Quei bambini prematuri salvati da un pit stop

1 secondo e 82 centesimi. Tanto è servito ai meccanici della Red Bull Racing, domenica 17 novembre nel corso del Gp del Brasile, per sollevare la vettura del pilota Max Verstappen e cambiarle gli pneumatici (qui le immagini:

). Un record che ha migliorato di sei centesimi il precedente primato, stabilito sempre da Red Bull e Verstappen, lo scorso anno.

Sapete quanto durava una sosta ai box nella Formula Uno degli anni ’50?

Agli albori delle monoposto, il pit stop aveva una durata media superiore al minuto. Qualche documento filmato del tempo mostra, addirittura, Juan Manuel Fangio, uno dei più grandi piloti della storia, scendere dalla sua vettura per dare una mano tra viti e bulloni ai suoi meccanici, così da ridurre il tempo impiegato nelle varie attività.

Insomma, nel corso di sessant’anni l’ingegno umano ha ridotto di sessanta volte la durata di un’azione che già sembrava difficile migliorare alle origini (provate voi a cambiare quattro gomme ed a rifornire la vostra auto in poco più di un minuto!).

“Ah, la tecnologia. Con la tecnologia si può fare tutto”.

Scommetto che questo è stato il vostro primo pensiero dopo aver letto queste poche righe. E invece no. L’unica “tecnologia” che ha permesso questa riduzione (al di là ovviamente dei miglioramenti della meccanica, che non avrebbero però potuto produrre risultati così netti) è innata in noi sin dalla nascita: l’organizzazione. «L’uomo è un animale sociale», scriveva Aristotele nel suo Politica già nel IV secolo a.c., ed essendo tale si organizza, si definisce attraverso un ruolo nel gruppo e sommandosi agli altri individui ottiene dei risultati.

Chissà se a questo pensarono i dirigenti dello University Hospital of Wales quando nel 2016, al limite della disperazione per i dati preoccupanti che stavano emergendo sulle morti di neonati prematuri nelle loro strutture, scelsero di affidarsi alla Williams. Sì, una scuderia di Formula Uno e non era la prima volta. Già qualche anno prima il Dr. Goldman ed il Dr. Elliot del Great Ormond Street Hospital for Children, nel Regno Unito, avevano seguito vere e proprie “lezioni private” nel quartier generale della Ferrari a Maranello. Con quale obiettivo? Riconosciuta la presenza di errori da parte del personale dell’Unità di Terapia Intensiva dovuti alla pressione ed alla confusione del momento, volevano valutare se e come fosse possibile organizzare al meglio l’attività di intervento per migliorarla.

Le consulenze delle scuderie hanno evidenziato elementi di correlazione incredibili e soprattutto hanno messo in luce tutti i limiti del personale ospedaliero: caos, strumentazione non collocata nel punto corretto della sala, infermieri e chirurghi che si intralciavano nello svolgimento delle loro azioni. Lì, dunque, si doveva lavorare, proprio nel nome dell’organizzazione, anche per ridurre stress e pressione dei medici (sempre secondo i dati raccolti dalla Red Bull Racing, le pulsazioni al minuto di un meccanico durante un pit stop raddoppiano rispetto alle 60-100 a riposo).

Ecco perché, di lì a poco, il sistema ospedaliero per le azioni d’urgenza in Galles è completamente cambiato, attraverso l’introduzione di correttivi apparentemente banali: trolley per il kit più piccoli e snelli, una divisione a priori degli spazi sul pavimento in cui ogni elemento della squadra (15-20 persone) può agire e, soprattutto, tanti nuovi segnali manuali, in sostituzione del dialogo diretto. Organizzazione, rapidità, silenzio.

I risultati? Impressionanti. I due medici citati in precedenza presentarono dei numeri clamorosi: gli errori prodotti con il nuovo metodo erano calati del 42% (dato prodotto su circa 30 interventi), rispetto a quelli causati dal vecchio.

Una vera e propria svolta, che ha generato, come conseguenza indiretta, la riduzione del numero di decessi in quel reparto. E voi, pensate di poter organizzare la vostra vita come un pit stop per ottimizzare le vostre attività quotidiane?

Provate a vedere, intanto, che cosa si può fare nel tempo di una “sosta ai box”, con attori Verstappen e Ricciardo…

(spoiler: quasi nulla).

https://www.redbull.com/it-it/pit-stop-record-cosa-si-pu%C3%B2-fare-nello-stesso-tempo

 

Di Enes, la Turchia e di altre storie d’amore

Bentornati. Bentornati nella rubrica che parla (o almeno ambisce a farlo) di sport in un’ottica diversa: meno “atletica”, più sociale e storica.

Per darvi il benvenuto, chi vi scrive ha pensato di affidarsi a quel sentimento che più si concilia con i graditi ritorni: l’amore. Ci perdonerete, però, se non sarà un amore fatto di baci, abbracci ed esseri umani con esseri umani.

L’amore di cui vogliamo parlarvi va oltre: è quello per la libertà e per la propria terra, di cui il magnifico mondo dello sport è pieno zeppo, sin dalle sue origini più remote.

Non ci credete? Pensate alla maratona, la più antica tra le specialità olimpiche. Nasce dalla leggenda di Filippide, l’ateniese che nel 490 a.c. corse l’intera distanza che separa Maratona da Atene trascinato dalla foga, per giungere in città ed annunciare ai suoi “nike”, ovvero vittoria contro i Persiani, prima di morire.

Ma di simil-Filippide dello sport è quasi piena la nostra era moderna, disposti a tutto, forse anche a morire, pur di difendere la libertà e la nazione in cui sono nati. L’ultimo caso è giusto sotto il nostro naso, nascosto dalla luce abbagliante dei riflettori della NBA, il più importante campionato cestistico al mondo, e dalla distanza “ideale” che ancora per troppo tempo ci ha separato da quel mondo non troppo lontano da noi che si chiama Turchia.

Stiamo parlando di Enes Kanter, la cui descrizione “mediatica” sostanzialmente recita così: colosso turco di 211 centimetri per 111 chilogrammi, entrato in NBA già a diciannove anni (nel 2011) ed oggi pluri-milionario giocatore dei Boston Celtics, una delle più note franchigie americane.

Bene, ora estraniamoci un attimo dal nostro mondo fatto di soldi, notorietà e social network. Chi è Kanter? È semplicemente Enes, un ragazzo di ventisei anni (insomma, un nostro coetaneo) che ha sfruttato il suo più grande talento per fare ciò che amava: spedire un pallone a spicchi dentro un canestro metallico sorretto da un tabellone in plexiglass.

La seconda parte della storia di questo ragazzone, però, è ai limiti del drammatico. Nel 2016 Enes decide di iniziare a correre per la propria nazione, proprio come Filippide, ma con i mezzi che ha a disposizione: il 17 luglio, dopo il fallito golpe militare, denuncia pubblicamente Erdogan e da lì la sua vita cambia per sempre. Nel giro di tre anni perde tutto: il padre, a cui la Turchia revoca il passaporto quasi subito, lo rinnega pubblicamente per riconciliarsi con l’opinione pubblica nazionale, il fratello Kerem, anche lui cestista, viene abbandonato dalla federazione turca e si rifugia a Badalona dove gioca oggi, la famiglia è perquisita a più riprese.

Enes, intanto, perde tutto ciò che può perdere un cittadino: prima l’amore dei concittadini, quindi il passaporto e la serenità, dovendo rinunciare a più trasferte in Europa per il timore di essere ucciso dalle spie del proprio Paese. In Turchia, oggi, Kanter è trattato come un falso idolo nell’Antico Testamento: da tre anni le sue partite non vengono trasmesse in tv e chi ha osato votarlo per l’All Star Game o tenere un suo poster in casa o ufficio è stato perquisito, minacciato e persino arrestato.

Oggi Enes, Enes il milionario, è questo. Ma lui non molla: “(Erdogan è) un megalomane, soffocatore della democrazia, l’Hitler del 21esimo secolo. (…) Il mio obiettivo è essere la voce per tutte quelle persone innocenti che non ne hanno una”.

La sua corsa non è finita e ci auguriamo che duri ancora a lungo. Così come speriamo possa avere pace Hakan Sukur, quarantotto anni, ex capitano della nazionale turca di calcio nel momento più alto della sua storia: quando nel 2002 giunse terza al Mondiale, commuovendo il mondo con una bellissima festa finale insieme alla Corea del Sud, appena sconfitta.

Quando giocò per l’Inter non esitò a scegliere il numero di maglia 54: era la sigla della targa della sua città, Adapazari. La sua nazione riassunta in un numero, così come le sue origini. Ma ora la sua terra gli ha voltato le spalle: negli ultimi anni ha detto no alla “dittatura” di Erdogan ed ha perso tutto. Oggi è vittima di un mandato di cattura internazionale come oppositore politico ed è lontano proprio dalla sua amata Turchia, senza nulla, perché tutto gli è stato sequestrato.

“La mia è una lotta per la giustizia, per la democrazia, per la libertà e per la dignità umana. Non mi importa di quello che posso perdere se a vincere è l’umanità” – ha scritto su twitter.

Da Hakan ed Enes il nostro augurio che la ripartenza di questa rubrica possa anche coincidere idealmente con il ritorno alla pace ed ai diritti in una terra tanto bella quanto dannatamente instabile.

La nuova via della seta nel pallone

Nei giorni scorsi ha fatto scalpore il viaggio istituzionale in Italia di Xi Jinping, dal 2013 (e verosimilmente a vita) presidente della Repubblica Popolare Cinese.

Sessantasei anni, espressione di un’ideologia politica moderata rispetto a quella più marcatamente di stampo comunista tipica della Cina, Xi, da quando è al potere, ha messo nel mirino un unico obiettivo: dare al macro-Stato asiatico un ruolo centrale nell’economia internazionale, attraverso accordi strategici che potessero stimolare investimenti significativi. Si spiega così la Belt and Road o “Nuova via della seta”, ovvero la creazione di una rete di accordi commerciali con i Paesi del continente asiatico e con quegli Stati europei che guardano al Mediterraneo.

Tra cui, appunto, l’Italia, che in pompa magna a fine marzo ha presentato al Mondo questo nuovo accordo commerciale. Uno scambio di tecnologie, prodotti e competenze apparso ai più come impari, perché fortemente a vantaggio della Cina e delle sue mire espansionistiche da un punto di vista economico.

Eppure c’è un settore in cui, per assurdo, sarà l’Italia a fare la voce grossa, tra export e diffusione di competenze di prim’ordine: il calcio.

Già, perché tra i tanti accordi “stimolati” dal memorandum tra i due Paesi non si parla solo di aziende, commercio, turismo e delle famose arance esportate dal Belpaese alla potenza asiatica, che ne è già il terzo produttore mondiale. C’è anche il nostro tanto amato pallone, che ha potuto soddisfare per inverso le sue mire espansionistiche verso un mercato che conta miliardi di persone.

Ma cosa prevede l’accordo?

In primis, l’esportazione di competenze. L’Italia fornirà alla Cina un team di figure specializzate in molti settori, per consentire al partner asiatico di crescere, anche a livello di risultati. Probabile, quindi, un’emigrazione di cervelli, tra tecnici, istruttori, preparatori e chi più ne ha più ne metta.

Quindi, l’esportazione della nostra massima innovazione degli ultimi anni: il Var. Il Video Assistant Referee, tanto bistrattato, sta lentamente diventando qualcosa di fortemente invidiato nel mondo, soprattutto in quella Cina che ha talmente carenza di arbitri di livello da averne “importati” per le gare più importanti del campionato.

Infine, la speranza di poter aprire un mercato solido per le nostre squadre e la nostra nazionale in Cina. Verosimilmente si disputeranno in Cina amichevoli tra la nazionale asiatica e quella azzurra, ma il grande sogno è quello di poter far disputare un match della Serie A italiana in Asia. Fantascienza? Un simile tentativo di qualche mese fa in Spagna (Barcellona-Girona a Miami) è stato bocciato dall’ “Europa del pallone” perché ogni campionato deve essere disputato sul suolo di appartenenza. Staremo a vedere, con il rischio di creare ancora una volta frizioni (questa volta “simpatiche”) tra le istituzioni europee ed i nostri governanti (del pallone).

Quel che è certo, è che il nostro calcio piace nel mondo, soprattutto a chi, come la Cina, vuole provare a raggiungere le vette anche in questo sport. Come questa rubrica ricorda nel suo motto, un giorno Winston Churchill disse: “Mi piacciono gli italiani: vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra.” Per una volta, forse, (per il calcio) potremmo averci azzeccato.

Stefania Belmondo aveva un sogno: cantare l’inno di Mameli alle Olimpiadi

Ci sono persone e nomi che si legano inscindibilmente ad una terra, la rendono nota nel mondo e anche quando il vento non è più in poppa come un tempo perché i successi sono lontani, da questa terra vengono cullati e celebrati ogni giorno.

Per la provincia di Cuneo, una di questi è Stefania Belmondo, la nostra ragazza venuta dai monti della Valle Stura e diventata una delle più grandi atlete della storia sportiva italiana, forse la più grande sciatrice in assoluto. Quella che ancora adesso fa battere i cuori. Quella della quale ti ricordi ancora ogni impresa, percependo le sensazioni di quel momento e avendo chiaro in mente il luogo in cui eri quando l’ultimo sci tagliò il traguardo.

Stefania ha provato a raccontarci che cosa sono stati quei quasi vent’anni di carriera e come li ha elaborati nei venti successivi, dall’anno del ritiro, il 2002, ad oggi.

Partiamo da qui, da oggi. Stefania, ti sono bastati diciassette anni per capire quello che hai fatto per la nostra provincia e per la città di Cuneo, che fino a poco tempo fa portava ancora i segni del tifo fatto per te, con scritte indelebili sui muri del paese?
“Devo ammettere che colgo di aver fatto qualcosa di importante perché ancora adesso vengo chiamata da tante scuole a parlare, cosa che mi riempie d’orgoglio. È l’indizio che si è lasciato un segno. Devo dire, però, che per me fu la normalità. Sono nata e cresciuta in una famiglia semplice ed umile, per cui anche dopo vittorie di alto livello non è che la mia vita sia cambiata tanto: vivevo per lo sport, ma è stato tutto quotidianità, allenamenti e vittorie”.

Eppure Cuneo, per molti l’emblema dello spirito “bugianen”, per te si è emozionata come non mai, sfiorando le lacrime…
“Forse proprio perché da noi ci sono stati meno sportivi di altissimo livello, sentire in televisione il mio nome e quello della provincia di Cuneo rappresentava un’occasione di vanto da celebrare. Devo ammettere che però ancora oggi mi commuovo quando alcune persone che mi incontrano mi ringraziano per quanto fatto e, nel farlo, hanno le lacrime agli occhi”.

La tua carriera in due medaglie d’oro olimpiche: quella di Albertville nel 1992 e quella di Salt Lake City nel 2002. Qual è la più bella?
“Impossibile scegliere. La prima è stata magnifica, perché la prima di un’italiana ad un’Olimpiade: fu qualcosa di pazzesco. C’erano due pullman dalla mia valle e ricordo ancora i momenti bellissimi vissuti con i miei compaesani. Nella seconda, invece, non dico che non credevo, ma fu qualcosa di surreale. A rendere il tutto più epico fu la rottura del bastoncino, che sembrava avermi tagliato fuori dai giochi. Addirittura, al mio paese i tifosi del fan club avevano spento la televisione e battevano i pugni sul tavolo, convinti che tutto fosse finito. Poi, quasi per caso, hanno riattaccato per assistere al mio ultimo trionfo. Sapete cosa mi lascia più soddisfazione? Larisa Lazutina, seconda classificata, che sconfissi nella volata finale, fu poi squalificata per doping, a testimonianza del fatto che a volte la voglia supera anche le scorrettezze”.

Ecco, appunto, l’uso di sostanze illecite. Quanto possono danneggiare un atleta che vive lo sport correttamente?
“Tantissimo. A livello sportivo, di immagine e anche e soprattutto da un punto di vista meramente economico. Ridevo qualche giorno fa con Elisa Rigaudo, che ha recentemente ottenuto la medaglia d’argento ai Mondiali di Daegu 2011 dopo la squalifica di una seconda atleta che l’aveva preceduta al tempo al traguardo: tantissime delle sciatrici che mi sconfissero in quegli anni, di fatto tutte russe, furono poi trovate positive ai controlli antidoping. Insomma, chissà quante medaglie ho lasciato per la strada per fattori che non potevo controllare!”.

La rivale più forte?
“Yelena Valbe, senza dubbio. Anche lei russa, ma di una forza spropositata senza “aiutini”. Quante volte abbiamo lottato per la Coppa del Mondo! Ancora adesso ci sentiamo e insieme dialoghiamo su tutti questi casi di doping che emergono nel suo Paese”.

Chiudiamo con la ricetta di Stefania: come si diventa campioni?
“Non servono medaglie per essere campioni, ma tutto sta nel sentirsi realizzati. Ai giovani dico: ricordatevi sempre che qualunque sia il vostro obiettivo dovete impegnarvi e dare il massimo. Io, poi, ho sempre aggiunto i sogni: per anni ho sognato di cantare l’inno italiano dopo una vittoria olimpica, poi ho iniziato a lavorare concretamente per raggiungere quel desiderio e solo dopo ce l’ho fatta. Sono i sogni il vero carburante delle nostre azioni”.

Volete avere i brividi? Guardatevi queste immagini.

 

Tokyo, il giornalismo e le biciclette: la vita “normale” di Elisa Balsamo

Fermi tutti, abbiamo una medaglia d’oro mondiale. Ci perdoneranno i lettori se per un mese non approfondiamo temi particolari, tornando alla nostra amata Cuneo: una ragazza come noi è arrivata davanti a tutti nel ciclismo!

Già, perché appena qualche giorno fa, lo scorso 25 gennaio, dall’altra parte dell’emisfero, in quel di Hong Kong, Elisa Balsamo, peveragnese classe 1998, ha vinto la medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre di Coppa del Mondo, in uno dei quartetti italiani più forti di sempre nelle due ruote indoor, con Marta Cavalli, Martina Alzini e Letizia Paternoster.

Un’emozione grande, indescrivibile come tutte le prime volte, che lei stessa ci racconta: “Sicuramente è stato qualcosa di indimenticabile. È stata la mia prima vittoria in Coppa del Mondo, arricchita dal record italiano nell’inseguimento a squadre, che non è cosa da poco! Dopo la mia partecipazione a cinque prove di Coppa del Mondo di questa stagione, finalmente, dopo una medaglia d’argento e tre di bronzo è arrivata anche la più bella e scintillante di tutte. Non voglio dimenticare, però, anche il bronzo nella gara Madison, in coppia con Maria Giulia Confalonieri”.

Un trionfo dorato, quindi, ma Elisa non ha solo le due ruote per la testa, nonostante una passione “di famiglia”, portata avanti in primis da papà Sergio: “Sono iscritta all’Università alla Facoltà di Lettere. Devo ammettere che non è facilissimo riuscire a coniugare il tutto: proprio in questi giorni, ad esempio, ci sarebbero le sessioni d’esame ma essendo fisicamente spesso dall’altra parte del Mondo non riesco a sostenere gli esami. Lo studio, però, mi piace davvero tanto e voglio continuare a portare avanti entrambe le cose, anche per realizzare il mio sogno: diventare una giornalista”.

Lo studio come obiettivo, ma sono i pedali ad essere sempre sfruttati al massimo: “Gli allenamenti sono praticamente quotidiani, ma ci sono tante differenze nella fatica: dipende dalla fase della stagione e dal tipo di seduta, in bici, in palestra o in pista. Invece, per quanto riguarda essere in giro per il mondo, ultimamente lo sono stata davvero molto, ma sono contenta di questa vita in continuo spostamento, perché so che mi porta tante soddisfazioni”.

Soddisfazioni che nascono da ambizioni e sogni nel cassetto: “A breve termine spero di preparare al meglio il Mondiale, poi a metà febbraio ci saranno le preselezioni in vista dei Campionati del Mondo, che non voglio sbagliare. Il mio sogno nel cassetto? Partecipare ai Giochi Olimpici. Sto lavorando per quello e si sta creando un gruppo che mira ad un’unica destinazione: Tokyo 2020”.

Un’ambizione a cinque cerchi e tanta voglia di emergere ancora, senza dimenticare il desiderio di poter diventare una giornalista. Una vita a tutto tondo e intanto… la valigia è già pronta per la Sicilia dove si preparerà il Mondiale sull’Etna in questi giorni!

In foto: Elisa Balsamo (destra) con Marta Cavalli (sinistra) – Fonte: Facebook, pagina Valcar Cylance Cycling (squadra di Elisa)

Cosa non va (veramente) bene di una finale di Supercoppa Italiana in Arabia Saudita

Lo sport fa spesso storia, non ci si è mai stancati di dirlo all’interno di questa rubrica. Talvolta impiega anni a costruirla, talaltra la genera con un atto, in un istante, e ci si rende subito conto di esserne al cospetto.

Contribuì a farla, ad esempio, lo scorso giugno, quando alle donne iraniane fu permesso per la prima volta di entrare all’interno di uno stadio per assistere al match dei Mondiali in Russia contro la Spagna. Ne fu parte integrante anche nel 2012, quando alle Olimpiadi di Londra due donne saudite parteciparono, seppur da comparse, alle gare di alcune discipline a cinque cerchi.

Ora proprio l’Arabia Saudita e le donne sono al centro del dibattito, nazionale e non, che vede coinvolte Juventus, Milan e la decisione da parte della Lega Serie A di far disputare la finale di Supercoppa Italiana il prossimo 16 gennaio a Jeddah, proprio nel Paese principe del mondo saudita, dove le donne potranno accedere allo stadio solo in un settore a loro dedicato e chiamato, quasi per celarne il vero contenuto umano, families. Mentre scrivo queste righe, secondo il tool analitico hashtag.org, su Twitter si viaggia al ritmo di 1.500 tweet all’ora sul tema (#SupercoppaItaliana).

Si è detto, si è scritto. Ma la verità qual è? La verità non c’è, come sempre, ma si può ragionare sugli elementi in discussione per poter prendere una posizione sensata.

C’è in primis un Paese di cui molto si pensa di sapere ma non tutto verosimilmente si sa. L’Arabia Saudita è per definizione un regime islamico fondamentalista. Il re è Salman bin Abd al-Aziz, ma il nome forte è quello di suo figlio e principe ereditario Mohammed bin Salman. Per rendere l’idea del suo peso nella nazione, basti sapere che ad inizio 2019 la corazzata Netflix ha sospeso un episodio in cui lo showman Minhaj lo derideva, per non urtarlo.

Ci sono poi sentenze e ricerche. L’Arabia Saudita è collocata al 138esimo posto su 144 nell’indice stilato nel 2017 sulle pari opportunità. Per Amnesty International, invece, “in Arabia Saudita sono state effettuate diverse esecuzioni di attivisti sciiti e molti altri sono stati condannati a morte al termine di processi gravemente iniqui”.

C’è, o meglio c’era, un giornalista di nome Jamal Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre mentre si trovava ad Istanbul, in un attentato di cui sarebbe “personalmente responsabile” (parole del Senato americano) lo stesso principe ereditario.

C’è poi una religione, l’islam, che nella sua accezione wahhabita porta con sé concetti portanti come quello del wali, il guardiano di famiglia nonché uomo, e di khalwa, l’illecita promiscuità tra uomo e donna. Concetti limati e levigati proprio negli ultimi anni, concedendo aperture al mondo femminile, che per un comune occidentale suonerebbero semmai come chiusure, ma che sono pur sempre dei passi in avanti (accesso al cinema e negli stadi se accompagnate, possibilità di praticare sport e di guidare un’automobile).

Ci sono, poi, cambiando emisfero, due squadre chiamate a scendere in campo, piene zeppe di giocatori professionisti appartenenti ad etnie, culture e tradizioni diverse. Una di queste, per assurdo, viene anche chiamata “Vecchia Signora”, per celebrarne l’eleganza e lo stile, che, così vuole la tradizione, in Italia sono da sempre accostate proprio alle donne.

C’è, infine, un movimento, come quello calcistico italiano, che, seguendo una linea ormai in voga nello sport mondiale, risponde al concetto di business for business, ovvero degli interessi che guidano l’attività finanziaria di un club. Si spiega con i 22,5 milioni di euro promessi proprio da quel principe ereditario e da suo padre alla Federazione la scelta di quest’ultima di far disputare tre delle prossime cinque finali di Supercoppa Italiana proprio là, in Arabia Saudita.

Ecco, questo è già un sufficiente quadro esaustivo. Una storia di distanze religiose, incontri culturali e soldi, tanti soldi.

Ah, no. C’è ancora un elemento.

C’è uno Stato, quello italiano, che, in buona compagnia con gran parte del mondo occidentale (il presidente Usa, ad esempio, smentì le parole del “suo” Senato sopracitate per il caso Khashoggi, in un modo del tutto anomalo), vede in quell’Arabia Saudita un pozzo di soldi. Ancora, maledettamente loro. 3 miliardi di esportazioni all’anno dallo Stivale al Paese del principe ereditario, 1,5 miliardi in armi negli ultimi sette anni. Cifre rispetto alle quali anche quei 22,5 milioni sembrano briciole.

Un tempo si giocò un Mondiale per placare le ire di un popolo (quello delle madri di Plaza de Mayo, in Argentina, nel 1978) e molte Olimpiadi presero piede in Stati nevralgici per gli equilibri diplomatici mondiali per celare interessi di ogni genere. Oggi l’equilibrio tra economia e politica sembra pendere maggiormente dalla parte della prima, ma tutto dipende ancora da quei due fattori. O almeno, questo sembrano suggerirci gli elementi presi in esame.

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