Bentornati. Bentornati nella rubrica che parla (o almeno ambisce a farlo) di sport in un’ottica diversa: meno “atletica”, più sociale e storica.

Per darvi il benvenuto, chi vi scrive ha pensato di affidarsi a quel sentimento che più si concilia con i graditi ritorni: l’amore. Ci perdonerete, però, se non sarà un amore fatto di baci, abbracci ed esseri umani con esseri umani.

L’amore di cui vogliamo parlarvi va oltre: è quello per la libertà e per la propria terra, di cui il magnifico mondo dello sport è pieno zeppo, sin dalle sue origini più remote.

Non ci credete? Pensate alla maratona, la più antica tra le specialità olimpiche. Nasce dalla leggenda di Filippide, l’ateniese che nel 490 a.c. corse l’intera distanza che separa Maratona da Atene trascinato dalla foga, per giungere in città ed annunciare ai suoi “nike”, ovvero vittoria contro i Persiani, prima di morire.

Ma di simil-Filippide dello sport è quasi piena la nostra era moderna, disposti a tutto, forse anche a morire, pur di difendere la libertà e la nazione in cui sono nati. L’ultimo caso è giusto sotto il nostro naso, nascosto dalla luce abbagliante dei riflettori della NBA, il più importante campionato cestistico al mondo, e dalla distanza “ideale” che ancora per troppo tempo ci ha separato da quel mondo non troppo lontano da noi che si chiama Turchia.

Stiamo parlando di Enes Kanter, la cui descrizione “mediatica” sostanzialmente recita così: colosso turco di 211 centimetri per 111 chilogrammi, entrato in NBA già a diciannove anni (nel 2011) ed oggi pluri-milionario giocatore dei Boston Celtics, una delle più note franchigie americane.

Bene, ora estraniamoci un attimo dal nostro mondo fatto di soldi, notorietà e social network. Chi è Kanter? È semplicemente Enes, un ragazzo di ventisei anni (insomma, un nostro coetaneo) che ha sfruttato il suo più grande talento per fare ciò che amava: spedire un pallone a spicchi dentro un canestro metallico sorretto da un tabellone in plexiglass.

La seconda parte della storia di questo ragazzone, però, è ai limiti del drammatico. Nel 2016 Enes decide di iniziare a correre per la propria nazione, proprio come Filippide, ma con i mezzi che ha a disposizione: il 17 luglio, dopo il fallito golpe militare, denuncia pubblicamente Erdogan e da lì la sua vita cambia per sempre. Nel giro di tre anni perde tutto: il padre, a cui la Turchia revoca il passaporto quasi subito, lo rinnega pubblicamente per riconciliarsi con l’opinione pubblica nazionale, il fratello Kerem, anche lui cestista, viene abbandonato dalla federazione turca e si rifugia a Badalona dove gioca oggi, la famiglia è perquisita a più riprese.

Enes, intanto, perde tutto ciò che può perdere un cittadino: prima l’amore dei concittadini, quindi il passaporto e la serenità, dovendo rinunciare a più trasferte in Europa per il timore di essere ucciso dalle spie del proprio Paese. In Turchia, oggi, Kanter è trattato come un falso idolo nell’Antico Testamento: da tre anni le sue partite non vengono trasmesse in tv e chi ha osato votarlo per l’All Star Game o tenere un suo poster in casa o ufficio è stato perquisito, minacciato e persino arrestato.

Oggi Enes, Enes il milionario, è questo. Ma lui non molla: “(Erdogan è) un megalomane, soffocatore della democrazia, l’Hitler del 21esimo secolo. (…) Il mio obiettivo è essere la voce per tutte quelle persone innocenti che non ne hanno una”.

La sua corsa non è finita e ci auguriamo che duri ancora a lungo. Così come speriamo possa avere pace Hakan Sukur, quarantotto anni, ex capitano della nazionale turca di calcio nel momento più alto della sua storia: quando nel 2002 giunse terza al Mondiale, commuovendo il mondo con una bellissima festa finale insieme alla Corea del Sud, appena sconfitta.

Quando giocò per l’Inter non esitò a scegliere il numero di maglia 54: era la sigla della targa della sua città, Adapazari. La sua nazione riassunta in un numero, così come le sue origini. Ma ora la sua terra gli ha voltato le spalle: negli ultimi anni ha detto no alla “dittatura” di Erdogan ed ha perso tutto. Oggi è vittima di un mandato di cattura internazionale come oppositore politico ed è lontano proprio dalla sua amata Turchia, senza nulla, perché tutto gli è stato sequestrato.

“La mia è una lotta per la giustizia, per la democrazia, per la libertà e per la dignità umana. Non mi importa di quello che posso perdere se a vincere è l’umanità” – ha scritto su twitter.

Da Hakan ed Enes il nostro augurio che la ripartenza di questa rubrica possa anche coincidere idealmente con il ritorno alla pace ed ai diritti in una terra tanto bella quanto dannatamente instabile.