Dall’altra parte del vento

Quando immagino una barca, nella mia mente si profila un orizzonte al tramonto, un mare tiepido e calmo, e un marinaio solitario che issa le vele anche se non c’è vento .

Ecco, il vento è forse l’elemento mancante dei miei sogni.

D’altronde, come dare torto al mio immaginario? Quando la fantasia prende il sopravvento, il potere di creare un mondo a mio piacimento, in cui le ansie quotidiane indossano dolci abiti confortanti, dissolve ogni paura e cancella qualsivoglia vento che possa disturbare il mio stato di quiete.

Così, mi ritrovo a notte inoltrata davanti ad uno spettacolo che capovolge completamente la mia prospettiva fantastica: centinaia di barche in balia del vento imprigionate in un porto. La forza maestrale dell’aria mi strappa un sorriso ed interminabili minuti, in cui i miei pensieri sono sovrastati da una musica penetrante e naturale. Le barche stavano danzando.

Ebbene sì, signori, dopo una giornata di studio e una notte quasi in bianco il migliore degli spettacoli va in scena durante la mia passeggiata notturna: tintinnii, giravolte e qualche sauts de chat nella cornice teatrale di un porto in cui il vento è venuto a portare la sua musica. Solo un pensiero riesce a penetrare nella bellezza del momento, dandomi un panico senso di déjà-vu: «Tutto è già intorno a noi, basta saper accendere gli occhi».

Le parole, dolci e forti, di Oliviero Toscani approdano nella mia mente nel momento più creativo che mi capitasse di vivere negli ultimi tempi. Ed è forse proprio in quell’istante che la magia dello spettacolo ha cominciato a dissolversi, spazzata via dal vento che continua a soffiare implacabile. Perché «solo gli stupidi affermano con fierezza di essere dei creativi».

«Non si può pensare di essere creativi», poiché la creatività non è un’idea che viene fuori dal nulla quando non c’è una vera necessità. Un fotografo con un microfono in mano davanti ad un pubblico pronto ad ascoltarlo è come un pesce fuor d’acqua. Eppure, le parole del maestro Toscani suonano forti e sicure nella sala, dove trecento ascoltatori pendono dalle sue labbra. «Toglietevi dalla bocca la parola creatività, è una parolaccia citata in continuazione, e sempre a sproposito».

Abbiamo tutti sognato di essere creativi un giorno o l’altro. Eppure abbiamo sempre passato più tempo a decidere come metter in pratica la nostra creatività piuttosto che a lasciarci andare al nostro istinto. E quante volte ci siamo ritrovati a fare i conti con lo studio, il lavoro, gli amici, la famiglia o qualsiasi forma di ostacolo magistralmente maneggiato dal tempo? Un pezzo della nostra creatività muore ogni giorno, soffocato dalle preoccupazioni quotidiane o dalla noia dei social network, veri e propri assassini di creatività.

E se avesse ragione il maestro Toscani, che si è ritrovato a scrivere un libro («per incatenarmi, mettermi alla prova e assaporare il gusto della ricerca e della libertà») su questa brutta parolaccia che è la creatività? E se ci volesse davvero solo un pizzico di coraggio per accendere gli occhi e sentirsi liberi di vivere la bellezza che ci circonda? La mediocrità dell’estetica delle pubblicità, delle vetrine, delle relazioni superficiali con finti amici virtuali che viviamo tutti i giorni spesso ci induce a vedere la realtà con gli occhi di qualcun altro.

D’altronde «solo gli stupidi vedono la bellezza solo nelle cose belle». Ma un sorriso timido e sincero quando troviamo la bellezza dietro l’angolo più remoto, quello può scappare a chiunque.

Per tutti quelli che…

Il primo passo nella sala illuminata mi proietta in un altro universo. Un pensiero mi punge la mente come una freccia, e mi stuzzica per tutta l’intervista: « La potenza della luce sovrasta ogni cosa ». Ed in effetti sembra essere proprio lei la protagonista di questo incontro, tanto intimo quanto atteso, con un giornalista dalla storia tutta particolare. La piccola fotocamera della nostra televisione d’università si fa largo tra gli imponenti apparecchi di France 3, canale di rilevanza nazionale, che dominano la sala tra l’imbarazzo di tre giornalisti in erba. Tra camere monumentali e carrelli a scorrimento, sono l’improvvisazione e il sorriso la nostra arma di punta. Eppure, nella scenografia perfetta della biblioteca del campus, è proprio questa luce intensa “rubata” ai professionisti a spogliare un ospite di tutte le aspettative di superiorità create al suo riguardo.

In questa atmosfera, Kamal Redouani si siede elegantemente nella poltrona e ci sorride amichevolmente, in attesa della prima domanda dell’intervista. Non ha bisogno di fogli sottomano, né di libri da presentare: lui stesso è la storia da raccontare. Il vincitore del premio Rising star award  2014 per il cortometraggio “Islam contro Islam: inchiesta di una nuova guerra” è un concentrato di semplicità sorprendente. Dopo quasi dieci anni di speciale “infiltramento” in numerose forze jihadiste, qualsiasi eufemismo ha perso senso per questo giornalista. E il fatto che la semplicità sia uno dei sentimenti che emergono con più prepotenza tra le sue dolci parole né è la prova.

Kamal potrebbe essere ancora in qualche radio qualunque, a parlare di un soggetto qualunque, ascoltato da gente qualunque. Ma dopo otto anni a Radio France International, il signor Redouani ha sentito nell’aria la vera essenza del giornalismo e senza sé e senza ma ha deciso di coglierla. Come? Andando a “lavorare sul campo”, come si dice in gergo, con un equipe tecnica ed una telecamera sempre a portata di mano.

Così, partendo con la testimonianza degli oppositori dell’occupazione americana in Iraq, passando per la caduta del presidente Ben Ali in Tunisia e per il cuore della Primavera Araba, Kamal è approdato nel mondo dei salafisti jihadisti (Credete davvero che si chiamino “fondamentalisti islamici”?) per seguirne passo dopo passo lo sviluppo, fondazione dello Stato Islamico (daech) compresa. Nel suo libro “Inside Daech”, raccoglie tutte le esperienze raccolte fianco a fianco con semplici soldati o comandanti dell’Isis, viste da un punto di vista inusuale e personale.

Perché tutto questo? È la domanda che gli poniamo anche noi in questa famosa intervista, rilasciata espressamente per Sciences Po Tv del campo di Menton. « Per informare, semplicemente. Ho filmato la guerra, la morte, la speranza; ho incrociato talmente tanto odio e sofferenza da averne la mente piena». E allora cosa può mai spingerlo ogni volta a ripartire? Essenzialmente è la stessa domanda che ci porge anche lui: « A cosa possiamo ancora servire, noi giornalisti, quando le azioni più immonde sono rivendicate nel nome di una religione? ».

D’altronde, lo sguardo di Kamal si distingue dalla tipica immagine occidentale del Medio Oriente per la volontà di documentare i dissidi interni di società e paesi dilaniati da contraddizioni e lotte. I musulmani non sono tutti animati dagli stessi sentimenti e i documentari di questo autore offrono una visione profonda e inedita di eventi storici come il post-Gheddafi in Libia e le tensioni alla frontiera tra Turchia e Siria.

Per questo motivo il lavoro di Kamal Redouani continua, « per tutti quelli che hanno perso la vita a Parigi, per i miei colleghi morti sul campo, per l’umanità che esiste ancora in ogni angolo del mondo, anche il più scuro. È compito nostro continuare a fare lo zaino e tornare a porgere il microfono ad esseri umani davanti ai quali si sono spalancate le porte dell’inferno, ma anche agli altri, coloro che considerano che la parola “libertà” sia blasfemia ».

Eroi

Prima superiore. Tema in classe. I volti chini e concentrati su un foglio accogliente. Le idee che si sparpagliano caotiche e riempiono la testa e le ore a disposizione. E poi ci sono io, ad osservare i miei compagni e a descriverli a parole, per dare senso ad un testo che alla fine di «senso non ne ha», come affermerà in seguito la mia professoressa. Eppure, il soggetto era così famigliare e a portata di mano, impossibile da sbagliare! “Il concetto di eroi nel XXI secolo”.

Un soggetto così vasto ed inesplorato da aprire una vera e propria ferrovia nella mia testa, dove i binari scorrevano leggeri tra le caricature di personaggi politici, star musicali e piccoli attori della vita quotidiana: tutti accalcati sulla mia personale locomotiva dell’ “eroicità”.

Eppure, in quel fosco giorno di novembre, un pragmatico e panico senso di gratitudine accompagnò la mia penna stilografica nella descrizione di ognuno dei miei compagni di scuola seduti di fianco a me. Forse per colpa dei primi indecifrabili anni di adolescenza, ma trovavo straordinario il fatto di sentirmi felice in un ambiente completamente nuovo per me, con personalità forti e semplici che mi accoglievano ogni giorno. E così, uno dopo l’altro, il mio foglio diventava una tela in cui ritrarre a parole i miei “piccoli eroi quotidiani” che facevano realmente la differenza per me.

Non si trattava certo di « esseri semidivini ai quali si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali » e nemmeno di qualcuno che « dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie » (Enc. Treccani), tuttavia la sincerità regnava sovrana sulla mia copia di bella, che resi fieramente alla mia professoressa nella totale indifferenza per il voto finale.

Ora, quando ripenso a quell’occasione, la mia mente viaggia attraverso i continenti e le storie raccontate da giornali e da persone straordinarie che incontro ogni giorno, alla ricerca dei “piccoli eroi quotidiani” che seminano coraggio e sorrisi agli angoli del mondo. E nel mio immaginario, mi rendo spettatore di uno spettacolo modesto e senza decoro, dove attori silenziosi non recitano parti prestabilite ma liberano il proprio senso di generosità e umanità davanti ad un pubblico che non applaude, ma impara e condivide.

Medici senza frontiere in ogni parte del mondo, figli senza frontiere con una vita di sacrifici, preti senza frontiere che diffondono i veri valori della fede, associazioni senza frontiere che si battono ogni giorno per i diritti di tutti, studenti senza frontiere senza paura di fronte all’eredità globale lasciata dalle precedenti generazioni. Sarebbero tutti attori validi per mettere in scena questo spettacolo, perfino in paesino come Gorino, sperduto tra le notizie di attualità ed esuberante di gioia per i suoi “quindici minuti di celebrità” alla Andy Warhol.

Là dove le barriere non vengono abbattute, ma costruire intenzionalmente, il concetto di “Eroi nazionali” risulta essere una nota stonata di un musicista in erba (verde) che ha fatto carriera diffondendo la paura di un’orchestra internazionale e senza frontiere, sicuramente di un livello superiore ai suoi ritornelli da flauto di prima media con cui riempie le piazze e i giornali. Eppure, l’accoglienza dovrebbe essere un gesto tanto semplice quanto quelle piccole azioni quotidiane che rendevano i miei compagni di classe i miei personali eroi. Senza addentrarsi in tutte le sfaccettature della parola “integrazione”, senza polemiche di diversità culturale o ceto sociale, senza vanto, senza celebrità, senza giornali.

Ma con tanta umanità.

« Sfortunato il popolo che ha bisogno i eroi. Ma ancora più sfortunato il popolo che ne disperde l’esempio e l’insegnamento » (Bertolt Brecht)

ReferenBoom

 

Basterà il premio Nobel a portare avanti i negoziati di Santos e a non metterlo nella coda delle dimissioni, dove oltre a Cameron si profila l’ombra di Matteo Renzi?

David Cameron non è inglese.

O per meglio dire, la specie “David Cameron” non esiste solo in Inghilterra. E lo sa bene Juan Manuel Santos, Presidente della Repubblica colombiano.

«Il due ottobre è stato il giorno della Brexit colombiana e Santos è il nostro David Cameron» scrive il giornale inglese The Guardian; «Santos aveva scelto di convocare un referendum per aprire spazi di negoziato e dialogo in un paese che lo aveva eletto per finire di annientare militarmente le Farc […], la sua scelta, però, non ha dato i risultati sperati». Dopo 52 anni di guerriglia con le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (Farc), uno spiraglio di quiete si era finalmente concretizzato il 26 settembre, con la firma del trattato di pace tra il governo e il capo del movimento di estrema sinistra, Rodrigo Londoño, detto Timochenko. Uno spiraglio che non è bastato ad illuminare a sufficienza le convinzioni dell’opinione pubblica, oscurata da decenni di violenze irrimediabili con un trattato di pace. Così, a sorpresa, per soli 63mila voti di differenza gli sforzi di riconciliazione sono andati in fumo, insieme alle aspirazioni future del Presidente Santos.

Dimissioni alla Cameron in vista? Non è questo di cui ha bisogno il popolo colombiano al momento. Soprattutto dopo quattro anni di negoziati e una tregua firmata una settimana prima del fatidico referendum. Una settimana nella quale il frastuono dei media e dell’ex presidente Uribe, a favore del No, ha rotto il silenzio dei 260mila morti e 45mila desaparecidos di questo conflitto eterno.

Probabilmente l’onda mediatica di questo risultato non si infrangerà sulla spiaggia dell’opinione pubblica con la stessa potenza di quello della Brexit. D’altronde, gli sforzi del presidente Santos sono stati premiati il 7 ottobre con il Nobel per la Pace, mentre al massimo Cameron potrebbe essere candidato per quello dell’Esibizionismo.

Ma, da buoni umani, dobbiamo pur trovare un colpevole per un risultato tanto sorprendente: il referendum, arma di voto potente lasciata nelle mani di un popolo bambino?

Rimettere in discussione un pilastro democratico così importante mi sembra inutile, soprattutto in vista del dovere costituzionale che ci chiamerà al voto il 4 dicembre. Tuttavia, il rischio maggiore che sembrano correre i promotori dei referendum al giorno d’oggi è la possibilità di farsi travolgere dalle scelte del popolo e trascinare con sé progetti politici futuri e presenti.

Un velo pietoso steso sulla Francia

Quando parla la sua figura possente precede le sue parole attente e ricercate. Delle lunghe pause di riflessione intervallano il suo discorso. L’atteggiamento da giudice stona con la cornice della Costa Azzurra che fa capolino dalla finestra della classe. E anche i giovani visi seduti ai banchi si distinguono nettamente dal tradizionale pubblico di un tribunale. Eppure l’argomento di dibattito è lo stesso della decisione presa il 28 luglio dal sindaco repubblicano di Cannes, David Lisnard: il divieto municipale contro il burkini in spiaggia.

“Possono le donne musulmane fare fede al loro culto religioso e andare al mare con un velo integrale?” è stata la miccia di discussione dell’estate francese. Nella patria della laicità, in memoria dei valori della Rivoluzione del 1789, è divampato il fuoco della paura, alimentato da un’estremità all’altra dagli attacchi terroristici e dal soffio incessante dei media. Ma, d’altronde, non ci dovremmo aspettare più di tanto se perfino i discorsi inaugurali del direttore generale di SciencesPo (università di Scienze politiche) non possono fare a meno di citare la tragedia di Nizza e l’orgoglio francese messo in discussione dal “problema integralista”. La strada verso l’integrazione religiosa è indubbiamente in salita, e i comuni della Costa Azzurra che hanno aderito al divieto municipale contro questo tipo di costume femminile in spiaggia hanno imboccato la via più veloce ed in discesa: quella della paura.

La Francia non è più il difensore della laicità? Non è questo il punto. Tuttavia, sta usando argomenti di questo genere per mostrarsi più che mai in prima linea nella sicurezza contro il terrorismo. La stessa sicurezza messa in pericolo da un costume da bagno, che ha indotto alcuni magistrati (tra cui il possente professore) a giudicare ‘legale’ il divieto municipale del sindaco di Cannes, poi esteso agli altri comuni delle Alpi Marittime. Mentre i bombardamenti del governo francese in Siria non vedono l’ombra della fine, si cerca di coprire la vulnerabilità della popolazione con un divieto tanto inutile quanto discusso. Finendo col coprire un’intera nazione con un velo pietoso.

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