Sessualità

«Nel Maghreb, amarsi è come uno sport da combattimento. Bisogna giocare d’astuzia e con le apparenze sfidando le convenzioni». Quali apparenze? Perché l’astuzia? E soprattutto, quali convenzioni?

Queste domande mi ronzavano in testa quando mi sono ritrovato di fronte al documentario Sesso e amore nel Maghreb di Michaëlle Gagnet. Diffuso domenica 27 in anteprima sul canale francese M6, questo reportage si presenta con un titolo apparentemente innocuo per gli standard europei. Eppure questa inchiesta esclusiva racchiude domande e polemiche di grande portata. Per tre anni, la regista francese ha incontrato decine di giovani tunisini e marocchini nei rispettivi paesi. Il motivo? Illustrare i limiti giuridici e sociali della libertà sessuale.

Perché una regista francese dovrebbe interessarsi di queste tematiche? «Perché parlare di amore e sesso significa fare i conti con le libertà individuali». Relazioni prima del matrimonio, diritto all’aborto, madri single, omosessualità, verginità, pudore. Buona parte dei diritti che potremmo dare “per scontati” in Italia sono ancora oggetto di divieto (e prigione) in Marocco e Tunisia.

In quest’ultima, il codice penale punisce con sei mesi di carcere l’“indecenza” pubblica. Tuttavia, non si tratta solamente di “atti osceni in luogo pubblico”, ma di semplici coppie che si ritrovano nella stessa auto in uno dei punti più famosi della passeggiata di Tunisi. Questo articolo (226) si appresta a libere interpretazioni secondo la necessità di punire giovani coppie alla ricerca di un posto tranquillo in cui passare del tempo insieme.

Le relazioni sessuali prima del matrimonio sono vietate dalla religione islamica (così come dal Cristianesimo) e dalla legge. La verginità è dunque “sacralizzata” dalla maggior parte delle famiglia, in cui i genitori cercano di tramandarne il valore attraverso la paura. “Preservarsi” in quanto donna è fondamentale poiché «si riconosce una buona fanciulla solo il giorno del matrimonio». Spesso i genitori dello sposo verificano la “purezza” della sposa controllando le lenzuola il mattino seguente il grande giorno.

Qual è la portata sociale di questi obblighi? In una clinica tunisina, ogni anno cento donne prenotano un appuntamento per una imenoplastica. Questa “ricostruzione dell’imene” ripara la membrana ripristinando chirurgicamente le caratteristiche anatomiche della verginità. E salva da un terribile seguito decine di donne ogni giorno in Tunisia.

Questa tecnica è ugualmente diffusa in Marocco. Ma a differenza della Tunisia, in Marocco l’aborto è vietato dalla legge, con pene fino ai due anni di reclusione. Quali sono le conseguenze dell’illegalità dell’aborto? Secondo uno studio, 24 bambini al giorno sono abbandonati e più di 50 000 bimbi all’anno nascono da relazioni extraconiugali (incluse quelle prima del matrimonio).

Un bimbo che non è venuto alla luce nel contesto di un matrimonio è considerato una vergogna irreparabile per la famiglia, disposta perfino a rifiutare la figlia incriminata. Se decidono di tenere il figlio illeggitimo, egli non porterà il nome del nonno (come da tradizione araba) in modo che tutti sapranno che è il frutto di una relazione illegale. La sessualità diventa così lo specchio di una società patriarcale dove i tabù prendono il sopravvento.

Quali sono le differenze fra i due paesi magrebini? Secondo la regista Michaëlle Gagnet, in Tunisia «l’influenza della religione è meno forte». Nonostante l’Islam sia ancora la religione ufficiale dello stato, la nuova Costituzione tunisina promulgata nel 2014 non include la sharia (legge islamica) come principale fonte di diritto.

Questo progresso istituzionale si riflette nella società tunisina, desiderosa di diritti e all’inizio di una svolta democratica. Nonostante l’omosessualità sia ancora vietata dalla legge (così come in Marocco), nel 2017 è nata la prima radio LGBT del mondo arabo, Shams Radio.

In Tunisia e Marocco, la situazione delle libertà individuali e del rapporto tra i generi sono racchiuse nella sessualità. E come direbbe Seneca: «Non è libero chi è schiavo del proprio corpo»?

Violenza

Qual è il vero volto della violenza?

Quello del sangue vivido che macchia il volto di un bambino alla televisione? Quello mediatizzato che ci fa provare empatia per qualche secondo prima di tornare alle nostre occupazioni? Quello dei brutti ricordi d’infanzia?

Si tratta di un sentimento talmente normalizzato che non ci chiediamo mai quale sia la sua vera essenza.

Dominazione bestiale in assenza di leggi, comportamento umano, istinto spontaneo, كبت (repressione) in arabo. Le definizioni sono numerose ma tendono ad avere un punto in comune: la violenza è spesso e volentieri associata all’aspetto puramente fisico, che ci fa dimenticare la potenza della violenza simbolica, tanto impercettibile quanto possente.

La lotta dei gilets jaunes in Francia ha sollevato la questione dell’identificazione della violenza e della sua interpretazione. Che cos’è un cassonetto bruciato e qualche giorno di caos urbano rispetto ad un’intera fetta di popolazione che ha difficoltà ad arrivare a fine mese? Questa è la rivendicazione che ho letto sui volti dei manifestanti urlanti. Nel frattempo, alle mie orecchie arrivano i commenti di alcuni coetanei francesi: “Sono d’accordo con loro, ma stanno bloccando una città intera con una violenza inaudita”. E di tutte le banalità che riempivano i media del mondo intero, è stato proprio l’elemento inaudito ad aver preso per mano la mia attenzione per portarla in un campo di interrogativi. Quale violenza tocca indirettamente queste persone? E come è percepita?

«C’era l’emergere di un tipo di corpo che non vediamo mai e di parole che non sentiamo mai» ha commentato al New Yorker (https://www.newyorker.com/news/news-desk/to-exist-in-the-eyes-of-others-an-interview-with-the-novelist-edouard-louis-on-the-gilets-jaunes-movement) il giovane scrittore francese Edouard Louis a proposito delle manifestazioni nell’Esagono e dei loro protagonisti: una classe sociale improvvisamente in lotta contro il “presidente Rothschild”. Si tratta degli stessi corpi la cui sopravvivenza è sottovalutata dallo Stato per quanto riguarda le riforme popolari, ma la cui immagine non ha tardato a comparire sugli schermi televisivi di fianco alla parola violenza. Corpi che difficilmente attirano la nostra attenzione in modo positivo, perché le loro apparizioni mediatiche sono spesso affette da connotazioni negative.

D’altronde, come negare l’evidenza? Nel mio immaginario la violenza è indissolubilmente legata alla presenza dei cinque sensi: la vista del sangue, l’odore della paura, la sensazione dell’urto, il suono delle grida, la bocca asciutta. Come posso capire la violenza simbolica esercitata da una classe sociale a scapito di un’altra se non provo a mettermi nei loro panni? Come riconoscere la violenza di classe, basata sulla differenza di ricchezza?

Paradossalmente, ho dovuto ritrovarmi in Marocco per capirne la vera e propria portata. Mentre osservavo divertito un addetto ai parcheggi, riconoscibile dal suo gilet jaune, mi sono chiesto quale fosse l’impatto del colonialismo francese sulla società marocchina d’oggi. Una domanda è sorta spontanea: è possibile esercitare della violenza senza contatto fisico e a oltre sessant’anni di distanza?

La risposta (o piuttosto, altre domande) nel prossimo episodio.

Politica

« Che cos’è per te la politica? ».

Ecco la domanda che mi è stata posta qualche mese fa da una giornalista de La Guida, davanti ad un caffè infreddolito e geloso di una conversazione troppo interessante per i suoi gusti.

Il binomio giovani/politica potrebbe suonare quasi come un ossimoro, visto il vecchio panorama politico che compare ogni giorno negli schermi dei nostri televisori. Rottamazione! Rivoluzione! potrebbe ribadire qualche fan sfegatato del cambiamento, contento dell’evoluzione politica dell’ultimo periodo.

Il tranello del nuovo governo è dietro l’angolo, non aspetta altro che un misero giovane come me ci metta il piede dentro per intrappolarlo in qualche considerazione o critica banale. Eppure no, signore e signori, non intendo parlare di ciò. Troppo facile, troppo scontato, troppo politically incorrect. Chissenefrega.

Torniamo alla politica, quella vera. La politica del suo senso originario di “vita della polis”. Ovvero? Occuparsi degli interessi della città, della comunità.

Torniamo a Cuneo, dunque. E al solenne e celeberrimo slogan della città: Tutti vecchi, nulla da fare!. Torniamo ai giovani, non come oggetto di studi e commenti sociologici, ma come protagonisti della città.

D’altronde, oggigiorno quanti dati, quante statistiche, quanti esperti possono dimostrarci senza difficoltà che i giovani sono sempre meno interessati alla politica, al mondo dell’associazionismo, ai movimenti studenteschi e ai cortei di massa. Eppure, nelle molteplici spiegazioni del Perché? manca spesso un elemento fondamentale: la voce dei giovani stessi.

Come formiche al bordo di un marciapiede, ci sentiamo troppo spesso osservati da una distanza troppo grande per favorire un dialogo costruttivo e partecipativo. Da questa distanza nasce l’esigenza crescente del XXI secolo di sottolineare l’identità di “giovane” in contrasto con gli altri gruppi sociali.

Ma cosa contraddistingue davvero un giovane da un adulto? La mancanza di raziocinio e l’istinto trasgressivo forse? Forse. Direi piuttosto: il tempo e la voglia di fare.

Da questi due elementi nasce un’idea dell’amministrazione comunale: il Cantiere Giovani. Un titolo che non è lasciato al caso, alludendo ad una precisa connotazione: la costruzione, sicuramente grezza ed immatura agli inizi (come si addice ad un vero e proprio cantiere), che punta alla realizzazione di un progetto concreto.

Quale sarà dunque l’obiettivo di questo Cantiere? In occasione della presentazione di venerdì 8 giugno, davanti ad una folla gremita di studenti e non solo, il giovane consigliere Simone Priola ne ha indicato uno in particolare: la partecipazione diretta e da protagonista dei giovani.

L’aiuto di professionisti della progettazione e l’opportunità dell’alternanza scuola-lavoro non saranno altro che lo sfondo di un’occasione per riunire giovani da contesti e scuole differenti. Partire dalle diversità per aprire al dialogo e al confronto sui bisogni della città. Non è forse da questo che dovrebbe nascere ogni forma di politica?

Chi lo sa, magari sarà proprio la voglia e il tempo di questi giovani a risvegliare la creatività fondamentale per la riqualifica di qualche luogo abbandonato, ma dal grande potenziale, che si nasconde nei meandri di Cuneo.

(Ex-centro sociale Kerosene, questo occhiolino è per te!)

Slow journalism: maneggiare con cautela

Tecnologia, internet, data, social networks… In una parola: era digitale. Senza troppe domande, spesso senza consapevolezza, la stiamo vivendo tutti. Ma rischia di sfuggirci l’elemento che rende tutto ciò così maledettamente affascinante e pratico: la velocità.

Come un granello di sabbia che scappa veloce tra le nostre mani, la possibilità di connetterci con il mondo intero è una carezza sfuggevole che ci incanta e ci incatena per ore e ora davanti ad uno schermo. Con un semplice click abbandoniamo il mondo reale e ci facciamo travolgere da un’ondata di informazioni e possibilità, che danno forma e forza a quei miliardi di granelli di sabbia. Vi ricordate quando da bambini aggiungevate un po’ d’acqua per compattare il castello fatto con le vostre mani? Ecco, la sorprendente capacità del web è quella di dare una forma ai granelli di idee, trovare una sicurezza universale tra gli enigmi di notti insonni o anche solo una compagnia virtuale, per non sentirci soli. Eppure, con disarmante facilità, un semplice secchiello d’acqua può trasformarsi in un’onda gigantesca. E tutto diventa possibile… e pericoloso al tempo stesso.

Un esempio? Il 59% dei link condivisi sui social media non sono in realtà mai stati aperti da coloro che li hanno condivisi. In altre parole: la maggior parte delle persone non leggono le notizie che gettano nell’arena dei social networks. E non si tratta di un’inchiesta di un articolo di cui probabilmente leggereste solo il titolo, ma di una ricerca della Columbia University, in collaborazione con l’Istituto Nazionale Francese. «Siamo più interessati a condividere un articolo piuttosto che a leggerlo», spiega il co-autore dello studio Arnaud Legout. Come mai? «È un tipico riflesso della consumazione moderna di informazioni. Le gente forma la propria opinione su un riassunto, o un riassunto di un riassunto, senza fare lo sforzo di andare nel merito».

In questo contesto nasce l’idea dello Slow Journalism, letteralmente “giornalismo lento”. Fin dal nome, è chiara la netta opposizione alla velocità di informazione che scorre nelle nostre vene e sui nostri dispositivi portatili, sulla scia dei primi movimenti slow, come il celeberrimo Slow Food, che promuove la cucina locale di qualità rispetto ai fast food, o l’innovativo Cittaslow, impegnato a rallentare il ritmo di vita dei cittadini.

Ecco i 14 punti che un sito tedesco ha elaborato nel 2010 come “manifesto” degli slow media:

  1. Contribuiscono alla perennità
  2. Promuovono il “monotasking”
  3. Puntano al perfezionamento
  4. Rendono la qualità palpabile
  5. Incoraggiano i “prosommatori” (consumatori che si avvicinano ai produttori)
  6. Alimentano la discussione
  7. Sono dei social media
  8. Rispettano i loro utilizzatori
  9. Si diffondono per raccomandazione
  10. Sono intemporali
  11. Hanno un’aura
  12. Sono progressisti e non reazionari
  13. Si affidano alla qualità
  14. Cercano la fiducia del lettore.

Perché dedicare attenzione ad un tema del genere? Perché lo slow journalism è stata da sempre, e involontariamente, l’essenza stessa del magazine di 1000miglia. La nostra passione per le storie e un’irrefrenabile curiosità per la realtà e l’umano ci hanno sempre portati ad indagare a fondo e a non fermarci alle notizie convenzionali. Un magazine strettamente slegato dalle frenetiche notizie di attualità, ma pronto ad essere riletto tra cinque anni con lo stesso piacere di oggi.

Nel numero 9 abbiamo affrontato in questa rubrica l’emergenza della mediacrazia, che ha posto il contesto generale per affrontare nelle pagine a venire le sfumature dello slow journalism. Quale miglior modo per iniziare se non una breve storia del giornalismo in Italia? Dopo aver posto queste basi, avrete il piacere di tuffarvi di testa nell’anima dello slow journalism. Una tappa necessaria per capire l’importanza di un’informazione corretta nell’analisi del mondo attuale, come confermano i collaboratori dell’associazione Apice, pronti a darvi un assaggio dell’importanza dei media nel contesto europeo. Che aspettate?  Leggete, ma con calma.

**Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf

 

 

 

Giovinezza

70 anni. Può essere l’inizio della vecchiaia?

Per la maggior parte delle persone le due cose coincidono. E per un pezzo di carta?

Suvvia, direbbero i più pignoli, ridurla ad un pezzo di carta sarebbe un insulto ad una così veneranda età.

Signore e signori, oltre a quello del nipotino o del cugino di secondo grado o della vicina di casa, preparatevi a dimenticare un altro compleanno in questo 2018: quello della Costituzione della Repubblica Italiana.

Come posso esserne certo? Perché il giorno ufficiale dell’entrata in vigore era il 1 gennaio, data coronata da una scarsa attenzione mediatica preceduta per importanza dai divieti sui botti di capodanno.

Ebbene sì, la “Costituzione più bella del mondo” (quasi approvato a slogan ufficiale del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016) tocca la rispettabile età di 70 anni. E con essa, anche i principi e i valori di pace e giustizia del dopoguerra, frutti di un compromesso tra partiti durato più di nove mesi.

« A thing of beauty is a joy forever » commenterebbe John Keats, fosse ancora in vita. E la nostra cara Costituzione, è ancora in vita? Dopo l’improvvisa attenzione dell’opinione pubblica causata dalla campagna referendaria, tutti si sono soffermati almeno un momento per esprimere un giudizio sul testo fondatore della nostra Repubblica, per poi tornare alle imprecazioni su Facebook e agli insulti ai politici.

Ahimé, come un utensile datato perde il proprio fascino nell’era della modernità, la Costituzione viene immediatamente bollata come una lettura del tutto improbabile per i giovani d’oggi. Eppure, scavando anche “solo” nei 12 Principi Fondamentali, si potrebbero scoprire interessanti dettagli lessicali, che forniscono un’ulteriore chiave di lettura per capire l’identità di un paese intero.

Marino Sinibaldi si è dilettato, in un articolo sul sito web dell’Internazionale (https://www.internazionale.it/opinione/marino-sinibaldi/2018/01/05/costituzione-anniversario-70-anni) a mettere in evidenza due verbi che risaltano in questi primi 12 Principi: rimuovere e promuovere. Entrambi con la volontà di movimento, di rinnovamento, di guardare avanti dopo oltre vent’anni di regime fascista, per esaltare i caratteri comuni della cultura italiana.

Rimuovere:  È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese – Articolo 3.

Promuovere: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica – Articolo 9.

Tuttavia, c’è un verbo dall’apparenza così banale che mi piacerebbe personalmente aggiungere alla lista: riconoscere.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita`, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale – Articolo 2.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto – Articolo 4.

Perché questo verbo? Perché oltre alle accezioni stilistiche e formali in linea con la rigidità e l’eleganza di questo scritto, quali “identificare, individuare” o “distinguere con precisione, conoscere nella sua vera essenza”, compare anche il significato di “accettare come legittimo”.

Accettare, ammettere, riconoscere come valido. Sono tutti verbi che rimandano implicitamente ad un passato scuro di discordie che si è concluso con una pace dolorosa, ma necessaria. Ma allo stesso tempo evidenziano la volontà di ri-conoscere, “conoscere di nuovo”, l’essenza stessa della Repubblica, tra le mille diversità e divisioni culturali e territoriali.

Questo dovrebbe essere il dovere di ognuno in quest’anno che segna un traguardo importante per la Costituzione: rileggerla in chiave attuale, partendo dai principi che possano rinfrescarci la memoria collettiva antifascista. Senza limitarsi a bollarla come “la più bella del mondo”, ma riconoscendo  semplicemente che sia “la più bella per gli italiani”, con la dovuta saggezza ma anche i dovuti limiti di questa vecchiaia…

Identità

Cuneese, italiano, europeo.

Belgo-libanese con residenza negli Emirati Arabi Uniti.

Egiziano di madre tedesca, studente negli Stati Uniti.

Ecuadoregna ma metà italiana, una vita tra sette nazioni.

Le identità affascinano e si nascondono. Come un piccolo gatto di Schroedinger escono dalla loro stanza nei momenti più inaspettati e rivelano aspetti inaspettati (vivo, morto o ?). Come un istinto froidiano approdano nel nostro inconscio e ridisegnano la prospettive.

Al-Ghajar è un paese al confine tra Siria, Libano e Israele.

Siriano, libanese o israeliano? Questa è la domanda che ha forgiato la coscienza dei duemila abitanti nel cuore del Medio Oriente.

1932: gli abitanti di al-Ghajar possono scegliere se diventare libanesi o siriani, scegliendo quest’ultima opzione.

1967: prima dell’occupazione israeliana in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, al-Ghajar è un territorio siriano al limite della valle Hasbany.

1978, al-Ghajar si espande verso Nord, in Libano.

17 aprile 2000: il primo ministro israeliano Ehud Barak, seguendo la sua promessa, annuncia il ritiro delle truppe israeliane dal Sud del Libano. 25 maggio: Tzahal (le forze di difesa israeliane) lasciano il Sud de Libano dopo 22 anni di occupazione, in conformità con la Risoluzione 425 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Sotto l’occupazione israeliana questo piccolo villaggio diviso tra il Libano del Sud e le Alture del Golan era governato dalle stesse autorità, ma non dalle stesse leggi.

Ma, sì c’è un ma in questa storia e non è quello che state pensando (discutere della legittimità dell’occupazione israeliana sarebbe troppo scontato), più di un semplice conflitto diplomatico e legale, al-Ghajar è il teatro di scontri tra identità radicalmente diverse.

Siriano, libanese o israeliano? Siriano, libanese e israeliano allo stesso tempo, questa è la risposta che potrebbe calmare gli animi.

Ciò che rende la loro vicenda così curiosa non è lo scenario di guerra e diplomazia internazionale, ma il fatto che essi siano alawiti in una zona circondata da villaggi per la maggior parte sunniti, drusi e cristiani.

E sono proprio loro stessi a chiedere di essere annessi ai territori occupati piuttosto che al Libano dopo le tensioni del 1967, affinchè potessero difendere la loro identità siriana come gli altri territori del Golan sotto il controllo israeliano.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: cos’è un’identità? Se guardiamo da vicino questo termine, scopriamo che è una nozione polisemica che racchiude i temi della similitudine, dell’unità, dell’identità personale, dell’identità culturale e della tendenza all’identificazione.

«I confini sulle carte incoraggiano questi sentimenti d’identità» afferma a proposito John Agnew. Ma, cosa si nasconde dell’inconscio degli abitanti di al-Ghajar? Come possono interpretare un’identità che non ha nome, né patria?

«È proprio questo che caratterizza l’identità di ognuno: complessa, unica, insostituibile, non si confonde con nessun’altra» afferma Amin Maalouf nel suo capolavoro del 1998 Identità Omicide (dal titolo originale Les identités meutrières). «Spesso è il nostro sguardo a imprigionare gli altri nelle loro strette origini, ed è sempre il nostro sguardo a poterli liberare» continua l’autore libanese.

Il XXI mette in scena il ritorno (o la definitiva non-scomparsa?) dei sentimenti nazionalisti, intenti a difendere la loro identità dalla paura dello straniero. Dove poseremo allora il nostro sguardo? Sulle cartine politiche di secoli passati o sui fenomeni di integrazione che abbattono le frontiere culturali?

Potremmo accorgerci che il ruolo dell’identità è più complesso di un semplice discorso populista e che i nostri sentimenti di appartenenza coincidono con un territorio a cui siamo legati. E come coniugare le nostre identità con i diritti e i doveri del territorio a cui apparteniamo per un momento? Le migrazioni non si fermeranno con un muro o un accordo illegale con un paese come la Libia. L’integrazione sarà un processo inevitabile per evitare altri conflitti.

Per questo l’Italia ha deciso di fare un primo passo verso una comprensione civile e politica delle identità dei cittadini che popolano il suo suolo, riconoscendo ai propri cittadini i loro diritti con lo Ius soli…

Ah già.

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