Matema. Villaggio sul lago Nyasa nel sud della Tanzania. Caldo umido, tantissime zanzare, elettricità che va e viene. Il lago agitato come il mare. Enorme. Le montagne Livingstone a strapiombo sull’acqua. Dalle sue rive alle 6,30 del mattino si snodano i pescatori sulle loro piccole imbarcazioni di tronco d’albero per recuperare le reti piene di pesci. Al posto delle boe, per indicare il punto in cui le hanno lanciate, compaiono piccoli agglomerati di bottiglie di plastica qua e là.

La spiaggia è turistica, il villaggio è africano.
La sera usciamo per cercare un posto dove mangiare. Cellulari quasi scarichi, non c’è stata corrente tutto il giorno. Non c’è illuminazione nel villaggio, ad eccezione di qualche piccolo locale che serve la cena alla luce di una lampadina. Camminiamo nel buio cercando di scorgere i solchi nel terreno per non inciampare.

Nel villaggio le case sono fatte di fango, con lo scheletro in canne di bambù e il tetto di paglia.
Sono sempre un pugno nello stomaco.
Le case di fango.
Le case sono fatte di fango.
Le case sono case di fango.
In genere sono tre o quattro disposte le une di fronte alle altre, con un cortile di terra in mezzo dove giocano i bambini insieme alle galline che corrono libere e ai galli che cantano a tutte le ore. Le mucche sono lasciate a pascolare oppure hanno una corda arrotolata attorno al collo che le tiene legate a qualche albero.
Alle 7 è buio e si va a dormire.

In alcuni locali c’è una televisione. Gli abitanti, come spettatori di un cinema all’aperto, seduti sulle sedie di plastica della Pepsi o della Coca-Cola, si ritrovano a guardare una partita di calcio, i video delle canzoni del momento o qualche film coreano con i sottotitoli in inglese, anche se non lo sanno. Ovviamente con una birra in mano o una bottiglia di Ulanzi, un liquore che si ricava dalla corteccia di un albero. L’odore di alcol permea il villaggio.
Il cibo offerto è riso e fagioli, poche alternative. Un giorno a pranzo troviamo un locale che ci serve un pezzo di manioca fritto. Un’altra sera, incapaci di mangiare altro riso, troviamo una Mama che ci cucina un platano fritto a testa. Mai stata così felice di mangiare una banana a cena.

In qualsiasi momento della giornata, nel centro del villaggio, è pieno di ragazzi sui 20 anni che aspettano che arrivi qualche bianco alla ricerca di una guida. Da solo non ti puoi muovere perché i sentieri non sono tracciati. Vogliamo fare una camminata verso una cascata dentro alla giungla, allora cerchiamo qualcuno che ci possa accompagnare.

È così che conosciamo Mark. Puzza di alcol ma sembra affidabile. Ci chiede poco più di 6 euro a testa per farci fare l’escursione il giorno seguente. Accettiamo. “I am self-employed”. Non ha molte opportunità in questo villaggio, quindi sta cercando di farsi un po’ di esperienza come guida turistica per essere assunto da una agenzia. Parla bene inglese. Ci fa assaggiare il cacao. Non avevo mai visto l’albero del cacao. Ok, non sapevo neanche che fosse un albero. Gli si avvicina, prende un frutto, lo spezza a metà e ci fa prendere un chicco a testa. “Non masticate”. Allora assaporiamo la gelatina attorno al seme vero e proprio, che invece sputiamo. Dolcissimo.

Ci avventuriamo nella giungla con le nostre infradito da spiaggia. Non avevamo messo in conto di fare questa camminata. Alla fine optiamo per procedere scalze. Una tragedia. Ma arriviamo alla cascata, facciamo il bagno nell’acqua gelata che ristagna ai suoi piedi e la fatica svanisce.

In questo preciso momento, a mollo in quest’acqua freddissima, io sono felice. Fuori fa caldo ed io sto facendo il bagno immersa in uno spettacolo della natura. Sono felice ma allo stesso tempo sento il peso della povertà che mi circonda. Non mi struggo, certo, continuo a nuotare. Ma è una sensazione che mi scalfisce e mi modella. Mi sento più consapevole. E questo un po’ mi spaventa. A volte penso che sia sbagliato sentirsi felici in questa Africa costruita nel fango.

Torniamo al villaggio e cerchiamo un posto dove fare pranzo. Mark si siede con noi e, come se fosse sottinteso, si fa pagare il pranzo. Gli diamo i soldi per l’escursione, ci salutiamo e lui torna in centro ad aspettare altri turisti.

Foto di Chiara Ragno