Un popolo che cammina

Con una mano prese il piccolo contenitore di vetro con dentro un lumino e lo avvicinò ad una candela, sottile e accesa, che teneva nell’altra mano. Si sfiorarono e subito brillò una piccola luce all’interno del vasetto. Accese così, una dopo l’altra, altre sette fiamme sottili in altrettanti contenitori di vetro posati per terra di fronte alla pedana.
Quando ebbe finito tornò a sedersi tra gli altri ragazzi sul tappeto rosso che copriva tutto il pavimento del padiglione.
Cantavano insieme scandendo le strofe sul ritmo lento della musica.
«Nada te turbe, nada te espante, quien a Dios tiene, nada le falta»
In un attimo le voci si spensero e fu silenzio. Rimanevano solo le parole limpide di un uomo che, inginocchiato sopra la pedana, leggeva:
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce»
Il brano continuava e l’uomo diede voce a quei versi millenari. Poi un altro, accanto a lui lo rilesse in una lingua diversa e poi un altro, in un’altra lingua ancora.
Intorno a lui alcuni avevano chinato la testa sulle ginocchia raccolte al petto, altri rivolgevano lo sguardo verso gli occhi della figura dipinta sul legno di fronte a loro. La ragazza che aveva acceso i lumini ora si rigirava tra le dita quella candela sottile con cui aveva acceso tutte le altre.
Dietro la pedana un telo arancione pendeva dal soffitto, fino a toccare il pavimento di pietra. Tre fili trasparenti lo tenevano teso verso l’alto. Era saldo, assicurato com’era a quei fili invisibili.
Ancora più indietro c’erano diversi faretti che riempivano l’aria di una luce arancione come il telo e gialla come le fiamme delle candele.
Quando l’ultimo uomo sulla pedana finì di leggere ci fu silenzio e poi di nuovo l’immenso padiglione si riempì di musica, poi ancora silenzio.
Ogni persona prendeva parte a quel susseguirsi di canti e meditazioni. Si sovrapponevano lingue diverse, volti pallidi e scuri.
Ad un tratto alcune persone si alzarono e si incamminarono verso il fondo del padiglione, subito altri li seguirono. Arrivati di fronte alla pedana si inginocchiarono, per qualche minuto appena. Alcuni chiudevano gli occhi e muovevano le labbra pronunciando parole mute. Poi un po’ alla volta si rialzavano, tornavano indietro, raccoglievano le loro giacche e gli zaini, e parlando e sorridendo silenziosamente uscivano.

(Foto di Caterina Basiglio)

È questa libertà che cercavamo?

1849
La polvere bianca si alzava dalle strade di campagna, danzava portata dal vento, attraversava il silenzio dei paesi e, finito il suo viaggio, si adagiava di nuovo a terra.
Alcuni granelli di polvere entravano nelle case abbandonate e si posavano sulle sedie rovesciate, sui portagioie vuoti buttati sul pavimento, sul tavolo ancora apparecchiato, nell’angolo in fondo alla cucina. Altri invece, nel loro percorso, incontravano porte chiuse, luci spente, campi lasciati incolti, occhi spaventati che si nascondevano dietro finestre con pesanti tende di tela bianca.
Un uomo era seduto su uno scalino davanti alla porta di casa, la schiena appoggiata al muro, mentre teneva fra la braccia la figlia. La mano piccola e delicata della bambina appena nata si muoveva, guidata da quella forte del padre, nel tentativo di salutare un altro uomo dietro la macchina fotografica.
Sullo stesso scalino di pietra, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, avvolta in un vestito nero, una donna li guardava. Con gesti precisi, meccanici, incrociava fili di lana ispidi, creando un panno marrone informe. Sembrava esausta, schiacciata da una forza invisibile.
«Sa di tempo rubato alla morte, Marco»
Nessuna risposta.
La bambina arricciò il naso e strinse gli occhi infastidita, avvicinò le mani al viso paffuto agitandole davanti a sé e sternutì: alcuni granelli di polvere avevano cercato di posarsi davanti alle sue narici. Il rumore echeggiò cupo tra le strade deserte per disperdersi poi nell’aria limpida di marzo.
«Marco rispondimi! È questa libertà che cercavamo? È per questo silenzio che sono morti i miei fratelli e tutti gli altri partigiani come loro?»
L’uomo alzò lo sguardo dalla figlia, che si stava dolcemente addormentando, per lasciarlo vagare tra i sentieri di montagna che vedeva davanti a sé, lo lasciò scivolare lungo le creste ancora innevate, giù fino alle valli, dove si scorgevano i primi paesi.
Poi lentamente si girò, fissò negli occhi la donna che aveva affianco, e rispose:
«Sì, è per questo silenzio, per non sentire più il rumore sordo degli spari.»

Simone

Simone era rannicchiato sotto il suo letto nell’angolo più buio, quello tra la parete e l’anta bianca dell’armadio. Le mani piccole e paffute disponevano scrupolosamente in file di cinque alcuni areoplanini di carta, spolverandoli e controllando che fossero piegati nel modo giusto. Rimase fermo un attimo ad osservare lo spicchio di luce che si era posato sul suo schieramento di areoplanini.

Quel lampo di luce fu subito seguito da un tuono: «Simone, dove sei?»

I passi della madre si avvicinavano al letto.

Il bambino si infilò rapido tra uno scatolone ed un altro e in un attimo fu in piedi, tra la mamma e il suo rifugio.

«Hai il pigiama pieno di polvere, cosa facevi sotto il letto?»

Simone spostò il peso del suo corpo da una gamba all’altra in un dondolio incerto, le sue mani si cercavano per stringersi in un groviglio di dita in continuo movimento. Abbassò lo sguardo e sfregò tra di loro le ginocchia, fino a che il batuffolo di polvere che si era aggrappato alla morbida stoffa del pigiama non cadde a terra.

La madre proseguì: «Cosa hai fatto alla mia agenda?»

Il bambino aprì la bocca un paio di volte, ma il suo sforzo di dare una spiegazione finiva sempre in una silenziosa smorfia di disagio.

Alzò timidamente i grandi occhi neri sulla mamma, che teneva minacciosamente in mano l’agenda con le pagine strappate agitando quello che rimaneva dei suoi appunti davanti al suo viso.

Gli occhi di Simone iniziarono a rimbalzare velocissimi da un punto ad un altro della stanza fermandosi per pochi secondi su alcuni oggetti per poi scartarli e continuare nella loro ricerca.

«Non cercare scuse»

Allora Simone si chinò piano, strisciò sotto il letto con l’abilità di un esperto, di chi percorre quella strada tutti i giorni. Le sue piccole dita afferrarono con delicatezza gli aereoplanini. Dopo interminabili minuti il suo viso paffuto, incorniciato dai riccioli neri, fece capolino da sotto il letto. Si fermò ancora qualche secondo, Accovacciato sotto le assi di legno e poi, esitante, uscì dal suo nascondiglio, cercando di proteggere tra le braccia una pila di areoplanini.

I LUOGHI COMUNI SULL’ALIMENTAZIONE

Troppi nutrizionisti improvvisati o falsi siti che dettano le regole per come condurre una dieta sana ed equilibrata. Sfatiamo qualche credenza!

I PRODOTTI BIOLOGICI SONO PIU’ NUTRIENTI

Spesso siamo spinti a credere che i prodotti provenienti da coltivazioni biologiche abbiano un contenuto nutrizionale superiore rispetto ai prodotti convenzionali. Questo è da smentire: i prodotti biologici, infatti, non contengono più principi nutritivi. È però vero che i prodotti Bio hanno un contenuto di sostanze fitochimiche superiore (antiossidanti, antiinfiammatori, antimutageni), molte delle quali incidono favorevolmente su alcune patologie come il cancro o l’ictus; inoltre non contengono residui di prodotti chimici e non inquinano l’ambiente.

LA PASTA FA INGRASSARE

La pasta è un alimento ricco di carboidrati complessi, i quali costituiscono una fonte di energia essenziale per il nostro organismo. Di per sé la pasta contiene pochi grassi saturi e ha un indice di sazietà alto che dura a lungo (positivo perché durante la giornata, per eliminare la fame, si potrebbero consumare snack non troppo salutari).

Per non ingrassare mangiando questo alimento è sufficiente non eccedere con le porzioni e scegliere con attenzione i condimenti, ad esempio evitando sughi troppo elaborati.

LA CARNE BIANCA È PIÙ MAGRA DI QUELLA ROSSA

In alcuni casi può essere vero, ma dipende tutto dal taglio e dal tipo di carne rossa a cui si paragona la carne bianca. Ci sono infatti tagli rossi molto più magri di una coscia di pollo, ad esempio. C’è inoltre da dire che gli animali che forniscono carne bianca (come polli e tacchini) sono spesso allevati in condizioni critiche, sottoposti a numerosi rischi di malattie: per eliminare il problema, vengono applicati trattamenti e somministrati antibiotici, che si riversano nella carne che mangiamo.

LA FRUTTA È UN ALIMENTO DIETETICO, DA CONSUMARE IN QUANTITÀ

La frutta rientra per definizione nel cibo più salutare che ci sia, ma è bene fare alcune precisazioni. Infatti, bisognerebbe sempre mangiarla a stomaco vuoto, quindi mai a fine pasto: questo perché nel momento in cui si è mangiato altro prima, essa rimane bloccata nello stomaco, generando una fermentazione anomala, che crea gonfiore, gas intestinale e incapacità di assimilare correttamente il cibo ingerito. Inoltre, è bene non eccedere nelle quantità, poiché con un elevato livello di fruttosio si osserva una spiccata sintesi di acidi grassi (che formano tessuto adiposo).

LO ZUCCHERO DI CANNA GREZZO È MIGLIORE RISPETTO ALLO ZUCCHERO BIANCO

Sono entrambi zuccheri costituiti da saccarosio, un disaccaride che durante la digestione l’organismo scinderà in fruttosio e glucosio. Sono entrambi lavorati, cambia solo il livello di raffinazione: le loro caratteristiche chimiche sono praticamente le stesse. È diverso invece lo zucchero di canna integrale, il quale non subisce alcun processo di raffinazione e mantiene tutte le proprietà nutrizionali. In assenza di quest’ultimo, è preferibile optare per dolcificanti, meglio se naturali.

Intervista a Michela Murgia – SIC 2016

Lei dunque capirà è il titolo di un libro di Claudio Magris, in cui l’autore rivisita il mito greco di Orfeo ed Euridice in chiave moderna e da un punto di vista del tutto nuovo. Venerdì sera a scrittorincittà Michela Murgia ha dato voce alle parole di Euridice e i musicisti del conservatorio G.F. Ghedini hanno fatto rivivere la musica di Orfeo.

Claudio Magris nella sua versione del mito mette in luce più la figura di Euridice, che era sempre stata un personaggio senza identità, rispetto a quella di Orfeo. È lei infatti a fare in modo che Orfeo si volti verso di lei, perdendo la possibilità di riportarla tra i vivi. È come se Euridice capisse che il tentativo di tornare al passato non avrebbe portato a niente di buono.

Il titolo del testo, Lei dunque capirà, è la frase con cui Euridice alla fine si rivolge al Presidente dicendo che lui dunque capirà perché lei è ancora lì e non è andata via, nonostante lui avesse dato a Orfeo il permesso di venirla a prendere. Ma è una frase ambigua, non vuole dire solo questo. Significa anche che lei, Euridice, capirà. Nel tempo dell’attesa, nel tempo del cammino, in cui Orfeo la precede e lei lo segue, anche lei intuisce quello che non aveva compreso da viva: capisce che solo gli amori delusi vanno creduti. Gli amori perfetti non sono veri. Attraverso il filtro della morte lei riesce a capire quello che in vita non aveva capito.
Descrive, infatti, questo amore contradittorio, in cui lui la emoziona, la fa diventare una grande donna attraverso i sentimenti che le suscita, ma allo stesso tempo la abbruttisce, la usa, la strumentalizza, le dice di battere lei le poesie a macchina per lui, le mette le corna. È un vero amore, però, perché è un amore deluso. È una grande intuizione che poteva venire solo ad una donna o ad un grandissimo scrittore come Claudio Magris. Il suo sguardo infatti è quello di una donna, innamorato ma allo stesso tempo conscio di che razza di filibustiere ha sposato.
Ci sono dei passaggi in cui lei dice che lo giudica, lo giudica per tutto, lo incolpa per tutto, di cosa non sa bene, ma di qualcosa sempre. Lei è soverchiante, dominante, perché chi ha il potere dell’accusa ha il potere di far sentire l’altro sempre in colpa, lo incatena alla sua stessa insufficienza.

Forse allora non è vero che lo specchio dell’altra parte è esattamente uguale…

In realtà è uguale, ma secondo me quello che Magris dice, e che ha detto a suo tempo anche il mito, è che dall’altra parte c’è una quiete che qui possiamo solo desiderare. Ed è in quella quiete che si vede meglio la nostra frenesia e si capisce meglio quanto poco abbia senso. Dall’altra parte non c’è un tempo che finisce e quindi non c’è fretta, mentre qui sì, qui abbiamo tutto contato.

Con la collaborazione di Anna Mondino

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