Identità

Cuneese, italiano, europeo.

Belgo-libanese con residenza negli Emirati Arabi Uniti.

Egiziano di madre tedesca, studente negli Stati Uniti.

Ecuadoregna ma metà italiana, una vita tra sette nazioni.

Le identità affascinano e si nascondono. Come un piccolo gatto di Schroedinger escono dalla loro stanza nei momenti più inaspettati e rivelano aspetti inaspettati (vivo, morto o ?). Come un istinto froidiano approdano nel nostro inconscio e ridisegnano la prospettive.

Al-Ghajar è un paese al confine tra Siria, Libano e Israele.

Siriano, libanese o israeliano? Questa è la domanda che ha forgiato la coscienza dei duemila abitanti nel cuore del Medio Oriente.

1932: gli abitanti di al-Ghajar possono scegliere se diventare libanesi o siriani, scegliendo quest’ultima opzione.

1967: prima dell’occupazione israeliana in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, al-Ghajar è un territorio siriano al limite della valle Hasbany.

1978, al-Ghajar si espande verso Nord, in Libano.

17 aprile 2000: il primo ministro israeliano Ehud Barak, seguendo la sua promessa, annuncia il ritiro delle truppe israeliane dal Sud del Libano. 25 maggio: Tzahal (le forze di difesa israeliane) lasciano il Sud de Libano dopo 22 anni di occupazione, in conformità con la Risoluzione 425 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Sotto l’occupazione israeliana questo piccolo villaggio diviso tra il Libano del Sud e le Alture del Golan era governato dalle stesse autorità, ma non dalle stesse leggi.

Ma, sì c’è un ma in questa storia e non è quello che state pensando (discutere della legittimità dell’occupazione israeliana sarebbe troppo scontato), più di un semplice conflitto diplomatico e legale, al-Ghajar è il teatro di scontri tra identità radicalmente diverse.

Siriano, libanese o israeliano? Siriano, libanese e israeliano allo stesso tempo, questa è la risposta che potrebbe calmare gli animi.

Ciò che rende la loro vicenda così curiosa non è lo scenario di guerra e diplomazia internazionale, ma il fatto che essi siano alawiti in una zona circondata da villaggi per la maggior parte sunniti, drusi e cristiani.

E sono proprio loro stessi a chiedere di essere annessi ai territori occupati piuttosto che al Libano dopo le tensioni del 1967, affinchè potessero difendere la loro identità siriana come gli altri territori del Golan sotto il controllo israeliano.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: cos’è un’identità? Se guardiamo da vicino questo termine, scopriamo che è una nozione polisemica che racchiude i temi della similitudine, dell’unità, dell’identità personale, dell’identità culturale e della tendenza all’identificazione.

«I confini sulle carte incoraggiano questi sentimenti d’identità» afferma a proposito John Agnew. Ma, cosa si nasconde dell’inconscio degli abitanti di al-Ghajar? Come possono interpretare un’identità che non ha nome, né patria?

«È proprio questo che caratterizza l’identità di ognuno: complessa, unica, insostituibile, non si confonde con nessun’altra» afferma Amin Maalouf nel suo capolavoro del 1998 Identità Omicide (dal titolo originale Les identités meutrières). «Spesso è il nostro sguardo a imprigionare gli altri nelle loro strette origini, ed è sempre il nostro sguardo a poterli liberare» continua l’autore libanese.

Il XXI mette in scena il ritorno (o la definitiva non-scomparsa?) dei sentimenti nazionalisti, intenti a difendere la loro identità dalla paura dello straniero. Dove poseremo allora il nostro sguardo? Sulle cartine politiche di secoli passati o sui fenomeni di integrazione che abbattono le frontiere culturali?

Potremmo accorgerci che il ruolo dell’identità è più complesso di un semplice discorso populista e che i nostri sentimenti di appartenenza coincidono con un territorio a cui siamo legati. E come coniugare le nostre identità con i diritti e i doveri del territorio a cui apparteniamo per un momento? Le migrazioni non si fermeranno con un muro o un accordo illegale con un paese come la Libia. L’integrazione sarà un processo inevitabile per evitare altri conflitti.

Per questo l’Italia ha deciso di fare un primo passo verso una comprensione civile e politica delle identità dei cittadini che popolano il suo suolo, riconoscendo ai propri cittadini i loro diritti con lo Ius soli…

Ah già.

Intervista a LUIGI DE MAGISTRIS – Disobbedienza che diventa obbedienza, ribellione che diventa esempio

Napoli è una “Città ribelle”, ovvero il titolo del libro di Luigi De Magistris in collaborazione con la giornalista Sarah Ricca. Ribelle perché contro il sistema che prima l’addomesticava come una malattia. Ribelle perché teatro di una Rivoluzione, come la chiamano De Magistris & Co. Ma soprattutto ribelle perché ha saputo capovolgere le prospettive e il suo futuro. In un paese in cui la devianza sembre essere diventata la norma, come sostiene Domenico Starnone, Napoli è una città ribelle perché ha fatto dell’eccezione un esempio di politica ammirato in tutto il Mediterraneo e non solo. E così la disobbedienza ai poteri forti è diventata obbedienza, ma a cosa? « Alla Constituzione, ai doveri, alla partecipazione attiva e civile, alla speranza nel futuro ». Il suo simbolo? Luigi De Magistris, sindaco dei Napoli eletto in liste autonome nel 2011 e riconfermato nel 2016 con oltre il 70% al secondo turno. Nel contesto di Scrittorincittà 2017, ha risposto alle nostre domande in esclusiva per 1000miglia.

 

Nel contributo iniziale, Maurizio De Giovanni afferma « Perché De Magistris nasce da un vuoto e diventa un pieno ». Può questo pieno strabordare e coinvolgere altre realtà? Oltre alle città europee che si sono interessate alle politiche della sua città, come Atene, Barcellona, Madrid, fino a dove può arrivare nel panorama italiano?

In realtà si tratta di un’esperienza senza confini e senza frontiere. Ogni luogo, ogni città, ogni comunitàà ha le sue caratteristiche; per cui non si tratta di un modello “esportabile”. Però quello che è accaduto nella nostra città può accadere anche altrove ed è sicuramente un’anomalia nel panorama politico generale. In questi anni stiamo provando a connetterci con territori, esperienze, associazioni e movimenti proprio per cercare di costruire, anche oltre alla nostra città; qualcosa che sia capace di coniugare da un lato la rottura del sistema, da noi chiamata “rivoluzione”, e dall’altro anche l’affidabilità nel governare.

Sempre secondo De Giovannni, l’esperienza di Napoli nel 2011 nasce dalla « necessità di un riferimento per un elettorato orfano e deluso ». Lei ha provato a dare una risposta a questo elettorato, attraverso un ritorno alla politica dal basso, alla politca nel senso letterale di “vita della polis”. Dunque, si può rifare la politica dal basso? Partendo dai comuni per poi arrivare a livello nazionale?

Assolutamente sì. La nostra esperienza nasce dall’ “aver dato potere a chi potere non ne aveva, voce a chi voce non veniva data”. Quindi è un’esperienza di democrazia partecipata vera, non retorica o di puro ascolto. Nel nostro comune prendiamo decisioni insieme alla cittadinanza, anche oltre alla rappresentazione politica. Anche per il fatto che io non ho partiti e vengo da un’esperienza di movimento, autonomia, per cui la connessione con la gente è stata fortissima e ha provocato la rottura con il sistema politico tradizionale ma allo stesso tempo il favorire di un protagonismo popolare che prima era inesistente.

Nel suo libro teorizza una sorta di sistema di confederazione, che prospetta la divisione in tre zone: Nord, Centro, Sud e Isole; dando più potere ai territori e a chi li conosce bene. Tuttavia, non c’è il rischio di aumentare i sentimenti di autonomia di alcune regioni italiane (soprattutto a fronte dei recenti referendum in Lombardia e Veneto) e di perdere anche gli ultimi baluardi di speranza di qualcuno nei confronti dello stato centrale?

Io non parlo di autonomia. Secondo me l’operazione del Veneto è un’operazione molto politica ma poco sostanziale. Se vuoi dare veramente autonomia, la devi dare ai territori, alle città. Penso che l’Italia dovrebbe ripartire dai comuni uniti nelle loro diversità. Invece, dando molto potere alle regioni non si sono mai sviluppate forme di democrazia partecipata. Anzi, molto spesso le regioni sono state teatro di sprechi e di mancato utilizzato del denaro pubblico. Quando parlo di autonomia dei territori penso soprattutto alle città e all’idea, tipo i collegi europei, di dividere l’Italia. Dividere nel senso di aggregare alcune funzioni alle macroregioni. Lo Stato deve avere delle funzioni fondamentali previste dalla Constituzione, le città dovrebbero avere più autonomia e le regioni una limitata funzione di programmazione.

Parlando appunto della sua città in particolare, Napoli è « una città che ha guardato a De Magistris per una folle speranza e mancanza di alternative » (De Giovanni). Senza eccessi di lode, cosa succede alle città in difficoltà che non trovano un De Magistris? O piuttosto, qual è il vero segreto che si nasconde dietro la figura di Luigi De Magistris, ormai mitizzata, amata ed odiata al tempo stesso?

Innanzitutto ci tengo a fare una distinzione tra i due mandati. Il primo è stato la novità, il secondo la conferma. Dopo aver governato, rappresenti un punto di riferimento. Se devo essere sincero, se no si rischia di essere falsamente modesti, da un lato senza il popolo e la gente non avrei fatto tutto quello che ho fatto; dall’altro molto è dipeso dalle scelte che ho preso io personalmente, dalla mia capacità di mettermi contro il sistema. Da soli non si va nessuna parte, ma l’unico che ci ha creduto all’inizio sono stato io. Napoli è la dimostrazione che, quando ci sono uomini e donne con volontà, coraggio, forza e passione le cose possono cambiare. Nonostante sia stato particolarmente arduo e difficile vista la situazione iniziale, Napoli è una città totalmente diversa rispetto a sei anni e mezzo fa.

Il suo peso in quanto personaggio politico è stato comunque determinante e lei rivela che « Il mio sogno è contribuire alla nascita di un movimento politico completamente nuovo ». Quale sarà il suo personale contributo a questo movimento? E quale eredità lascerà nella sua città dopo la fine del suo incarico nel 2021?

Fino al 2021 farò il sindaco a tempo pieno. Nel frattempo abbiamo già costruito un movimento politico “Democrazia e autonomia” che sta cominciando a radicarsi. Appena smetterò di fare il sindaco penso di contribuire, anche candidandomi, a rafforzare questo movimento a livello nazionale e provare a dimostrare che quello che si è fatto a Napoli si può fare anche a livello nazionale.

Prima di arrivare a livello nazionale sarebbe interessante poter coinvolgere altre città sul modello di Napol. Alex Zanotelli afferma che « Oggi Napoli è un’avanguardia civica sul tema dei beni comuni ». A Cuneo c’è un movimento, rappresentato in consiglio comunale dopo le ultime elezioni amministrative, per i Beni Comuni. Qual è dunque il suo consiglio per far appassionare la cittadinanza ad un tema del genere e riuscire a coinvolgerla di nuovo nella vita politica della città?

Sicuramente la lotta e la difesa dei beni comuni è un tema che appassiona, a cominciare dall’Acqua bene comune. Noi abbiamo molto lavorato sul coinvolgimento dei giovani, che sono stati e sono tutt’ora determinanti nel panorama napoletano. Per infiammare devi anche avere dei punti di riferimento. A Napoli tanti hanno visto in me un punto di riferimento. Una città che quando sono diventato sindaco era smarrita, depressa, sommersa di rifiuti, con livelli di collusione tra politica e affari molto forte. Ho suscitato entusiasmo e contribuito a liberare energie, e la prova è che oggi in città ci sono numerose associazioni, movimenti e comitati. E la battaglia per i beni comuni è uno dei punti centrali del laboratorio Napoli.

Quale sarebbe il suo messaggio ai giovani, oggi?

Non rimanete a guardare, non siate indifferenti e non pensiate che nulla possa cambiare. Non vi limitate al voto, di per sé già un esercizio democratico importante, ma lottate in prima persona per cambiare questo paese. Io penso che ci siano grandi spazi per un impegno politico, sociale e civico dei giovani. In difesa dei beni comuni, per un’Italia con una giustizia sociale più forte, con minori disuguaglianze ma soprattutto nella lotta alla corruzione e alle mafie, la battaglia che ha contraddistinto la mia vita, che è un tema di cui non si parla abbastanza al giorno d’oggi.

Pop-ulismo da giradischi

Cosa può spingere un gruppo di intellettuali da tutto il mondo ad affermare che nel panorama attuale «un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista»? Ma soprattutto come giustificare il fatto che la vittoria di Trump e la Brexit siano definiti, senza se e senza ma, come una conseguenza indiscussa del populismo? Con la superbia degli intellettuali, facile. Ma non è tutto. (Purtroppo) c’è dell’altro.
E quell’altro lo ritroviamo ogni volta che accendiamo la tv per un telegiornale, ogni volta che una testata editoriale sceglie gli articoli da mandare in stampa, ogni dannata volta che condividiamo un articolo su un social con i nostri presunti amici.

Perché in fondo siamo noi, le piccole gocce delle onde populiste che possono travolgere qualsiasi istituzione politica. È sufficiente essere nella corrente giusta. O sbagliata? Gli intellettuali del Movimento 9 maggio sostengono il secondo aggettivo, e non esitano a contrapporre i «demoni populisti» allo «slancio politico». Eppure i cosiddetti “populisti” vanno a votare, vengono rappresentati da numerosi candidati (ci sarebbero troppi esempi da proporre qua) e governano paesi più o meno influenti nel mondo. Ovvero, tutto ciò che li rende “politicamente accettabili” e molto più umani della cruenta immagine che abbiamo dei demoni. I populisti hanno una famiglia, sono spesso (forse troppo) cattolici e provano dei sentimenti. Incredibile eh? Bisognerebbe ricordarlo, a quella banda di intellettuali da strapazzo, che si preoccupano così tanto per gente del genere! Eppure, loro lo sanno bene. E conoscono soprattutto un sentimento populista che emerge a gran voce dalla folla: la rabbia.

Una rabbia profonda, sincera, coinvolgente, bruciante. Una rabbia che prende fuoco dalla delusione dei cittadini, dagli elettori convinti che la partita sia truccata. Convinti che le regole del gioco siano sbagliate. Quale gioco? L’establishment, ovvero la rappresentazione del sistema che ormai troppe persone sentono come una prigione. Ed è qua che entra in gioco un candidato come Trump, idealizzato da molti elettori come un complice amico che ha le chiavi per evadere. Anche a costo di ricoprire la fuga di bugie ed atti osceni apertamente condannati dall’opinione pubblica. Ma in questi dettagli nasce la sua forza: Donald Trump è il prototipo ideale del candidato che non ha paura di dire la verità, perché non si fa condizionare dai vincoli della vecchia politica. Agli occhi dell’elettore populista, lui è l’unico in grado di mettere in discussione le regole del gioco.

Ma questa rabbia non è presente solo negli Stati Uniti, ribolle in molti paesi del mondo, accomunati dall’insoddisfazione per lo status-quo. Per le sue forme più estreme, essa sembra nascondere qualcosa di più oscuro: una rivolta contro le norme, contro quei confini accettati da tutti che rendono possibile la democrazia. Democrazia: un termine messo in bocca a tutti i cittadini, masticato, digerito ed ora pronto a “essere smaltito” per una buona fetta della popolazione. Lo conferma il World values survey in un progetto di ricerca del 2011, in cui emerge che il 34 per cento degli statunitensi era favorevole a “un leader forte che non debba preoccuparsi del congresso o delle elezioni”. Ovvero, tradotto in un concetto basilare: un elettore statunitense su tre preferisce la dittatura alla democrazia. Non si tratta dunque di ripudiare un semplice governo o un partito politico, ma di rifiutare l’idea stessa di democrazia. Perché questo dato sembra così allarmante? Dopotutto potremmo facilmente far parte anche noi di quella fetta di popolazione convinta che la democrazia non abbia rispettato i patti con i cittadini e che il sistema non sia più democratico. E troveremmo un candidato ideale in personaggi che l’opinione pubblica ci presenta quotidianamente come “mostri” della politica e governanti senza scrupoli: Viktor Orbán e Vladimir Putin in pole position.

Fareed Zakaria definisce con il termine “democrazia illiberale” un sistema politico in cui i capi di governo sono eletti tramite elezioni democratiche ma che in seguito tendono a non rispettare i limiti costituzionali. Un termine che non dispiace affatto alla visione politica del Primo Ministro ungherese, per esempio, ma non solo. Anche i cittadini sembrano improvvisamente attratti da una svolta populista di natura democratica a livello elettorale, che spesso degenera in pratiche tutt’altro che democratiche nel contesto governativo. Il Partito del popolo danese, il Front National (Francia), Alternative für Deutschland, i Democratici svedesi, il Partito dei Finlandesi, l’Unione democratica di Centro (Svizzera), l’UKIP (Regno Unito) e, politicamente permettendo, la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle sono partiti cha cavalcano l’insoddisfazione generale e si affacciano sempre più nei giochi di potere istituzionali. Le singole personalità e i contesti variano, ma questo gruppo eterogeneo di partiti e candidati si nutre dello stesso malcontento.

Di solito gli elettori che si rivolgono ai populisti sono quelli che si sentono delusi dalla politica convenzionale e pensano di essere stati dimenticati, sul piano economico e culturale. Sono quelli che hanno visto diminuire i loro redditi o hanno perso il posto di lavoro perché la loro azienda ha spostato l’attività all’estero, o che semplicemente hanno visto i loro quartieri cambiare per effetto dell’immigrazione. Insomma, non sono elettori di serie B, ma cittadini prima di tutto.

Tuttavia, perché tendiamo ad etichettare il populismo come una risposta negativa ad i cambiamenti all’attualità? Dopotutto, questa diffidenza verso l’autorità è antica quanto la stessa repubblica che, non va mai dimenticato, è stata creata in un atto di ribellione contro un governo considerato troppo potente. Perché gli elettori sono naturalmente populisti, mentre i candidati scelgono espressamente di esserlo e, con rare eccezioni, cavalcano la paura per promettere qualcosa di irrealizzabile ma di idilliaco: proteggere dal cambiamento, fermare il mondo per tutti quelli che vogliono scendere. Senza nemmeno bisogno di vincere le elezioni, i populisti rimettono in discussione un sistema centenario radicalizzando l’opinione pubblica, rendendoci cinici di fronte alla possibilità della verità.

E così la fiducia nella democrazia vacilla. Qualcuno pensava, ragionevolmente, che la crisi avrebbe incanalato la rabbia contro il capitalismo invece che contro la democrazia. Molti elettori, però, si sono ormai convinti che il sistema economico non possa essere cambiato, che non esista un’alternativa credibile al capitalismo. E così, sul giradischi dell’opinione pubblica, non girano sentimenti di rivolta socialista o anticapitalista, ma sentimenti di odio e diffidenza che si diffondono come musica sensuale nelle menti di tutti gli elettori che hanno un vuoto di insoddisfazione da riempire.

Dentro un’elezione

Gaio Mario è un homo novus.

Mario è un demagogo che “si è fatto da sé”. Rispetto ai Gracchi, di cui è l’erede, appare decisamente più pragmatico e realista. D’altronde, il suo rapporto con le masse popolari può essere definito “strumentale”, motivo del suo successo.

Nonostante ciò, Mario è comunque un uomo ostile al Senato e alle vecchie Istituzioni politiche. Per questo motivo può essere considerato un democratico, erede della linea ideologica e politica dei Gracchi, in versione smart.

Isaac guarda il mare, da solo, scrutando l’orizzonte. Il confine tra cielo e mare non è chiaro, la Costa Azzurra è Blu, questa sera.

Il 23 Aprile 2017 è il giorno del primo turno delle elezioni Presidenziali francesi.

Amr e Nour guardano il viso sorridente di Marine Le Pen. Da buoni studenti stranieri non condividono la gioia del Front National, partito di estrema destra che è appena passato al secondo turno delle Presidenziali.

Non succedeva dal 2002, quando Jean-Marie Le Pen, padre dell’attuale candidata e xenofobo convinto, umiliò la sinistra qualificandosi secondo con un 0,7% di scarto rispetto al Partito Socialista di Lionel Jospin.

Al secondo turno, Jean-Marie Le Pen si trovò contro una coalizione “costretta” a schierarsi dietro alle spalle di Jacques Chirac, repubblicano alla ricerca del secondo mandato. Il 18% di preferenze del Front National è una sconfitta schiacciante, ma all’insegna del compromesso.

Le prospettive di voto per il secondo turno delle Presidenziali francesi, previste per il 7 maggio, prevedono una sconfitta simile per la figlia Marine, ma con una percentuale più vicina al 40%. Un miglioramento maturato in 15 anni di rinnovamento, di politiche più moderate ma pur sempre sotto la bandiera dell’odio e di un esagerato sentimento nazionalista.

Victor guarda senza commentare Emmanuel Macron che sale sul palco della vittoria. Un delirio di bandiere e di urla da concerto dei Beatles lo accoglie per celebrare un risultato incredibile. Con oltre il 23% dei voti, il candidato del movimento En Marche è arrivato in testa al primo turno delle Presidenziali.

“Cambiamento”, “innovazione”, “progressista”, “economia”. Ecco le parole chiavi del programma e della campagna di un candidato padre di un movimento politico ancora bebè, creato da appena due anni. Un candidato capace di distruggere il tradizionale confronto destra/sinistra che ha fatto la storia della vita politica francese. Un homo novus che ha dimissionato da un governo socialista in discesa continua per farsi strada verso una vittoria carismatica.

Mohammed è in Francia da appena 3 mesi. Studente curdo iracheno, prova ad analizzare la situazione politica di un Paese in cui quasi 10 milioni di elettori hanno votato per chiudere le frontiere della Francia per la sicurezza e l’ordine interno. Non è completamente abbattuto, perché vede in Emmanuel Macron un candidato “compromesso” che è sicuramente più moderato ed accettabile di Marine Le Pen. È convinto che la Francia, con la sua tradizione democratica, non possa commettere lo stesso errore degli Stati Uniti e del Regno Unito.

Tuttavia, tra gli sguardi intensi di dieci studenti di Scienze Politiche aleggia leggero un senso di incertezza, di insicurezza, di paura. I corsi di Istituzioni Politiche, di Sociologia, di Storia, di Diritto, di Economia non bastano per guardare al futuro con una prospettiva chiara e prevedibile.

L’unica certezza?  Il ruolo preponderante di discorsi populisti, che hanno la qualità di parlare al cuore della gente e il difetto di nascondere politiche inattuabili, e quello dei media di massa, che attraverso sondaggi quotidiani e apparentemente univoci hanno involontariamente condizionato un risultato annunciato (ma che alla fine qualifica ben quattro candidati in 4 punti percentuali di scarto).

Bastano queste certezze per far dare alla Francia sogni tranquilli?

Lo scopriremo nella prossima puntata.

Storia diversa per gente normale

Cosa possono avere in comune un pensionato, un proprietario di una cava, un procuratore della Repubblica e un cassiere del cinema?

Forse le spese di condominio, forse lo stesso medico di base. O forse il fatto di essere in una lista insieme ad altre 900 persone. Una lista che da più di vent’anni viene letta in numerose città italiane, dal primo all’ultimo nome, “per non dimenticare”.

Ogni 21 marzo, primo giorno di primavera, l’associazione Libera celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, perché in quel giorno di risveglio della natura si rinnovi la primavera della verità e della giustizia sociale.

Nell’immaginario comune, il termine “vittime di mafia” viene immediatamente associato a giudici e procuratori passati alla storia per le loro coraggiose azioni: Falcone, Borsellino, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici.

Eppure in questa lista, troppo affollata per rinchiudere solo personaggi celebri, compaiono nomi di ogni genere ed età, che bussano puntuali tutti gli anni alla coscienza dello Stato italiano.

Chi sono le vittime di mafia?

Onofrio Valvola era semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato quando, nel dicembre del 1981, venne ucciso casualmente in una sparatoria tra gruppi mafiosi rivali.

L’ingegnere Gennaro Musella aveva sentito la puzza dell’illecito e, alla ricerca di giustizia per la sua azienda, aveva presentato esposti contro il Genio civile che aveva favorito un’associazione di imprese di Catania per la costruzione del porto di Bagnara Calabra.

Pietro Scaglione è un procuratore della Repubblica, il cui nome non figura nella memoria comune, ma il cui onesto lavoro è bastato per finire nel mirino di Cosa Nostra. Viene ucciso a Palermo il 5 maggio 1971, insieme al suo autista Antonino Lo Russo.

Gli occhi di Salvatore Benigno si illuminarono in una notte dell’agosto 1986, quando videro due mafiosi dare alle fiamme un’auto dopo aver commesso un omicidio. Una luce di testimonianza che venne spenta con un altro omicidio, davanti al cinema in cui l’innocente cassiere lavorava.

I racconti potrebbero durare per pagine e pagine, riempiendo tutte le righe della memoria con storie di innocenti che hanno perso la vita a causa di un sistema mafioso. « Storia diversa per gente normale » canta nel mio orecchio il buon vecchio De Andrè, che aveva dedicato una canzone ad uno scrittore che non condivideva niente con le vittime di mafia se non il crimine dell’innocenza: Pier Paolo Pasolini.

Gente normale la cui vita è stata sconvolta da giochi di potere, da casuali fatalità, da punizioni nel nome dell’illegalità. Gente normale che viene ogni anno ricordata in occasione del 21 marzo. Gente normale che non è mai riuscita ad uscire dal circolo vizioso dell’indifferenza, perché la memoria può evitare di commettere gli stessi errori mentre “restare cornuti”  è una solida basa per poterli commettere di nuovo.

 « Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna…»  affermava Leonardo Sciascia nel 1961  rompendo il silenzio editoriale con il primo sincero romanzo-denuncia sull’apparato mafioso siciliano.

E mentre guardavo le facce di alcuni miei compagni di università francesi, spagnoli, egiziani, marocchini e americani riuniti davanti a “La mafia uccide solo d’estate”, il brillante film di Pif, ho provato sulla mia pelle la difficoltà di costruire una memoria collettiva per il futuro di una Stato che non dimentica, ma commemora per imparare.

« Io non mi sento cornuto » disse il giovane.

« E nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo… ».

Ogni giorno, non solo il 21 marzo, dovremmo alzare la musica della memoria e dell’impegno per rompere il silenzio dell’indifferenza, e ballare sulle nostre note.

Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!