Yugi – “Paganini”)


Menzione speciale va fatta anche a “Ilva” (perlopiù, anche remix di un brano originale del cantautore tarantino Fido Guido), in cui il rapper mette mano a una denuncia sociale nei confronti dell’omonimo stabilimento delle acciaierie di Taranto, noto per i problemi di inquinamento – e non solo – provocati alla città pugliese e ai dintorni. 

 

Si vede da lontano una nuvola tossica

Una terra rossa e la mia gente che soffoca

Quaggiù la vita quanto costa? Voglio una risposta

Se tutto quello che ci uccide lo chiami risorsa

(Kid Yugi – “Ilva (Fume Scure rmx)” feat. Fido Guido)

 

Se dovessimo vedere l’insieme del sapere umano come il suolo di un qualsiasi ambiente naturale, potremmo considerare Kid Yugi come un individuo che getta semi sul terreno, facendo crescere in profondità delle radici tanto solide da tenere insieme ogni strato sedimentato sotto la superficie, e dando contemporaneamente luce a una nuova forma di vita. Sono gli alberi ben radicati, infatti, che impediscono a un versante in pendenza di non franare: così il rapper di Massafra lega gli strati di conoscenza accumulati nel suo patrimonio culturale, dando loro nuova linfa vitale nella forma musicale.

Per questo, forse mi viene da pensare che Kid Yugi non sia solo un grande scrittore, ma più che altro un formidabile raccoglitore – lettore o osservatore, poco cambia – in grado di conservare le lezioni dei propri modelli ed evolverle, attuando anche un’opera di divulgazione verso i propri ascoltatori. Lo ha fatto con il teatro a cielo aperto di The Globe e si è ripetuto magistralmente con I Nomi del Diavolo, un progetto che ha il sapore di una vera e propria monografia sulle sfaccettature del male quotidiano. Perché va tenuto bene in mente che Kid Yugi non ha usato i propri riferimenti per sfuggire alla realtà di tutti i giorni, ma li ha piuttosto sfruttati per raccontarla con ancora più consapevolezza. 



Workshop di scrittura al Rondò dei Talenti

L’associazione 1000Miglia è lieta di annunciare la collaborazione con il Rondò dei Talenti per il workshop “Il tempo della scrittura” condotto da Raffaele Riba, autore e docente della Scuola Holden di Torino.

 

Il workshop è indirizzato a tuttə coloro che sono interessatə alla scrittura e che sono alle prime armi con questa realtà. Insomma: qualsiasi sia la vostra età, che siate aspiranti scrittori o che siate appassionati del mondo narrativo curiosi di scoprire cosa si cela dietro la penna dei loro autori preferiti, fatevi avanti e venite ai tre incontri dell’iniziativa che si terrà tra la fine di questo febbraio e l’inizio di marzo. 

 

Il ciclo di incontri è frutto della necessità di 1000Miglia di ritrovare l’ispirazione per dare nuova linfa vitale all’apparato editoriale dell’associazione. Inoltre, si voleva offrire un’occasione a coloro che, nella realtà cuneese, desiderano conoscere meglio il mondo della scrittura e non ne hanno l’opportunità.
Grazie all’autrice genovese Ester Armanino, i ragazzə della redazione sono riusciti a contattare lo scrittore – originario di Cuneo – Raffaele Riba, che si è offerto di dare vita al workshop. 

Insieme a Riba avremo l’opportunità di sviscerare il tema del tempo e il suo legame con la narrativa nel giro di tre incontri (tutti autoreferenziali, quindi indipendenti l’uno dall’altro!).

 

I primi due avranno un taglio più narrativo, mentre l’ultimo ne avrà uno più tecnico. Il primo appuntamento sarà incentrato sul tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, col fine di riscoprire la parte bambina che c’è in noi; il secondo, dedicato al tempo della memoria, ci permetterà di riflettere sul bagaglio di ricordi che ci portiamo dentro. Infine, l’ultimo incontro riguarda il tempo della storia e del racconto: un viaggio immersivo negli strumenti dello scrittore, dai personaggi ai dialoghi.

 

Mercoledì 21 febbraio, 28 febbraio e Venerdì 8 marzo vi aspettiamo dalle 17 alle 19 nella terrazza del Rondò dei Talenti (Via Luigi Gallo, 1 Cuneo) per prenderci il giusto tempo per le parole.

La partecipazione è gratuita previa prenotazione al seguente link: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-il-tempo-nella-scrittura-793244574877?aff=oddtdtcreator

Per ulteriori informazioni potete scrivere a 1000miglia1000miglia@gmail.com o al numero +39 3311021884



Davanti alla pagina bianca

Lo scorso novembre la redazione di 1000Miglia era alla ricerca di nuovi membri. Fu così che scelse di rivolgersi ai mezzi di comunicazione più efficaci in assoluto: i Google Form. La reazione è stata inaspettatamente vivace e variegata. Ed eccoci qua, allora, a leggere alcune delle risposte che abbiamo ricevuto. 
Nel modulo Google abbiamo dato tre input di scrittura creativa: il primo era “IMMAGINA DI ESSERE UNO/A SCRITTORE/SCRITTRICE CHE DEVE INIZIARE IL SUO NUOVO LIBRO. TI TROVI DAVANTI ALLA PAGINA BIANCA. COME COMINCIA LA TUA STORIA?”
I seguenti sono stati gli incipit che ci hanno colpito di più.
Buona lettura!

 

 

Vi è mai capitata quell’impressione, quella sensazione di essere stati catapultati in un altro universo? Dove tutte le regole che conoscevate e davate per scontate non valgono più? A Jace è successo. A diciassette anni, una delle età più belle e allo stesso tempo più difficili della vita umana, si era dovuto trasferire dal frenetico centro di Roma, dove abitava con i suoi genitori, in uno sperduto paesino disperso nella campagna piemontese.

 

 

Quasi non ricordavo più come ci si sente ad avere le punte dei piedi blu. La nonna me lo diceva sempre, quando camminavo nella neve senza i doposcì. Diceva: «Qui non è come in città, non bastano mica le scarpe da ginnastica, neh. Se ti vengono i piedi blu io poi non tengo accesa la stufa tutta la notte».
Adesso, dopo anni di vita sfiorando l’Equatore, ho di nuovo i piedi blu. E lo stesso freddo che ormai si è preso il mio alluce, mi entra nelle narici e mi gela i capelli. Profuma. Profuma di freddo, e di pulito.
Tutto attorno a me è bianco. Chirurgico. Il sole non si vede, è dietro la montagna.
Non esistono ombre e sembra non esistere nulla. Nemmeno gli animali si fanno sentire. La cascata non scende più, è andata in letargo anche lei, protetta dallo strato di ghiaccio che ha fermato le sue gocce. Soltanto il vento sibila di tanto in tanto, quasi a volermi ricordare che anche se sono stata lontano per molto tempo, quel posto esiste ancora.

 

 

Non c’è nessun altro oltre me.
La pioggia sbatte contro la finestra, i lampi fotografano la stanza e gli infissi tremano, soccombendo ai colpi dei tuoni.
La solitudine mi incatena sulla logora poltrona che mi accoglie.
Mi è stato dato un unico compito.
Io, che tutta la vita l’ho percorsa di corsa, ora devo aspettare, e, aspettando, scontrarmi con la mia più cruenta compagna: me stessa.
Ho sempre temuto ma non immaginato il silenzio che ora mi strangola, l’assenza totale di calore umano che ora mi raggela il sangue nelle vene. Morire da sola è una di quelle paure che m’attanagliano tanto fortemente che sembra impossibile possano uscire dall’abbecedario dei miei incubi e materializzarsi nella realtà. Ci penso soltanto di sfuggita, sottovoce, velocemente, per attimi, così come si sfiorano le tragedie.

Guardo l’orologio. È fermo.

Immutato, stride contro la processione dei minuti che lentamente sgocciolano uno dietro l’altro, cadendo sul mio cuore, deformandone la superficie.
Goccia dopo goccia.
Mi porto le mani al petto, ne ascolto il battito. Sono ancora viva.
Stendo le mani dinanzi a me: bianche, affusolate, lunghe, simili a ragnatele che imprigionano gli angoli di vecchie cucine. Mi chiedo a cosa sia servito che queste mani ne abbiano strette altre in vita, raccolto speranze, accolto lacrime, legato intrecci, stipulato accordi, sostenuto ribellioni, coltivato l’amore.
Nulla ha potuto evitare che ora rimanessi sola con me, senza alcuna carezza altrui per sincerarmi che il mio volto sia ancora caldo e roseo, non ancora cadavere.
Non mi resta che aspettare: o la morte, o che apra gli occhi, ponendo fine a ogni assenza e sperando di venir investita dal tiepido vento della fiducia, che ho così riposto a fatica nelle intenzioni altrui. Non cercare rassicurazioni, non guardarmi attorno alla ricerca di un’ombra familiare, non immaginare il legno che scricchiola sotto il peso dei passi: questi i miei atti di coraggio. Fidarmi totalmente, aspettare, depredata dei miei sogni futuri, mentre la furia della paura annichilisce ogni progetto.
Mi chino in avanti, dondolando per tranquillizzarmi, come se fossi su un’altalena, in giardino, a bearmi delle luci e dei toni aranciati del tramonto. Invece mi lascio ipnotizzare dal tappeto rosso. E immagino che, intriso del mio sangue, sgoccioli, impregnando il parquet, e che il sangue sgattaioli al di sotto della porta che mi separa dalla bufera che impervia fuori, e richiami a me il mondo esterno.
Le pareti di questo vecchio salotto mi tengono in ostaggio: invalicabili, se vi fossero degli astanti, alle urla di una folla. Si beffano di me, ghignando, i ritratti che costeggiano il caminetto, ove nessun legno brucia e tutto è pece e cenere.

Guardo l’orologio. È ancora fermo.

Mi alzo in piedi, le gambe mi reggono ancora; mi soffermo a ricercare il segno del passaggio di un’anima viva, non demoniaca come le creature che ribollono dentro di me e mi invitano a consegnarmi all’oscurità per sempre.
Non c’è nessuna impronta sulla polvere che riveste il tavolo, terreno di conquista dei numerosi suppellettili di cristallo di famiglia. E nessuno tra questi che sia stato mosso, frantumato, spostato.
Mi chiedo se preservo la possibilità di lasciare un’impronta, se sono ancora capace di imprimermi nel mondo, ora che il mondo non c’è a definirmi.
Il silenzio mi distrugge i timpani, assordante quanto l’incertezza che mi lega a pensieri e paranoie.
Allora piego il capo all’indietro, guardo il lucernario che si staglia contro di me offrendomi uno spicchio di cielo grigio, riempio i polmoni e, diretta contro il cielo, urlo, a più non posso, come mai ho fatto, sino a che le orecchie non mi scoppiano e la gola non mi duole, graffiandomi.

Ancora, silenzio.
Neanche l’eco risponde.

 

Quella sera le lampade della locanda rendevano ancora più soffocante il rosso carminio della tappezzeria. Sospirando lasciai ricadere il bicchiere sul tavolo ormai divenuto il mio appuntamento fisso oltre il crepuscolo.
Mi stavo già slanciando a prendere una boccata d’aria, dopo aver appoggiato distrattamente il conto accanto al bicchiere, quando, improvvisamente, gli altri clienti si trascinarono meccanicamente verso le pareti, lasciando un ampio spazio sgombro al centro della sala. Ero l’unico a non sapere che cosa stesse succedendo, e questo mi indusse a fermarmi qualche istante in più davanti all’uscita del locale.
Poi apparve lei.
Alla sua vista, senza che neanche me ne accorgessi, la mia mano scivolò via dalla maniglia e mi ritrovai seduto ad un tavolo vuoto. Ero troppo orgoglioso per domandare ai miei vicini chi fosse quella donna, ma di bocca in bocca si sussurrava del Fiore Nero.
Non potevo essere un qualunque spettatore per cui smerciare il suo balletto. Decisi che non le avrei staccato gli occhi di dosso, il mio sguardo come spina che punge ad ogni giravolta. Quella misteriosa danzatrice si impadronì dei miei pensieri.
Fu così che la mia affannosa ricerca per dare un nome, una storia e un’origine al Fiore Nero ebbe inizio.

Armonia d’amore, d’asfalto e di musica

Parliamo di Lovebars, di Coez & Frah Quintale

Il presupposto è già chiaro dal titolo del disco, uscito l’8 settembre di quest’anno. Silvano Albanese (aka “Coez”) e Francesco Servidei (aka “Frah Quintale”) vogliono comporre un mélange del loro vasto bagaglio culturale, allontanando la possibilità di relegare le loro esigenze artistiche sotto l’etichetta di un determinato genere. Indie, Pop, Hip-Hop, Urban, che sia. I due cantautori decidono di accostare due aspetti del loro stile che li hanno caratterizzati e resi noti al grande pubblico: la canzone d’amore e il rap. Se qualcuno ritenesse che i due non siano affatto affini a questo genere, dovrebbe provare a informarsi sulle loro origini; entrambi provengono da un contesto sociale che li ha fatti passare attraverso la tipica gavetta underground. E basta dare un ascolto al primo pezzo dell’album, Era già scritto, o a Local Heroes (produzione di Bassi Maestro, icona del genere underground in Italia), per averne una conferma.

 

[Era già scritto, Coez]

La povertà non è mai stata un’opzione

Studiare non l’ho nemmeno preso in considerazione

Ed ho iniziato a rappare con l’ambizione

Di farne una professione e pensavi fossi ‘n cojone

 

[Local Heroes, Frah Quintale]

Ciò che volevo per me non si chiede

Nessuno ti regala un cazzo

Torno con questo flow nel mio quartiere

Per strada stendete un red carpet


A riguardo, Coez e Frah dichiarano nelle Storyline su Spotify©: «Tanta gente che ci segue sa ben poco di noi, un minimo di presentazione era doverosa. Era giusto mettere le cose in chiaro fin da subito, in questo disco abbiamo fatto molto rap». 

E se la prima parte del loro percorso è stata segnata dalle rime e dalle “barre” più affini all’Hip-Hop, successivamente hanno dimostrato a tutta la nazione le loro doti canore, più melodiche, che li hanno portati ad avere – in due – quasi otto milioni di ascoltatori mensili su Spotify©. Lovebars sembra essere il sunto di queste due anime di entrambi gli artisti. Lo dichiarano loro stessi, in un’intervista condotta da Dargen D’Amico pubblicata sul profilo Youtube ufficiale di Coez: «Ci sono le barre, ci sono i ritornelli sempre cantati, quindi tanta melodia, c’è un sacco di amore». Un amore che però non vuole avere il sapore della dedica smielata (unica eccezione per la title track), ma che punta a immergersi nella più aperta definizione di amore come sentimento passionale, tormentato, tipo quello dei «rapporti difficili», ma anche di amore universale inteso come «lo stare insieme, l’accettare le cose belle e brutte di un’altra persona», come specificato da loro nell’intervista.

Al di là del lato più espressamente musicale, un aspetto che emerge da ogni pezzo è l’affiatamento e la compatibilità che si è stretta fra i due protagonisti, risultato di più di dieci anni di amicizia e stima reciproca. Questa, in particolare, non risalta da chiari riferimenti a riguardo nei testi delle canzoni, bensì dall’atmosfera armonica che la composizione musicale fa uscire fuori. Coez e Frah si completano perfettamente in ogni traccia, tanto da affidarsi a un solo featuring in tutto il disco(Guè in DM).  Un’esemplificazione evidente la troviamo proprio nelle strofe della title track Lovebars, dove i due si passano fruttuosamente il microfono, proprio come fossero nel pieno di una battle freestyle. Invece, ecco che l’elemento underground va ad amalgamarsi insieme a quella canzone-dedica più smielata di cui prima:

 

[Lovebars, strofa 1: Coez & Frah Quintale]

È inutile che mandi i messaggini

Quali massaggini, quali passeggini

Quando passi, gira il mondo

Quando non ci sei, si ferma, tocco il fondo

Tu mi mandi fuori, tu mi lasci sotto

Forse puoi aggiustare questo cuore rotto

Hai tipo mille chiodi, io e te in mille modi

L’abbiam fatto su ogni mobile del tuo salotto

Yeah, baby, stringimi le mani, sei la mia migliore amica

La mia bro della vita, la mia lolita

La mia love story, noi ragazzi fuori made in ITA

La mia signorina, stiamo bene insieme

Quanto cazzo sei figa, fra’, un po’ meno greve

Scusa, bro, sì, lo so, è un po’ fuori luogo, ma però

 

E al di là delle tematiche che fuoriescono dai testi (le origini “di strada”  e l’amore passionale già citati, ma anche il tipico binomio materialismo-vuoto esistenziale legato al successo, come si sente in Vetri fumè), ciò che salta fuori dall’album è davvero la sintonia artistica con cui i due si stendono sul tappeto musicale cucito dagli strumenti, dando vita a un’atmosfera di leggerezza mista a malinconia che aderisce perfettamente al loro stile.
Sempre dall’intervista con Dargen: «Per fare un joint album per forza devi uscire dalla tua comfort zone. Dopo anni che uno lavora da solo con la propria roba, per forza quando si lavora in due bisogna mollare un po’, bisogna sapersi fidare. E questo ti permette di cambiare prospettiva, anche sulle proprie cose, sulle proprie battaglie». I due artisti si sono messi a disposizione, si sono aperti; hanno procacciato un terreno comune dal quale trarre un frutto buono. Forse la loro affinità è sempre stata percepibile, ma il fattore di non-sorpresa non va ad intaccare la bontà del frutto di questo loro lavoro. Nella stessa intervista, Coez sottolinea: «Il fatto di scrivere con un’altra persona, con cui conduci un processo creativo, può permetterti di tirare fuori della roba che magari anche tu avresti fatto, ma non da solo. E’ un processo diverso, come se l’altra persona ti facesse da specchio». «Da solo sei te che ti confronti con te stesso. In due può essere che l’altro è capace di farti venire un’illuminazione a cui da solo non saresti mai arrivato» aggiunge Frah Quintale. Dalle loro parole si sente come la collaborazione sia risultata fluente e accrescitiva per entrambi. Possiamo aggiungere che questo si è sentito anche nella musica.
Ciò che sembra omogeneo, dunque, forse non è il genere dell’album, o la definizione di amore contenuta all’interno, ma la naturalezza e la disponibilità con cui Coez e Frah si sono alleati per fornire ai propri fans un prodotto nuovo, fresco, dopo anni di gavetta e successo in solitaria.
Lovebars è quindi il frutto gustoso di quest’alleanza: un inno all’amore che è limpidamente rappresentato dall’intesa che i due hanno avuto sopra il microfono. E, grazie a quell’amore visto come «stare insieme», noi abbiamo potuto godere di uno dei dischi più interessanti del 2023. 

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