Intrecci

Fatma ha tredici anni e i capelli crespi, di un arancione scuro, un po’ sbiadito, che tiene legati in tante trecce sottili lunghe fino al fondo della schiena. Vive a Iskenderun, una cittadina nel sud della Turchia, insieme alla mamma, al papà e alla sorella.
Ogni volta che torna da scuola, percorrendo a piedi la strada sterrata che attraversa il paese, raccoglie un sasso, una molletta, una monetina o qualsiasi altro piccolo oggetto che trova per terra. Uno solo, mai di più. Lo libera dalla polvere che lo avvolge e lo guarda con attenzione fino a quando arriva a casa. Entra in camera sua, prende la grande scatola che tiene sotto il letto e lo mette lì dentro, immerso tra le cianfrusaglie raccolte i giorni precedenti.
Oggi ha trovato un’orecchino a forma di fiore. L’ha visto brillare ai piedi del muro di una vecchia casa distrutta ed è subito corsa a vedere cosa fosse. Era bellissimo, luccicava. Mentre lo afferrava  ha notato che sulla parete ormai scrostata dell’abitazione c’erano delle scritte nere. Gran parte dell’intonaco si era sgretolato, si intravvedevano solo poche parole sbiadite.
Rimaneva leggibile una data, 24 aprile, ma al posto dell’anno c’erano solo mattoni crudi. Più in basso, coperta dall’erba secca, si vedeva ancora una parola: soykirim, genocidio.
Tornando a casa Fatma si era rigirata l’orecchino tra le mani mentre ripeteva a voce bassa quelle otto lettere. Era arrivata davanti alla porta dell’abitazione, era entrata continuando a sillabare la parola con le labbra e, anzi che andare subito in camera, si era diretta verso la cucina.
«Mamma devo chiederti una cosa», aveva detto avvicinandosi alla donna china su un vecchio tavolo di legno, intenta a tagliare alcune verdure.
Lei aveva posato il coltello e aveva sollevato il viso verso la figlia.
«Ho trovato un’orecchino mentre tornavo da scuola» e lo aveva posato sul tavolo, spingendolo verso la madre.
«Sembra prezioso Fatma», le aveva risposto sorridendo, «è per questo che sei così pensierosa?Non devi preoccuparti, puoi tenerlo! La signora che lo ha perso se ne sarà sicuramente dimenticata».
«Non è per l’orecchino. Mentre lo raccoglievo ho letto su un muro questa parola, soykirim, non so cosa vuol dire. A scuola non l’ho mai sentita».
«Io neanche… Non lo so Fatma, non l’ho mai vista prima. Sarà una parola che hanno scarabocchiato dei ragazzi o magari hai letto male tu. Cosa importa?
Ora vai a posare il tuo nuovo orecchino in camera e poi vieni a darmi una mano, tuo padre sta per arrivare e non ho ancora finito di preparare pranzo».

Camila

«Come sta la bambina?»
«È andato tutto bene, non preoccuparti. È in camera, vuoi vederla?»
«Sì, grazie. Volevo farle vedere il neonato prima di portarlo alla sua nuova famiglia.»
Entrarono insieme nella stanza dell’ospedale.
Camila, dodici anni, era rannicchiata nel letto con gli occhi chiusi. Si accorse, però, che era arrivato qualcuno, aprì gli occhi e alzò lo sguardo. Quando vide l’uomo slanciato, in piedi alla destra di quello con il camice, che teneva fra le braccia un bambino, si mise subito a sedere e sgranò gli occhi.
«Vuoi tenerlo?», le chiese lui.
«Sì, posso?»
Lui si avvicinò e le posò delicatamente tra le braccia il piccolo, sorridendole: «Fai attenzione».
Anche Camila sorrise, con le braccia scosse da tremiti sottili e gli occhi fissi su suo figlio.
«Si chiama Rafael, va bene?» gli chiese la bambina.
«Sì, certo. Ora però devi lascarmelo.» Disse lui mentre si protendeva verso di lei, pronto a prendere il bambino.
«Aspetta, devo dargli una cosa.»
L’uomo prese il neonato dalle braccia di Camila e lei scese dal letto. Si chinò su uno zaino che era appoggiato lì vicino, contro la parete bianca, e si rialzò tenendo in mano due teli sottili che servivano per ripararsi dal sole.
Sollevò lo sguardo verso quel viso adulto e glieli mostrò.
«Ho fatto questi per lui. Li ho ricamati io, perché si ricordi che sua madre gli ha dato tutto quello che poteva.
Tieni, dalli alla famiglia in cui andrà.»
Lui si chinò verso la bambina, lei appoggiò i teli sul neonato e poi rimase ferma ad osservare i due uomini che uscivano dalla stanza.
Quando la porta si fu chiusa alle loro spalle l’uomo con il camice bianco appoggiò una mano sulla spalla dell’altro e con gli occhi fissi sul bambino gli chiese: «Ma chi è il padre?»
La domanda riecheggiò nel corridoio vuoto mentre i due ripresero a camminare.
Dopo qualche passo la risposta arrivò a bassa voce, sussurrata e tremante: «Il padre di Camila».

Tristezza d’oro

Verona, 11 marzo 2018

Un uomo si inginocchia sull’asfalto e posa una valigia davanti a sé. La gente gli passa vicino, devia per non urtarlo, procede veloce senza accorgersi della sua presenza, rallenta per osservarlo meglio, continua a camminare; nessuno si ferma.

Lui apre la valigia e, dopo aver tirato fuori uno specchio, alcuni travestimenti, un cappello, un colletto voluminoso e dei trucchi, la richiude. Posa gli oggetti su quel ripiano improvvisato e inizia a prepararsi.

Si china e intinge le dita nella tempera oro. Sistema l’angolatura dello specchio consumato, chiude gli occhi e si spalma il colore sul viso, poi sul collo e sulle mani. Li riapre per controllare il risultato, si saggia la pelle con le dita e muove i polsi fino a rendere elastico lo strato di colore. Si infila il colletto bianco, un bel sorriso divertito, un paio di pantaloni dorati e una camicia e rimette il resto nella valigia. Poi ci sale sopra e allunga la mano che regge il cappello verso i passanti.

Sta così, fermo e sorridente, per qualche ora. Sotto il sole del primo pomeriggio, in mezzo al chiacchiericcio della strada.

Quando qualcuno rallenta lui fa un inchino e sorride ancora di più. Ogni tanto qualche monetina tintinna cadendo sulle altre nel capello. E allora inchini ancora più profondi, fino a sfiorare l’asfalto con la mano.

Quando si fa sera, le strade diventano silenziose e il vento freddo, lui scende dalla sua valigia. Svuota il cappello nella mano e mette le monete in tasca, si toglie il colletto e i vestiti, li piega con cura e li posa, insieme al sorriso, nella valigia.

Briciole di case

Una piccola mano, sporca di polvere rossa e fango, si stringe intorno ad una sporgenza nella parete di roccia, le dita affondate nei solchi tra le pietre. Si tendono i muscoli dal polso alla spalla, si irrigidisce il collo, il bambino digrigna i denti e sale di qualche metro in più verso l’alto.
Quando si sente stabile, ancorato alla roccia, si ferma per riprendere fiato. Appoggia la testa contro la parete e cerca di calmare il respiro affannoso. Si guarda intorno: sotto di lui si snoda una terra di sabbia e rovine, l’aria trasporta il rumore di spari ed esplosioni.
Poi alza lo sguardo e riprende a salire. La roccia ruvida sfrega contro le sue gambe, ma alla cima dell’altura non manca molto.
Le mani si aggrappano a solchi sempre più in alto fino a che, sollevando il braccio per spostarlo all’appiglio successivo, il bambino trova la cima. Fa forza e si tira sù. Appoggia il ginocchio sulla terra rossiccia e si alza in piedi.
Sull’altura c’è un uomo, mitragliatrice sulle spalle e sguardo perso verso l’orizzonte.
Il bambino si mette a correre verso di lui, sulla cresta della montagna. Lo raggiunge con pochi passi e gli dice agitato: «Stanno bombardando la moschea devi venire subito!»
«Non dovevi salire fino a qui, è pericoloso», gli risponde l’uomo senza voltarsi.
Il bambino lo afferra per un braccio e lo scuote: «Hai capito? Stanno distruggendo la moschea, devi andare a combattere!»
«Non serve combattere quando vengono lanciate bombe dal cielo; calmati»
Il bambino gli lascia andare il braccio con rabbia: «Non puoi lasciare che bombardino la casa di Allah. Se distruggono la sua casa lui poi dove va a vivere?»
«Allah non ha bisogno di case»
Il bambino rimane per un po’ in silenzio, in piedi accanto all’uomo a guardare il fumo che sale verso il cielo fino a confondersi con le nuvole.
Poi gli chiede: «Perché non vai ad aiutare gli altri?»
Nessuna risposta.
Il bambino si china, raccoglie una sassolino e lo lancia nel vuoto di fronte a lui. Dopo un paio di secondi la pietra sparisce, senza fare rumore, sembra che non abbia mai toccato terra, che si sia semplicemente dissolta nella caduta.
«Anche della moschea rimarranno solo più pietre e sassi vero? Come quelli che si vedono da qua»
«Temo di sì Alì, ma tu devi preoccuparti delle case degli uomini, sono loro che ne hanno bisogno. Allah è qui per prendersi cura di noi, non siamo noi a dover proteggere lui»

Ladri di parole

Una signora con un cappotto rosso camminava a passo svelto verso l’ingresso di un grande edificio di vetro e acciaio da cui si intravvedevano le stampatrici all’opera. Aveva degli stivali neri con il tacco che facevano un rumore secco, ritmato, ogni volta che appoggiava il piede per terra. Tac, tac, tac.

Sollevò lo sguardo verso la scritta sopra la porta, quasi per controllare se fosse proprio nel posto giusto. E sembrava che sì, quello fosse proprio il luogo verso cui era diretta, perché senza esitare avanzò verso l’entrata. Tac, tac, tac.

Rimase però sulla soglia: un uomo vestito di nero, in divisa, le bloccava la strada.

«Ha bisogno di qualcosa signora?»

«Evidentemente sì, altrimenti non sarei venuta. Le sarei grato se mi facesse passare, ho una certa urgenza.»

L’uomo rimase ancora qualche secondo fermo, interdetto, ma ormai era palese che la loro tacita sfida fosse stata vinta da quella signora con il cappotto rosso. Sconfitto, si fece da parte lasciando passare la donna che si diresse verso la segreteria, al fondo del corridoio.Tac, tac, tac.

Arrivata davanti alla lunga scrivania, che correva da un lato all’altro della stanza, si bloccò. Batté i piedi sul pavimento e si schiarì la voce cercando di attirare l’attenzione delle due segretarie che erano chinate sullo schermo di un computer, concentrate su qualcosa che da dietro la scrivania non si vedeva. Tac, tac, tac.

Alzarono lo sguardo contemporaneamente verso la signora che, sfilandosi i guanti dalle mani, disse: «Sono venuta a ritirare il mio pacco». Una delle due ragazze, capelli scuri un po’ crespi, occhi neri, fisico asciutto, rivolse uno sguardo smarrito all’altra: non capiva cosa ci facessero lì quella signora e la sua richiesta così inappropriata, non era un ufficio postale il loro.

L’altra, invece, riconobbe subito la donna con il cappotto rosso e intuì il motivo per cui era venuta. Lo capì con la chiarezza delle cose che non si vogliono vedere, ma che ad un certo punto, anche se abbiamo cercato di evitarle, di coprirci gli occhi, di guardare a terra, ci si piazzano davanti. Capì e impallidì. Parlò velocemente, in prenda all’ansia: «Non so di che pacco stia parlando. Tra poco arriveranno gli studenti, alle dieci iniziano le lezioni, la prego di andarsene, non posso esserle di aiuto».

La signora, invece, rimase immobile e rispose con tranquillità: «Può eccome. Non uscirò di qui senza il mio pacco. E non mi guardi così cara, di cosa ha paura? Non è stata colpa sua se per anni qualcuno ha cercato di tenere nascosto questo segreto, se hanno rubato le mie storie. Ora su, vada a prendermi quello che mi spetta».

Quando ebbe finito di parlare si sbottonò il cappotto e si sedette su uno dei divani. Tac, tac, tac.

Aspettava calma, abbandonata sui cuscini, certa che le prove sarebbero state inconfutabili.

Chi vince ogni giorno

Cuneo, 24 novembre 2017

Il numero 49 era incollato sullo stipite della porta verniciata di grigio come tutte le altre lungo il corridoio. Le pareti intorno erano beige, scrostate in alcuni punti. La porta a sinistra, la 48, era socchiusa: si sentiva una musica ritmata e si intravvedeva un uomo sulla cinquantina, jeans sbiaditi e canotta, che cantava di fronte ad uno schermo. Al suono della canzone se ne aggiungevano altri, provenienti dagli appartamenti vicini. C’era rumore, ma si riuscivano lo stesso a distinguere i passi di qualcuno che si avvicinava e che, arrivato davanti al numero 49, posò a terra un vassoio avvolto in una carta rosa. Si affacciò alla porta accanto e disse: «Ho lasciato qualcosa da mangiare per Giovanni»
L’uomo all’interno dell’appartamento annuì senza smettere di cantare.
Passò quasi mezz’ora prima che si sentissero altri passi nel corridoio.
Era una donna giovane, vestita con abiti sportivi, che si avvicinò al 49, aprì ed entrò, lasciando il vassoio lì dov’era, sullo zerbino. Uscì poco dopo stringendo tra le mani un sacco nero della spazzatura e chiuse la porta dietro di sé allontanandosi verso l’uscita della palazzina.
Erano quasi le cinque quando arrivò Giovanni. Aveva le cuffie alle orecchie e faceva oscillare la testa a ritmo di musica. Frugò per qualche secondo nelle tasche, tirò fuori le chiavi e entrò al numero 49. Prima di chiudere la porta dietro di sé si chinò a raccogliere il vassoio. Tenendolo in mano con attenzione fece qualche passo verso il tavolo che si trovava sulla sinistra della disordinata cucina e, spostando alcuni CD abbandonati lì sopra, lo posò. Sollevò la carta rosa che ricopriva la confezione e intravvide focaccine, pizzette, qualche biscotto e un paio di pezzi di torta di mele. Ne prese una fetta canticchiando la canzone che aveva ancora nelle orecchie. Mentre andava verso il divano si inciampò in un filo dimenticato per terra, probabilmente il carica batterie di qualcosa, e cadde tra i cuscini. Sorrise. Si sistemò e, sollevando qualche rivista e un cumulo di capi di abbigliamento, prese in mano un joystick. Accese la televisione e iniziò la prima partita. Era in svantaggio: era appena incominciata e già avevano ucciso il suo compagno. Era rimasto solo e i suoi avversari lo inseguivano su tortuose stradine che mano a mano di materializzavano sullo schermo. Gli sparavano. Le dita si muovevano rapide da un tasto all’altro per evitare i colpi e per fuggire il più in fretta possibile. Prese una scala che saliva, poi svoltò a sinistra, si girò per sparare qualche colpo e cercare di liberarsi di qualcuno dei suoi nemici. Ne uccise alcuni e continuò a correre. Ancora qualche metro e poi si voltò di nuovo, non era più molti. Nascondendosi dietro ad un muretto colpì quelli rimasti. E vinse.

Giovanni, 29 anni, vive solo da tre e da uno non prende più farmaci. Dopo aver passato gran parte della sua vita in comunità di riabilitazione psichiatrica, grazie al progetto “Habitat”, ora ha una vita normale. Guadagna tra i 300 e i 400 euro al mese per una borsa lavoro. Alcuni operatori lo vanno a trovare un paio di volte a settimana, gli riempiono la dispensa e lo aiutano a riordinare l‘appartamento. Giovanni ha vinto la sua battaglia contro la psicosi, superando ogni aspettativa.

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