Prima superiore. Tema in classe. I volti chini e concentrati su un foglio accogliente. Le idee che si sparpagliano caotiche e riempiono la testa e le ore a disposizione. E poi ci sono io, ad osservare i miei compagni e a descriverli a parole, per dare senso ad un testo che alla fine di «senso non ne ha», come affermerà in seguito la mia professoressa. Eppure, il soggetto era così famigliare e a portata di mano, impossibile da sbagliare! “Il concetto di eroi nel XXI secolo”.

Un soggetto così vasto ed inesplorato da aprire una vera e propria ferrovia nella mia testa, dove i binari scorrevano leggeri tra le caricature di personaggi politici, star musicali e piccoli attori della vita quotidiana: tutti accalcati sulla mia personale locomotiva dell’ “eroicità”.

Eppure, in quel fosco giorno di novembre, un pragmatico e panico senso di gratitudine accompagnò la mia penna stilografica nella descrizione di ognuno dei miei compagni di scuola seduti di fianco a me. Forse per colpa dei primi indecifrabili anni di adolescenza, ma trovavo straordinario il fatto di sentirmi felice in un ambiente completamente nuovo per me, con personalità forti e semplici che mi accoglievano ogni giorno. E così, uno dopo l’altro, il mio foglio diventava una tela in cui ritrarre a parole i miei “piccoli eroi quotidiani” che facevano realmente la differenza per me.

Non si trattava certo di « esseri semidivini ai quali si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali » e nemmeno di qualcuno che « dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie » (Enc. Treccani), tuttavia la sincerità regnava sovrana sulla mia copia di bella, che resi fieramente alla mia professoressa nella totale indifferenza per il voto finale.

Ora, quando ripenso a quell’occasione, la mia mente viaggia attraverso i continenti e le storie raccontate da giornali e da persone straordinarie che incontro ogni giorno, alla ricerca dei “piccoli eroi quotidiani” che seminano coraggio e sorrisi agli angoli del mondo. E nel mio immaginario, mi rendo spettatore di uno spettacolo modesto e senza decoro, dove attori silenziosi non recitano parti prestabilite ma liberano il proprio senso di generosità e umanità davanti ad un pubblico che non applaude, ma impara e condivide.

Medici senza frontiere in ogni parte del mondo, figli senza frontiere con una vita di sacrifici, preti senza frontiere che diffondono i veri valori della fede, associazioni senza frontiere che si battono ogni giorno per i diritti di tutti, studenti senza frontiere senza paura di fronte all’eredità globale lasciata dalle precedenti generazioni. Sarebbero tutti attori validi per mettere in scena questo spettacolo, perfino in paesino come Gorino, sperduto tra le notizie di attualità ed esuberante di gioia per i suoi “quindici minuti di celebrità” alla Andy Warhol.

Là dove le barriere non vengono abbattute, ma costruire intenzionalmente, il concetto di “Eroi nazionali” risulta essere una nota stonata di un musicista in erba (verde) che ha fatto carriera diffondendo la paura di un’orchestra internazionale e senza frontiere, sicuramente di un livello superiore ai suoi ritornelli da flauto di prima media con cui riempie le piazze e i giornali. Eppure, l’accoglienza dovrebbe essere un gesto tanto semplice quanto quelle piccole azioni quotidiane che rendevano i miei compagni di classe i miei personali eroi. Senza addentrarsi in tutte le sfaccettature della parola “integrazione”, senza polemiche di diversità culturale o ceto sociale, senza vanto, senza celebrità, senza giornali.

Ma con tanta umanità.

« Sfortunato il popolo che ha bisogno i eroi. Ma ancora più sfortunato il popolo che ne disperde l’esempio e l’insegnamento » (Bertolt Brecht)