Quanto poco ci vuole

Ingresso dell’ospedale, ore 9.18

Brusio di fondo, due lunghi corridoi, persone che si muovono in fretta.  Ordine, un poco di bianco, la luce che filtra da una grande finestra.

Un signore che sembra anziano, ma forse non sarebbe felice di essere chiamato così, entra guardingo, e avanza lungo il corridoio. Ha passi lenti ma decisi, la schiena un po’ curva, una cartellina sotto il braccio.

Si ferma più o meno a metà, si guarda intorno e torna indietro. All’ingresso osserva l’ordine incomprensibile con cui gli altri si muovono, aprono porte e spingono carrelli. Trova allo sportello una donna minuta, nascosta dietro grandi occhiali da vista. La vedo ascoltare il signore, gli risponde scuotendo la testa e lui si curva ancora di più.

La signora sorride, esce dal suo sportello e indica un altro corridoio al suo cliente, ma poi lo accompagna. Mentre passa dà indicazioni gesticolando ad altre persone, come se leggesse loro nel pensiero. Cammina svelta, ma controlla di avere sempre il signore vicino. Gli sorride con un’espressione che dice “Tranquillo, adesso la risolviamo”. Lui la guarda con la fiducia di un bimbo che trova chi lo porta a casa. Quanto poco ci vuole.

Entrano in una porticina, spariscono per qualche minuto, poi lei esce con gli occhi che dicono “mi dispiace”. Lui scrolla le spalle, ha molta più luce nel viso. Anche se non ha risolto il suo problema.

La donnina saluta e torna a nascondersi dietro il suo sportello, a gesticolare sorridendo con il prossimo cliente. Il signore esce, cammina lento ma leggero. Sparisce con la chiusura della porta. Quanto poco ci vuole.  

Debhora: storia di viaggi, di fiducia e d’amore

Debhora Casalloni ha pubblicato un libro nel 2018, ma io non lo sapevo. Ci siamo incontrate per caso, in una mansarda un po’ fredda ma piena di cuscini colorati nell’Oratorio di Busca, dove entrambe ci trovavamo per fare la parte dei “libri” in una biblioteca vivente.

Debhora ha portato un grande zaino, dei tessuti, dell’incenso e dei libri. Le copie del suo libro, “L’India si è presa cura di me”. Si siede a terra, a gambe incrociate, a sistemare tutti gli oggetti con una lentezza piena di cura. Ascolto la sua storia prima che arrivino i veri “lettori”, e poi raccolgo dettagli qua e là, nei momenti di pausa e durante tutta la serata. Sto con la mente su ciò che avevo da dire, e con un orecchio verso la sua voce. Per questo, la mia versione del suo racconto sarà disordinata e irrazionale, ma anche colma dell’intensità di averlo sentito da chi l’ha vissuto in prima persona.

A ventisei anni, Debhora è partita per un viaggio in India: il biglietto di andata, quello per il ritorno programmato 5 mesi e 2 settimane dopo, tre notti in albergo prenotate a Nuova Delhi, lo stesso zaino che ha portato qui stasera. Nessun programma. Gusterò ogni suono, colore, sapore e so che sarà un viaggio tanto fuori, quanto dentro di me, ha poi scritto nel diario di viaggio che è diventato il suo libro.

Da qui in poi, il racconto si fa frenetico: ha preso aerei, incontrato persone, perso soldi, viaggiato in condizioni che spaventerebbero molti di noi. “Dormivo nel camion con loro (i camionisti che le hanno offerto un passaggio e del denaro) e non mi è mai successo niente”, mi racconta, la voce grata della fortuna che l’ha accompagnata. È stata accolta da alcune famiglie, “le mie famiglie”, le chiama, con le quali ha condiviso mesi di vita, senza che nessuno le chiedesse nulla in cambio.

Si leggono due cose dal suo viso, mentre racconta. La prima è la consapevolezza: parla di questa esperienza magica serenamente, sembra che sappia esattamente quante cose la separano, adesso, da quel mondo e da quella che era prima di entrarvi, che porti nel cuore ogni sensazione ma che la sappia custodire senza esserne sopraffatta. Lo noto, e penso che forse non ne sarei capace.

La seconda cosa che traspare, chiaramente, è la fiducia che ha investito nel suo viaggio, nei luoghi, nelle persone, nel caso che l’ha portata in giro per un Paese completamente diverso dal suo. Una fiducia che, ci tiene a sottolineare, è stata ripagata con un amore incondizionato da parte di tutti coloro che ha incontrato, in un modo che forse la nostra cultura non ci permette di immaginare. “Se ti approcci al mondo in modo aperto e fiducioso, tutto questo ti torna indietro”. E così, un intero Paese si prende cura della sua ospite.

Alla fine della serata, Debhora ripone tutte le sue cose nel suo zaino. La vedo nel cortile d’ingresso, il bagaglio sulle spalle, e mi sembra di vederla in un grande aeroporto, mentre abbraccia le persone a cui vuole bene prima di partire. Mi saluta con un bacio e un sorriso. Forse non ho mai conosciuto Debohra, la ragazza che è partita per l’India, ma soltanto quella che è tornata. Penso a quanto di quel mondo ora è dentro di lei, così ben mescolato al resto da essere indistinguibile. E che forse, qualche pezzo di lei è ancora laggiù, nascosto e svolazzante in una strada di Nuova Delhi.

Un tavolo insolito

Sono un tavolo un po’ insolito. Tre uomini sulla sessantina, tutti e tre brizzolati, maglioncino e occhiali sul naso. Si direbbero tre colleghi in viaggio per lavoro, se non fosse per il quarto commensale, un bambino biondissimo e in carne.

Tra loro parlano tedesco. Quando arriva il cameriere, i tre adulti sfoderano un italiano degno di qualunque stereotipo: forte accento, verbi all’infinito, eppure non fanno fatica a farsi capire.

«Tagliata perrr me»

«Certo, esce con patate e carciofi»

«Tanti carrciofi perr favorre, in Germania non ci sono, posso mangiarre solo qui!»

Arriva la tagliata con tanti carciofi, il signore sorride, ha l’espressione di un bambino a cui la nonna ha preparato la torta che voleva.

Mangiano le loro portate. Un altro dei signori dell’insolito tavolo si rivolge al ragazzino accanto a lui. Qualche parola in tedesco, e poi riconosco “scarrrpetta”. Passa un pezzo di pane sul suo piatto, aspetta che raccolga tutto quello che ha avanzato, e glielo porge. Il bambino lo guarda stranito, poi mangia il pane con gli occhi di chi ha ricevuto un regalo. Prova a ripetere “scarrrpetta”,  per essere – credo – la sua prima parola in italiano non se la cava male. Scoppia a ridere e prende un altro pezzo di pane.

Tavolini e scorci

Stazione di Torino Porta Nuova, bar, quarto tavolino a sinistra.
È quell’ora indefinita del pomeriggio in cui per qualcuno è il momento del the o del cappuccino, e qualcuno ordina il primo spritz. La clientela dei bar è composta da piccoli spiragli su vite altrui. Quella dei bar delle stazioni, da finestre spalancate su altri mondi.

Tre ragazze sono sedute ad un tavolino senza tazze né cibo, hanno espressioni tristi ma combattive: mi arriva qualche frammento di un discorso di cui non seguo il filo: sentirsi sole, il primo lavoro, non essere prese sul serio. Si illuminano quando si alzano, una delle tre scoppia a ridere e le altre non sanno perché. Si tira indietro i capelli con l’aria di chi non può spiegarsi, ma l’effetto è potentissimo: escono e sembra che stiano camminando su una nuvola.

Una bambina tiene in mano un piattino con una brioche, sembra enorme vicino a lei; con l’altra mano cerca di aprire la porta a vetri che la divide dalla mamma e dal fratellino: c’è scritto “tirare”, ma lei è troppo piccola per saperlo. Spinge, un paio di tentativi e la mamma, al di là del vetro, le viene in aiuto. L’altro bambino guarda il dolce con occhi entusiasti, vorrei tanto vedere la faccia di sua sorella all’idea di condividerlo.

Un ragazzo elegante porta un vassoio al tavolo in cui sono seduti la sua fidanzata e i genitori: due tazze, una teiera, un latte macchiato e un dolce pieno di zucchero a velo. Mentre si avvicina lei si fa scappare uno sguardo pieno di luce, ma forse lui non se ne accorge. Gli parla, e la luce non si sente più. Parlano di the e di viaggi, la ragazza si perde nella schiuma del suo bicchiere, beve un sorso e riappare con un baffo di latte e cacao. Sorride come una bambina maldestra.

Entra un uomo di un’età che non riesco a definire, giacca di pelle, cappuccio e zaino, la barba di qualche giorno. Si ferma ai tavoli chiedendo una monetina per favore, così mangio qualcosa di caldo. Un paio di teste scosse, poi una signora inizia a frugare nella borsa, senza guardarlo in faccia. L’uomo inizia a raccogliere tazze e vassoi e libera il tavolo in cui la signora stava per sedersi. Le sposta anche la sedia, come ho visto fare solo nei film, per farla accomodare. Lei nel frattempo ha preso la moneta, si guardano e insieme dicono “Grazie mille”. L’uomo sparisce, senza ordinare.

Dal tavolo accanto, delle voci in spagnolo. Una donna morbida e sorridente, con i capelli lunghissimi e scuri, parla con un uomo piccolo, il viso pieno di rughe e un cappello con il paraorecchie sulla testa. Hanno tratti sudamericani e voci che sembrano musica, o forse sono solo i miei stereotipi. Portano un rumore allegro e colorato, anche nei loro cappotti neri.

Ogni momento in un bar è la possibilità di mille vite diverse di intersecarsi, ma loro si sfiorano senza toccarsi davvero. Ogni tavolo resta orientato verso l’interno del suo mondo. Forse se non fossi nascosta dietro il computer non potrei permettermi di scrutarli tutti da così vicino, ma anche così è come guardare da una finestra, separati da un vetro che non ti fa sentire il vento che c’è fuori e che, in fondo, non ti fa capire nulla.
Chissà se qualcuno sta guardando me. Chissà cosa vede di questo mondo.

Cinque dialoghi da bambini per affacciarci al 2019

Parlare con i bambini è, per chi ha la fortuna di non dare troppo peso a urla, nasi sporchi e domande ripetute fino alla nausea, divertente, tenero, ma soprattutto illuminante, per tre motivi principali. Innanzitutto usano – e interpretano – le parole nel loro senso letterale, senza sottintesi, eufemismi o metafore: quella parola per quel significato. Il secondo motivo è la loro tendenza a dire esattamente ciò che pensano. Questa caratteristica va considerata non come faremmo in un adulto, come segno di particolare coraggio, onestà intellettuale o noncuranza delle conseguenze: semplicemente, dicono ciò che pensano perché non ci vedono nulla di male, e non vedono un’alternativa. Infine, credono fermamente nell’immagine del mondo che si stanno costruendo e se vuoi far cambiare loro idea devi fornire una spiegazione molto, molto convincente. 

Per questo 2019 iniziato da una manciata di giorni, dunque, vi propongo qualche frammento di dialogo con o tra bambini che ho realmente sentito, partecipandovi in prima persona o origliando qualche chiacchierata tra amici. In ognuno di essi c’è almeno un consiglio utile per affrontare l’anno con un po’ della loro magia. Per tutelare l’identità di queste piccole fonti di ispirazione, quelli riportati sono nomi di fantasia. 

Buon Anno!

 

  1. Alice, 5 anni, ovvero Dare il giusto nome alle cose
    Adulto: Questo dito si chiama anulare perché è il posto dell’anello.
    A: Ma mia mamma ha un anello su un altro dito!
    Adulto: Sì, ma quando ci si sposa l’anello si mette all’anulare, è per questo che si chiama così.
    A: Tu ce l’hai sull’anulare, allora tu sei sposata!
    Adulto: No, io non sono sposata, ho solo messo l’anello.
    A: Allora era meglio che si chiamava sposale! E tu devi cambiare dito.
  1. Agnese, 5 anni, ovvero Il valore delle persone
    Adulto: Qual è il vostro gioco preferito?
    Altri bimbi: Play station! La casa delle bambole! La pista!
    Agnese: Marco.
    Adulto: Che gioco è?
    Agnese: Mio fratello.
  1. Riccardo, 4 anni, ovvero Dedicare tempo a ciò che ami
    R (urlando): Maeestra, ho finito!!
    R (sottovoce, avvicinandosi): Adesso possiamo solo correre, senza fare nessun lavoro?
  1. Christian, 6 anni, ovvero La Costanza ed Essere fiero di ciò che hai fatto
    C: Vieni!
    Adulto: Un attimo.
    C: Vieni, veloce!!
    A: Un attimo.
    C: (Con crescente urgenza) Vieeni!
    A: Un attimo, arrivo!
    C: (Mi viene incontro, mi tocca una spalla): Vieni da me?
    A: Ho detto un attimo!

    A: Eccomi, cosa c’è? Hai bisogno di aiuto?
    C: Guarda. (Mostra un disegno) L’ho fatto da solo.
  1. Alessandro e Chiara, 6 anni, ovvero Non arrendersi mai
    A: Chiara, mi vuoi sposare?
    C: NO!!
    A: …Va bè, magari quando siamo più grandi poi usciamo insieme.

Nello spazio di una tazzina

Cortile, Ore 14.15.

È passata qualche minuto fa per il vialetto del condominio, portava due grosse buste della spesa, mentre parlava con i due uomini che lavorano in cortile ha rallentato il passo ma senza fermarsi davvero. Ha continuato ed è sparita nella portina.

È appena ricomparsa, ha ancora il cappotto ma non più le borse, porta in mano un piattino su cui sono appoggiati in equilibrio instabile una zuccheriera, due cucchiaini, due tazzine coperte con un po’ di carta stagnola. I due uomini si guardano e contemporaneamente smettono di lavorare, si alzano e si girano verso un terzo signore, più anziano, non c’era prima. Lei appoggia tutto a terra, sparisce di nuovo, torna con il terzo caffè. Ma dovrà riportare tutto in casa, quindi aspetta che finiscano.

Grazie, signora, è proprio gentile.

Ci mancherebbe, mia mamma mi dice da cinquant’anni che se c’è qualcuno che travaja, gli si porta il caffè.

Eh, ma mica tutti, guardi…

Quanti anni ha sua mamma? – Il vecchio aveva borbottato soltanto un grazie, si inserisce nella chiacchierata come qualcuno che di colpo si accorge di avere qualcosa di urgente da dire.

85.

Oh, che fortuna. Sa quanti ne ho io?

La signora aspetta la soluzione dell’indovinello. I due ragazzi si guardano, forse è una favola che hanno già sentito.

– …80!

Beh complimenti, e cosa ci fa qui in giardino?                

A casa mi annoio, e poi… – si guarda intorno come a dire che il lavoro, il giardino, forse tutti i giardini del mondo hanno bisogno di lui. O forse viceversa.

Scambiano chiacchiere come chi non ha davvero qualcosa da dirsi, ma non vuole smettere di parlare, la mamma, la moglie, il lavoro, la pensione. Senza avere davvero qualcosa da dirsi, affollano un pezzi di vita nello spazio di una tazzina. Il vecchio aggiunge un cucchiaino di zucchero, e butta giù quell’ultimo sorso più dolce degli altri di fretta, come una medicina.

Lei raccoglie il piatto da terra, sistema le tazzine, la zuccheriera, i cucchiaini, nello stesso equilibrio precario, come se non fossero state svuotate.

Allora arrivederci, buon lavoro.

– Buongiorno, grazie signora.

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