Giorgia. Viaggio nel frigo di una non vedente.

Crodini, succo alla pera, bottiglie di Coca-Cola e di tè al limone. Bibite da aperitivo. Li tengo lì di riserva così quando passa qualcuno ho qualcosa da offrire.

Il formaggio, gli affettati e i Crodini li ho comprati io, al resto ha pensato mio papà.
Ho preso questo elenco con leggerezza nel momento in cui Giorgia l’ha pronunciato, perché avevo davanti a me quei prodotti accuratamente riposti nei vari ripiani. Mi sembrava così scontato dire: questo l’ho comprato io, questo invece me l’ha portato mio padre, la minestra nella pentola mia madre. Non ho pensato, lì per lì, che lei stava andando a memoria perché davanti ai suoi occhi aveva soltanto la sagoma di un frigo con, forse, un po’ di luce attorno.

Il frigo è abbastanza vuoto perché sono ancora in un periodo di transizione. Giorgia ha ventotto anni, è non vedente da dieci e vive da sola da circa un anno. Mi confida che ultimamente sta cercando di diventare più autonoma in cucina, ma non è per niente facile. Ecco perché il frigo è vuoto. Succede spesso che mangi con i suoi genitori. Ma la voglia di poter gestire la sua cucina c’è e lo dimostrano gli esperimenti che sta facendo.

Cucino la pasta, sì. Ma il problema non è la pasta in sé, è il passaggio dalla pentola al piatto. Bisogna riuscire a centrarlo. Se sono da sola mi aiuto anche con le dita, toccando il mestolo per capire se c’è ancora pasta dentro, ma so che non è un’abitudine da prendere, soprattutto quando ho ospiti a cena.

Ridiamo. Non ci avevo mai pensato.

Il problema delle bistecche è girarle. Quello delle verdure è pelarle. La difficoltà è che chi ti insegna una ricetta te la spiega come la cucina vedendo quello che fa. E tu quindi devi cercare di immaginarti come la puoi fare tu non vedendo. In questo periodo sto cercando di trovare un modo per riuscire a dividere i cavolfiori in ciuffetti. La prima volta che ho provato è stato un disastro, ho distrutto completamente il cavolfiore, alla fine mi chiedeva pietà. A volte tutto questo è stimolante. Ad esempio non credevo di riuscire a cucinare la pizza, e ce l’ho fatta. Altre volte invece è difficile. Parto io prevenuta oppure i miei genitori, che lo fanno per protezione, ma capita che anche loro abbiano dei pregiudizi e che pensino che alcune cose io non le possa proprio fare, quindi non mi incoraggiano a partire. Ma li capisco. Io stessa ho pianto molto negli anni per alcune piccole sconfitte. Bottiglie o bicchieri rotti preparando la tavola. Una volta dovevo scolare gli spinaci nello scolapasta e li ho rovesciati tutti nel lavandino. Queste sono state sconfitte, non stimoli. Ma poi, pian piano, mi sono fortificata nel tempo.

A otto anni Giorgia torna a casa da scuola e dice alla mamma che, dalla mattina, non vedeva bene. Si era resa conto che per guardare in faccia la sua vicina di banco sulla destra doveva girarsi completamente perché l’occhio destro da solo non bastava. Allora la mamma le chiede di coprirsi l’occhio sinistro con la mano e di dirle che cosa vede soltanto con l’altro. La risposta è secca: Niente.

Iniziano allora una serie di visite in ospedale con diversi medici per scoprire che si tratta di un problema cerebrale che colpisce il nervo ottico causandole la perdita progressiva della vista. All’inizio delle superiori perdevo un decimo al mese. L’ultima volta in cui mi ricordo di aver visto bene è stato durante la gita di terza media. Mi muovevo bene da sola anche di notte. Soltanto qualche mese dopo, all’esame di terza media, ho avuto qualche difficoltà in più e dovevo scrivere più grande per poter rileggere.

All’esame di maturità ero ventesimista cioè vedevo un ventesimo. Il tema l’ho scritto io, con una penna gel e in stampatello, ma l’ho scritto io.

Oggi Giorgia è non vedente, anche se mi spiega che la sua percezione visiva cambia quasi tutti i giorni ed è influenzata da molti fattori come il suo umore, le condizioni metereologiche, la stanchezza… A volte vedo le sagome delle figure o degli oggetti, a volte no, a volte vedo i colori, altre volte no. A proposito di una vacanza in Scozia di quest’estate mi dice: In quei giorni stavo molto bene di umore quindi sono riuscita a vedere meglio, ho percepito le sagome delle case e alcuni colori. Un giorno lei e i suoi amici sono stati a Culton Hill. Quel giorno il cielo era nuvoloso, il classico clima uggioso d’oltremanica, con la pioggerellina sottile ad accompagnare il freddo, e la sua vista non era ottimale, per quanto può essere ottimale, aggiunge. Io pur non vedendo il paesaggio sentivo di avere davanti a me qualcosa di vasto e mi sentivo felice. È un viaggiare diverso ma altrettanto bello. Ho imparato a chiedere e a farmi raccontare quello che avevo davanti.

Facciamo una piccola pausa.

Se c’è da accendere la luce dimmelo.

Mi guardo intorno ma è ancora chiaro. Sono solo le 17.30. Non la accendiamo.

L’idea di rimanere completamente al buio mi fa paura, di non avere proprio più riferimenti, anche se ne ho pochi. I giorni in cui non sono psicologicamente al top anche la vista ne risente e mi fa paura spostarmi.

Mi viene da chiederle: ti sei arrabbiata per aver perso la vista?

Sì forse un pochino sì. Ti chiedi: perché a me? Cos’ho fatto? Però è durato molto poco.

E io non le credo. È impossibile, io sarei tormentata. Penso che forse non lo voglia solo ammettere. Ma poi mi spiega questa cosa.

A volte il vedere ti distrae. Rischi di rimanere nella superficialità delle cose. È bellissimo vedere, potessi vedere vorrei rivedere subito, però se la tecnica o la scienza riuscissero a darmi di nuovo la vista, io cercherei comunque di darle meno importanza. Ci sono verbi che sembrano uguali ma sono diversi. Vedere e guardare. Sentire e ascoltare. Vedere e sentire presuppongono solo un atto fisico, guardare e ascoltare presuppongono di metterci testa e cuore, ed è tutta un’altra cosa. Chi vede dovrebbe cercare di andare un po’ più in là di quello che vede. Io sono obbligata a farlo, vado subito un po’ più in profondità nelle relazioni con le altre persone. Ma è inevitabile. Io ho imparato dal tono della voce a capire uno stato d’animo. È più facile con quelle che conosco però mi si accendono dei campanelli anche con quelle che non conosco molto bene. Il tono della voce mi trasmette molte informazioni. E quindi se a volte tu che vedi ti fai ingannare da un sorriso che maschera una grande tristezza, con il tono della voce non ci caschi. E io sto imparando a soffermarmi di più su queste cose.

Alcuni mi chiedono “Non sarebbe stato meglio non vedere già dalla nascita?” perché, ad esempio, io non ho la sensibilità tattile che hanno i non vedenti da sempre. Però non saprei quali sono i colori e non saprei qual è il mio colore preferito. E quando ero più piccola sono stata a Roma e a Venezia e le ho viste, me le ricordo.

E allora le credo.

QUANDO L’INTEGRAZIONE DIVENTA ARTE La prima serata di Arte Migrante a Cuneo

Cecilia Actis
Intervista a Giorgia Beccaria e Ayoub Moussaid

Venerdì 25 novembre.
Cuneo, come nelle migliori serate autunnali, è coperta da un lenzuolo di nebbia. Si vede poco per la strada, si va con calma.
L’appuntamento è alle 20 alla casa del quartiere Donatello. La serata è quella di “Arte Migrante”.

Arte Migrante è un movimento sociale, che poi non è nient’altro che un gruppo informale di persone, nato a Latina e spostatosi subito dopo a Bologna, dall’idea di un ragazzo che si chiama Tommaso Carturan. Lui, insieme ad altri suoi amici, ha pensato che ci fosse la necessità di creare uno spazio in cui persone che arrivano da diversi contesti sociali e culturali si potessero incontrare, ma in una verità di incontro.
E per fare questo si è pensato di utilizzare l’arte, perché è forse il più grande aggregante che l’umanità conosca. L’idea che sta alla base è che l’arte non appartiene solo agli artisti ma è qualcosa che ogni persona ha dentro di sé, ma non la tira fuori perché non ha uno spazio in cui poterlo fare. Quindi, fare Arte Migrante significa creare uno spazio libero in cui ti senti accolto, puoi esprimere e tirare fuori la tua artisticità.
Due anni fa questo progetto è sbarcato a Torino e da un paio di mesi è arrivato anche a Cuneo.

Io e mia sorella portiamo una torta salata fatta da nostra mamma nel pomeriggio. Volevo portare anche una bevanda ma me ne sono dimenticata. Mi scopro portatrice di un po’ di sano imbarazzo, quello che precede i momenti nuovi, in cui non sai bene dove stai andando ma comunque ci vuoi andare.
Siamo accolti dagli organizzatori, ragazzi cuneesi che hanno iniziato a partecipare ad Arte Migrante a Torino ed hanno deciso di proporlo anche nella nostra cittadina.

Due anni fa a Torino Arte Migrante è iniziato in via Nizza, per strada, nei posti dove c’era una situazione delicata. Veniva fatto per creare un ambiente di condivisone e, semplicemente, per stare assieme. Poi, da un anno, questo gruppo ha deciso di creare un incontro di Arte Migrante fisso, con una data, un orario e un luogo prestabilito. Abbiamo trovato un oratorio disponibile in via Ormea e abbiamo deciso che un venerdì sì e uno no ci saremmo incontrati.
All’inizio eravamo una cinquantina di persone, perché già il gruppo che aveva incominciato a trovarsi in via Nizza era numeroso. Quindi era ancora più facile far sì che il gruppo diventasse più grande. Adesso arriviamo a duecento persone a serata. Nel gruppo Facebook s101iamo più di mille, quindi i duecento non sono sempre gli stessi ma c’è un grande ricambio.
Arte Migrante ora ha un luogo fisso ma quest’estate ci siamo spostati dappertutto in Torino. Abbiamo girato ovunque, da Lingotto al Valentino fino in centro. Ha viaggiato e si è spostato da via Ormea per cercare altri posti in cui ce n’era bisogno. La gente spesso ci invitava nei propri quartieri e noi ci andavamo per far vedere che cos’è arte migrante, per stare tutti insieme. Questo ha aiutato a coinvolgere tantissima gente, ed è una cosa che a Cuneo già stiamo per fare. Il primo incontro l’abbiamo fatto al Donatello ma adesso stiamo pensando di spostarci. Il secondo incontro infatti sarà al San Paolo.

Nel primo salone troneggia una tavola imbandita di cibo: da una parte il salato e dall’altra il dolce. Al centro, nell’angolo che formano due tavolini attaccati, le bibite. Affidiamo la nostra quiche nelle mani degli organizzatori e proseguiamo verso la seconda sala.
Non c’è ancora molta gente. Salutiamo qua e là, ci presentiamo. Al centro della stanza, un gruppo di strumenti cattura la nostra attenzione: cajon, jambè, percussioni, chitarre. La serata inizia a prendere forma.
Mentre le persone continuano ad arrivare, alcuni di noi colorano lo striscione con la scritta “Arte Migrante” con tempere e pennelli.
Quando arriva il gruppo di Torino, la serata può incominciare.
Ci raccogliamo in un cerchio ed occupiamo tutto il salone. Al centro, come protetti, gli strumenti musicali ci osservano.
Scopro più avanti, parlando con gli organizzatori, che il momento del cerchio è un momento fondamentale. È lì che ci si conosce, è lì che ci si guarda tutti in faccia per la prima volta. Quella sera ognuno deve gridare il proprio nome e dar vita a un ritmo con mani, piedi, voce, in qualsiasi modo gli venga in mente. Si crea così una specie di armonia musicale di ritmi diversi. Quando tocca agli ultimi quasi non ci si sente più. È un caos ordinato in cui ognuno ha modo di presentarsi agli altri.
Finite le presentazioni, si torna nel primo salone e si mangia cena. Il cibo viene preparato e portato dai partecipanti per poi essere condiviso con tutti gli altri.
Il momento della cena è quello in cui si fa conoscenza, il clima è positivo e propositivo. I partecipanti sono italiani e non, cuneesi di origine cuneese e cuneesi di origine africana o mediorientale. Ci si conosce, si parlano lingue diverse, inglese, arabo, italiano. In quel momento ci si scopre e ci si riconosce tutti simili. E lo sottolineo perché in realtà non è così scontato. L’integrazione, che poi è l’obiettivo ultimo di Arte Migrante, prevede la conoscenza. E mi stupisce il fatto di non sapere, ad esempio, che cosa fanno il venerdì o il sabato sera i miei coetanei marocchini o egiziani a Cuneo. Invece quella sera eravamo tutti lì, facevamo la stessa cosa, avevamo voglia di scoprirci.
Mi trovo in difficoltà nell’esprimere l’atmosfera che si è creata perché sarebbero parole molto banali. Ma c’era un grande desiderio di incontro vero. Probabilmente perché non si hanno altri spazi in cui poterlo fare.

Solitamente siamo abituati a incontrare le persone che stanno ai margini della società soprattutto nelle istituzioni: a scuola o allo sportello del volontariato. Invece, quello che si vuole creare con Arte Migrante è uno spazio in cui le persone si possono incontrare senza filtri.

La seconda parte della serata si svolge nel salone degli strumenti musicali. Formiamo nuovamente un cerchio, ma questa volta ci sediamo sulle sedie o su alcune coperte stese per terra. È il momento in cui l’arte prende il sopravvento. Durante la cena, un paio di ragazzi passavano tra i presenti con un foglio di carta chiedendo chi voleva prenotare un momento in cui manifestare la propria arte.
E così quel momento arriva. Molti ragazzi africani si esibiscono in pezzi rap in qualche dialetto arabo. Le donne africane presenti, la maggior parte di loro proveniente dalla Nigeria, danza sulle note di canzoni in lingue mai sentite prima. Alcuni leggono delle poesie o dei pezzi di romanzi. Una ragazza legge un pezzo tratto da un libro di Harry Potter. Un ragazzo recita un pezzo di teatro. Poi, un canto piemontese si spande nell’aria. Infine, la serata si chiude con un’esibizione di jambè e percussioni di un gruppo di ragazzi che vive in un centro di accoglienza a Festiona: si fanno chiamare “I Valle Stura”. Ci si butta tutti in mezzo e si balla cercando di tenere quei ritmi così africani, così vivi.
La serata termina intorno alle 23. Ci salutiamo dandoci appuntamento al 23 dicembre e poi all’ultimo venerdì del mese a partire da gennaio.
Un grande punto di forza di Arte Migrante è proprio la sua contagiosità.

A Torino si sta espandendo in mille altre iniziative. Ad esempio, da Arte Migrante è nato un gruppo di teatranti amatoriali che si ritrovano e preparano dei pezzi da recitare durante la serata. Si è formato anche un gruppo di cantanti. Sono nati anche i pomeriggi migranti, grazie a un suggerimento sulla bacheca migrante. Nelle serate in via Ormea c’è infatti una bacheca con due colonne: CERCO e OFFRO. Ognuno può scriverci e lasciare un proprio contatto. Così si fa rete. Molti ragazzi hanno espresso la necessità di incontrarsi anche in momenti diversi dalla serata del venerdì. Così sono nati i pomeriggi migranti, in cui ci si trova a casa di qualcuno di noi, si parla italiano, si gioca, si beve un tè in compagnia. L’idea che c’è dietro è quella di aprire le case e incontrarsi nell’informalità e nella vita di tutti i giorni.

Questo percorso è appena iniziato a Cuneo ma è assolutamente promettente. Molte associazioni presenti nel territorio si sono rese disponibili nell’organizzare la serata. Un’idea per il futuro è quella di organizzare degli incontri di Arte Migrante in tutta la Provincia Granda. Un passo alla volta, ma con grande entusiasmo.
Concludo con le stesse parole con cui si è conclusa la mia chiacchierata con Giorgia e Ayoub, due degli organizzatori della prima serata di Arte Migrante a Cuneo:

Chiunque creda che sia essenziale per una comunità avere degli spazi liberi di espressione e ha voglia di spendersi per crearli è il benvenuto perché Arte Migrante è proprio uno di questi spazi.

Per rimanere aggiornati sui prossimi eventi, cercate su Facebook il gruppo “Arte Migrante Cuneo”.

Alcol e Cacao: tre giorni nella giungla tanzaniana

Matema. Villaggio sul lago Nyasa nel sud della Tanzania. Caldo umido, tantissime zanzare, elettricità che va e viene. Il lago agitato come il mare. Enorme. Le montagne Livingstone a strapiombo sull’acqua. Dalle sue rive alle 6,30 del mattino si snodano i pescatori sulle loro piccole imbarcazioni di tronco d’albero per recuperare le reti piene di pesci. Al posto delle boe, per indicare il punto in cui le hanno lanciate, compaiono piccoli agglomerati di bottiglie di plastica qua e là.

La spiaggia è turistica, il villaggio è africano.
La sera usciamo per cercare un posto dove mangiare. Cellulari quasi scarichi, non c’è stata corrente tutto il giorno. Non c’è illuminazione nel villaggio, ad eccezione di qualche piccolo locale che serve la cena alla luce di una lampadina. Camminiamo nel buio cercando di scorgere i solchi nel terreno per non inciampare.

Nel villaggio le case sono fatte di fango, con lo scheletro in canne di bambù e il tetto di paglia.
Sono sempre un pugno nello stomaco.
Le case di fango.
Le case sono fatte di fango.
Le case sono case di fango.
In genere sono tre o quattro disposte le une di fronte alle altre, con un cortile di terra in mezzo dove giocano i bambini insieme alle galline che corrono libere e ai galli che cantano a tutte le ore. Le mucche sono lasciate a pascolare oppure hanno una corda arrotolata attorno al collo che le tiene legate a qualche albero.
Alle 7 è buio e si va a dormire.

In alcuni locali c’è una televisione. Gli abitanti, come spettatori di un cinema all’aperto, seduti sulle sedie di plastica della Pepsi o della Coca-Cola, si ritrovano a guardare una partita di calcio, i video delle canzoni del momento o qualche film coreano con i sottotitoli in inglese, anche se non lo sanno. Ovviamente con una birra in mano o una bottiglia di Ulanzi, un liquore che si ricava dalla corteccia di un albero. L’odore di alcol permea il villaggio.
Il cibo offerto è riso e fagioli, poche alternative. Un giorno a pranzo troviamo un locale che ci serve un pezzo di manioca fritto. Un’altra sera, incapaci di mangiare altro riso, troviamo una Mama che ci cucina un platano fritto a testa. Mai stata così felice di mangiare una banana a cena.

In qualsiasi momento della giornata, nel centro del villaggio, è pieno di ragazzi sui 20 anni che aspettano che arrivi qualche bianco alla ricerca di una guida. Da solo non ti puoi muovere perché i sentieri non sono tracciati. Vogliamo fare una camminata verso una cascata dentro alla giungla, allora cerchiamo qualcuno che ci possa accompagnare.

È così che conosciamo Mark. Puzza di alcol ma sembra affidabile. Ci chiede poco più di 6 euro a testa per farci fare l’escursione il giorno seguente. Accettiamo. “I am self-employed”. Non ha molte opportunità in questo villaggio, quindi sta cercando di farsi un po’ di esperienza come guida turistica per essere assunto da una agenzia. Parla bene inglese. Ci fa assaggiare il cacao. Non avevo mai visto l’albero del cacao. Ok, non sapevo neanche che fosse un albero. Gli si avvicina, prende un frutto, lo spezza a metà e ci fa prendere un chicco a testa. “Non masticate”. Allora assaporiamo la gelatina attorno al seme vero e proprio, che invece sputiamo. Dolcissimo.

Ci avventuriamo nella giungla con le nostre infradito da spiaggia. Non avevamo messo in conto di fare questa camminata. Alla fine optiamo per procedere scalze. Una tragedia. Ma arriviamo alla cascata, facciamo il bagno nell’acqua gelata che ristagna ai suoi piedi e la fatica svanisce.

In questo preciso momento, a mollo in quest’acqua freddissima, io sono felice. Fuori fa caldo ed io sto facendo il bagno immersa in uno spettacolo della natura. Sono felice ma allo stesso tempo sento il peso della povertà che mi circonda. Non mi struggo, certo, continuo a nuotare. Ma è una sensazione che mi scalfisce e mi modella. Mi sento più consapevole. E questo un po’ mi spaventa. A volte penso che sia sbagliato sentirsi felici in questa Africa costruita nel fango.

Torniamo al villaggio e cerchiamo un posto dove fare pranzo. Mark si siede con noi e, come se fosse sottinteso, si fa pagare il pranzo. Gli diamo i soldi per l’escursione, ci salutiamo e lui torna in centro ad aspettare altri turisti.

Foto di Chiara Ragno

Inediti stralci di vita africana

Inedito.
Inedito nel senso di inimmaginabile ed inimmaginato.

Inedita la zanzariera intorno al letto. La prima cosa del mattino e l’ultima della sera. Sembra di essere su una barca a vela.

Inedito il cielo africano, ancora e ancora, di giorno e di notte.
Il tramonto è veloce. Mezz’ora. Il cielo diventa la tela di un pittore impressionista, con sfumature di colori mai viste o pensate ed accostate in modo sempre nuovo. Poi, silenzioso come è arrivato, sparisce per lasciare posto al blu scuro puntinato di stelle.
In queste sere la luna è piena e luminosissima. Ci sono poche luci di lampione in centro città, ancor meno in collina. Esci di casa per buttare la spazzatura, fai tre passi, alzi lo sguardo ed inizi a girare su te stesso, come in un rituale, solo per provare a cogliere quella bellezza in una volta sola. Ma non ti sazi e continui a girare e a contare nuove stelle e a cercare la luna dietro a qualche nuvola passeggera, in un firmamento che una sera ti sembra vicinissimo, la sera dopo ti sembra troppo lontano per poterti addirittura illuminare.
La luna. È la sola a schiarire il nostro cammino incerto su sentieri sterrati a cui i nostri piedi ed i nostri occhi ancora non sono abituati. Noi, timide erranti in un continente troppo vasto per essere compreso, a inseguire la luna, come i marinai di questa parte di mondo inseguivano la Croce del Sud, come i Re Magi inseguivano la stella cometa. Affascinate, senza oro, incenso o mirra ma con il solo dono dello stupore che conserviamo tutti noi e che in questa terra riesce ancora a manifestarsi con una certa magica insistenza.

Inediti i Sungura ya Pasaka, i coniglietti di Pasqua.
Un sabato mattina qualsiasi al centro nutrizionale dell’associazione Papa Giovanni XXIII. 10 bambini seduti attorno ad un tavolo in religioso silenzio intenti a colorare rotoli di carta igienica finiti, uova sode e cartoncini. Non hanno i colori a tempera a casa, non hanno i pennelli, non hanno i pastelli a cera. Viviamo in un mondo dove i bambini non disegnano o colorano, né a casa né a scuola. Non ha senso spendere dei soldi per comprare questi materiali.
“Che cosa disegni?”
“Una tazza”
“E tu?”
“Una finestra”
“Tu invece stai disegnando una casa! Puoi disegnare anche un animale qui vicino? Tipo un gatto o un leone?”
“No, non riesco. Ma posso disegnare un pollo”

Cento volte tanto. Questa è la sensazione della vita africana. Nel bene e nel male.
Pensi di riuscire a trasmettere un po’ di felicità ai bambini del centro o alle bambine dell’orfanotrofio, ma loro te ne restituiscono cento volte tanto. Pensi di tenerli per mano ma sono loro a tenere per mano te, tu e le tue fragilità, le tue presunzioni sul poter fare del bene, i tuoi sorrisi a volte sinceri a volte sforzati.
Ci sono cose difficili cento volte tanto rispetto a casa. Essere bianchi in Africa a volte è più complicato che bello. Ma per ogni piccolo traguardo raggiunto, ti senti davvero soddisfatto.
Si vive di sensazioni intense. O forse semplicemente inedite, sconosciute. Inimmaginabili ed inimmaginate. C’è bisogno di tempo per capire, come per tutte le cose vere della vita.

Confusione africana: le prime settimane in Tanzania

20 febbraio. Milano Malpensa direzione Dar Es Salaam. La partenza è arrivata, mi butto a vivere il mio sogno. 23 febbraio. Iringa, nel cuore della Tanzania. Questa sarà la mia casa per i prossimi sei mesi. In queste prime settimane tutto è entusiasmante ma ancora nuovo, quindi difficile da capire.

Questi sono solo alcuni momenti di questo mio nuovo pezzo di strada.

Cammina di fianco a me sulla strada che porta al mercato principale di Iringa un uomo che probabilmente vende macheti perché ne ha una decina in equilibrio sulla spalla sinistra.

Saliamo in cinque su un dalla-dalla (pulmino 9 posti) già pieno ma non partiamo fino a che non siamo una trentina. Il concetto di spazio africano è più un concetto di non-spazio.

I soliti due anziani che tornano tutte le sere a casa lungo la strada sterrata che porta al nostro cortile tenendosi per mano. Lei è cieca, lui la sorregge indicandole il cammino.

Dal campo di grano alla nostra destra sbuca un bambino. Poi un altro. Poi una bambina. Escono fuori quattro fratelli.

Habari? Nzuri sana!

Qualcuno urla “Wazungu” da dentro una casetta di fango con il tetto di lamiera. Sbucano tre o quattro bambini, dopo di loro la madre. Lei grida qualcosa che non capiamo al più piccolo. Lui si avvicina, ci fa capire che dobbiamo abbassarci alla sua altezza, ci inginocchiamo e lui ci mette le mani sopra il capo dicendo: Shikamoo (letteralmente: mi prostro a te, è usato per salutare le persone più anziane o di rango più elevato). Noi, impacciati, rispondiamo: Marahaba (cioè, ti accolgo).

Ai bordi delle strade piccoli barbecue artigianali che cuociono pannocchie. La vita accade ai bordi delle strade qui.

Mambo? Poa!

Bambini in uniforme blu e bianca: pantaloni, camicia e maglioncino.
Bambine in uniforme blu e bianca: gonna a balze, camicia e maglioncino.

Le strade sterrate con le piogge si colorano di rosso vivo. Le pozzanghere riflettono il verde rigoglioso della vegetazione di questa zona.

L’unica strada asfaltata è piena di dossi per la velocità. I tanzani non guidano, sorpassano. Prevalentemente in salita ed in curva. E suonano il clacson, ossessivamente.

Shikamoo baba. Shikamoo mama.

Ai bordi delle strade si snodano i villaggi: baracche di venditori ambulanti, case in fango e paglia, alcune in mattoni. La baracca verde con il biliardo dentro e attorno 5 o 6 ragazzi che ci giocano e quando ci vedono ridono.

Bambini che tornano a casa da scuola al tramonto con in mano una zappa e una piccola scopa di paglia.

Habari yako? Nzuri sana, na wewe?

Il muezzin che intona il suo canto: ok, sono le 4.

Il tramonto trasforma il cielo in un oceano. L’orizzonte è un incastro di montagne e nuvole. I colori cambiano di continuo. Azzurro, rosa, rosso, arancione, viola, blu. La notte cala in mezz’ora – ma quella mezz’ora è sacra. Un inno alla bellezza e all’immensità. Ovunque ti giri c’è cielo. Tanta bellezza non può essere racchiusa in un solo sguardo. Figuriamoci in qualche parola. È emozionante constatare questo limite.

Insetti. Insetti ovunque. Insetti nelle confezioni del pane. Insetti nel forno. Zanzare nelle zanzariere.

“L’importante è che pensiate sempre a voce alta!”

Piccoli pezzi di una piccola vita in una piccola città di una immensa Africa.

Foto di Chiara Ragno

Il mestiere di raccontare storie: Gabriele Del Grande.

Perché è importante, anzi, necessario, raccontare? Che senso ha, di fronte a tutto ciò che accade nel mondo, andare alla ricerca di una storia, che è una vita, con un registratore in mano e un po’ di imbarazzo in volto, per mettere per iscritto quello che è accaduto a qualcuno?

Mi è sempre sembrato che fosse da fare, che ce ne fosse bisogno.

Ed è mentre ero alla ricerca di risposte che ho conosciuto il nuovo progetto di Gabriele Del Grande.

Mio figlio mi tradirà.

La prima volta me lo disse un partigiano siriano ad Aleppo. Era una notte di Settembre di tre anni fa. Chiusi dentro uno scantinato di Ashrafiyya durante un bombardamento, ingannavamo il tempo con una buona bottiglia di araq, mentre fuori, feroce, infuriava una guerra sempre più insensata. Insieme, condividevamo molto di più del rischio della vita. Condividevamo il sogno della rivoluzione e della fine dalla dittatura. Un sogno che però stava prendendo la piega di un incubo.
“Facile giudicare da fuori. Facile scappare all’estero e dire che dovevamo continuare con le manifestazioni. Hanno ammazzato migliaia di persone nelle manifestazioni e altrettante le hanno fatte fuori in prigione! Cosa dovevamo fare ancora? Lasciarci ammazzare tutti? Andare con le rose davanti ai carri armati? Ditelo a chi ha perso i figli sotto le bombe! A chi è stato torturato per mesi! A chi ha perso gli amici più cari! La lotta armata era l’unica cosa giusta da fare. Eppure, guarda dove ci ha portato…”
Quella sera, il partigiano non era sceso al fronte. Né ci sarebbe andato l’indomani. “Quando ho impugnato le armi contro Asad sapevo di andare incontro alla morte. Ma ho sempre pensato che sarei morto felice, che sarei morto combattendo per la libertà, che il sacrificio della mia vita sarebbe servito a dare un futuro migliore a mio figlio.”
Sulla parola figlio andò in crisi. Mordersi il labbro inferiore fu inutile. Gli occhi erano già pieni di lacrime. Con un gesto di stizza buttò la pistola sul tavolo e si abbandonò ai singhiozzi coprendosi il volto con le mani nude. Quindi, dopo un lungo respiro, mi fissò finalmente sincero e disse:
“La verità, Gabriele, è che morirò invano. Perché mio figlio mi tradirà! Sarà solo a piangere sulla mia tomba e per vendicare il mio sangue e il sangue di mezzo milione di morti di questa guerra maledetta, verrà a seminare la morte in Europa. E quando si farà esplodere in un aeroporto e ucciderà i tuoi figli, tu non potrai biasimarlo perché siete rimasti indifferenti per anni mentre qua massacravano noi.”
Avrei voluto rispondergli qualcosa, fare dei distinguo… Invece niente. Mi scolai il bicchiere e rimasi in silenzio a pensare. Nelle sue lacrime leggevo la sconfitta di un intero popolo. E intuivo che quella sconfitta sarebbe presto diventata la mia e la nostra. Era soltanto una questione di tempo. Perché tutto è legato in questo piccolo mare.

Una questione personale.

Un mese dopo, di ritorno in Italia, mi improvvisai contrabbandiere. Insieme ai miei fratelli Antonio Augugliaro e Khaled Al-Nassiry, insieme alle nostre compagne e ad un gruppo di carissimi amici mettemmo in piedi un finto corteo di nozze per portare in Svezia cinque amici palestinesi e siriani da poco sbarcati a Lampedusa. Filmammo tutto e ne venne fuori “Io sto con la sposa”, una delle più grandi avventure formative della nostra storia e della storia delle migliaia di persone che ci aiutarono a produrre e a distribuire il film.
Era la mia personale risposta al partigiano di Aleppo. Non eravamo tutti indifferenti. Potevamo ancora fare qualcosa. Potevamo vivere insieme e insieme ridere e piangere e lottare. Fu un successo insperato: centinaia di migliaia di spettatori nei cinema di cinquanta Paesi e milioni di telespettatori sul satellite in tutto il mondo. Un successo che fin dall’inizio mal sopportavo. Perché sapevo che non avremmo salvato una sola vita.

Non basta una sposa.

Il mio senso di impotenza cresceva col passare del tempo. L’uscita del film nelle sale coincideva con la fase di massima espansione dello Stato Islamico in Iraq e in Siria. Mentre sfilavamo sul red carpet di Venezia, erano ancora fresche le notizie dei massacri degli yazidi in Iraq. Gli Stati Uniti, presto seguiti da Francia e Gran Bretagna e da una coalizione di paesi arabi, si decisero a bombardare Mosul e Raqqa.
La reazione dell’Isis fu brutale.
La profezia del partigiano di Aleppo si era avverata. La guerra era uscita dai confini della Siria. Il sangue aveva portato altro sangue.
Ma guai a scomodare la storia, a parlare della sporca guerra, dei suoi eserciti e delle sue tattiche. I commentatori nostrani sanno soltanto sciorinare a memoria il verbo dello scontro di civiltà e il rassicurante quanto vuoto racconto della lotta del bene contro il male, dell’umanesimo contro la barbarie. D’altronde nessuno di loro ha mai messo piede in Siria, nessuno ha mai visto la guerra né ha mai parlato con i diretti interessati.

Salvare una storia.
(…) Da quel viaggio sono tornato con un registratore pieno di interviste, un centinaio di pagine di sbobinature, un mare di domande nella testa e l’urgenza, mai così forte, di tornare a scrivere.
Mi sembra l’unica cosa sensata da fare. Dopotutto con “Io sto con la sposa” non avremo salvato una sola vita, ma è pur vero che abbiamo salvato una storia. E col senno di poi ha lo stesso valore. Perché abbiamo contribuito a tenere in piedi un orizzonte verso cui camminare, a tramandare un discorso sull’umanità di questo nostro Mediterraneo, sulle sue sfumature, la sua storia e il suo futuro possibile, in cui riconoscerci. Adesso si tratta di fare lo stesso.
Il libro che ho in mente racconterà la guerra in Siria e la nascita dello Stato Islamico attraverso un grande progetto di giornalismo narrativo che intrecci l’epica della gente comune alla storia di questi vent’anni di guerre e terrorismo.
Perché di Isis si parla ogni giorno, ma in pochi ci hanno davvero capito qualcosa. Chi sono gli uomini e le donne che a migliaia si arruolano per difendere il Califfato? Chi sono i civili rimasti nelle loro città? Ma soprattutto: come si è arrivati a tutto questo?
È quello che mi chiedo ed è quello che vorrei provare a raccontare nel libro, mischiando geopolitica e storytelling, analisi e ritratto in una sorta di romanzo del reale.

Grazie alla campagna di crowdfunding che ha lanciato online per il suo libro, Gabriele ha raccolto 47908€ con 1341 sostenitori.
Ho dovuto tagliare alcune parti della sua presentazione, ma se vi restano dieci minuti trovate tutto qui https://www.produzionidalbasso.com/project/un-partigiano-mi-disse/

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