“Genesi” di Sebastiao Salgado in esposizione a Venaria

“Un canto d’amore per la Terra e un monito per gli uomini”

 

Un giaguaro che mentre si abbevera ad un corso d’acqua lancia di rimando all’osservatore uno sguardo attento, maestoso ma mansueto, come un sovrano buono. La zampa squamata di un’iguana che brilla come la corazza di un guerriero medievale. Due giovani etiopi che offrono il loro volto in cui spicca, nel rispetto delle pratiche tradizionali, un grande disco labiale. Una sconfinata distesa di ghiaccio sulla quale marciano centinaia di pinguini che si rimpiccioliscono progressivamente, fino a diventare quasi formiche, grazie al gioco prospettico. Sono queste alcune delle più di duecento fenomenali immagini che compongono Genesi, l’ultimo lavoro del fotografo di origine brasiliana Sebastião Salgado, in esposizione dal 22 marzo al 16 settembre 2018 a Torino presso la Reggia di Venaria. La mostra raccoglie fotografie di animali in via di estinzione e non, uomini di tribù indigene e paesaggi mozzafiato in un itinerario suddiviso in cinque sezioni: “Il Pianeta Sud”, cioè l’Antartide con i suoi ghiacciai, “I Santuari della Natura” ovvero le isole culla della biodiversità, “l’Africa” e i suoi deserti, il “Il grande Nord” con la taiga dell’Alaska, e “L’Amazzonia e il Pantanàl”, polmone verde della Terra. Le immagini sono affiancate da accurate descrizioni ricche di preziose informazioni scientifiche e antropologiche.

Anche gli amanti della fotografia a colori si troveranno rapiti da un bianco e nero che lega tutte le immagini come pagine di un’unica grande storia e che rende ogni dettaglio, dalla pelle coriacea dei caimani del Pantanàl alla finissima grana delle dune del deserto algerino, palpabile. Un bianco e nero che contribuisce inoltre a sottolineare le solennità dei soggetti immortalati dall’occhio attento e rispettoso, mai invadente, dell’autore; i capolavori di Salgado non sono infatti solo dotati di grande perfezione formale ma racchiudono un contenuto che potrebbe dirsi quasi morale. E davanti ad ogni soggetto immortalato si ha realmente la sensazione di essere al cospetto di qualcosa di biblico e primordiale.

Il progetto che ha portato alla creazione di questo lavoro nasce infatti dalla volontà di ritrovare e consacrare per sempre in un’immagine ciò che, come spiega lo stesso Salgado, è rimasto “esattamente come nel giorno della Genesi” (inaspettatamente, circa la metà del pianeta). Un canto d’amore per ciò che è scampato dall’abbraccio soffocante di uno sviluppo insostenibile, ma anche un’esortazione alla sua conservazione e salvaguardia, a fare un passo indietro. Una richiesta d’aiuto alla quale Salgado si è impegnato in prima persona a rispondere concretamente: su suggerimento della moglie Lélia ha avviato a partire dagli anni novanta un ambizioso progetto di riforestazione nel sud-est del Brasile, attraverso l’organizzazione no-profit Instituto Terra, che ha come obiettivo il ripristino dell’ecosistema, a cui si affiancano programmi di ricerca scientifica, educazione ambientale e sensibilizzazione (www.institutoterra.org ).

Genesi è il risultato di un viaggio durato dieci anni che ha portato il fotografo in trentadue diverse destinazioni, comprendendo molte tappe prive di “strade” intese nella concezione moderna del termine: Salgado ha ad esempio attraversato l’Etiopia a piedi, per un totale di circa 80 giorni di cammino. Questo progetto segna il suo passaggio da un approccio più umanitario a uno naturalistico, senza però rinunciare, come si è detto, ad una fotografia- reportage con finalità attiva, di monito ed esortazione. Il fotografo, economista di formazione, ha in passato documentato fra le altre cose la siccità del Sahel, l’incendio dei pozzi petroliferi ordinato da Gheddafi alla fine della Guerra del Golfo, le condizioni lavorative nei settori di base della produzione, da cui è risultata la monumentale pubblicazione di 400 pagine La mano dell’uomo, (Contrasto, 1994), per poi passare all’umanità in movimento; migranti profughi e rifugiati di tutto il mondo, i cui ritratti sono raccolti in due libri di grande successo: In cammino e Ritratti di bambini in cammino (Contrasto, 2000).

Ma lo stretto e prolungato contatto empatico con il dolore e la violenza ha portato Salgado ad ammalarsi: è in particolare il periodo passato a documentare il genocidio in Ruanda, che lo ha trascinato in uno stato depressivo sfociato in una sofferenza fisica, spingendolo addirittura a dichiarare di voler smettere il suo lavoro. Nonostante tutto questo non è accaduto, e dopo un periodo di tranquillità e ripresa ha intrapreso il viaggio del quale Genesi è il frutto. Una mostra da non perdere, carica di stupefacente bellezza formale e ricca di contenuti, di un grande artista che così spiega il suo lavoro in un’intervista a Benedikt Taschen: “La fotografia è una sorta di fenomeno: […] c’è un legame tra i soggetti e la fotocamera e tu diventi parte di questo sistema. Ogni elemento concorre al risultato e tu arrivi al massimo quando sai che non puoi ottenere un’immagine migliore. Cresci insieme al fenomeno, sei parte del fenomeno, e “vieni fuori” da quello. È un piacere immenso fotografare.”

Alhelì: una storia di storie, piccoli grandi narratori e idee geniali

Alhelì è un libro molto speciale. Tutte le storie che contiene sono nate dalla fantasia di un gruppo di bambini cresciuti nella periferia di Quito, nel quartiere di Tiwintza, dove opera la fondazione franco-ecuadoriana Ecuasol, alla quale si è aggiunto il talento di sette illustratori italiani.
Quando ho avuto la fortuna di conoscere la bellissima storia di questo progetto dalla voce della giovane brillante Tanja Di Piano, psicologa operante nel contesto dov’è sbocciato Alhelì, ho deciso che avrei dovuto assolutamente condividerla con più persone possibili.
Per chi ha fame di libri, idee e storie che ti riscaldano l’anima, ecco l’intervista che mi ha concesso Tanja, con la disponibilità e l’entusiasmo di chi prima di insegnare qualcosa ai bambini, ha saputo da loro imparare.

1. Quando si pensa all’atto di raccontare storie di solito immaginiamo i bambini in qualità di ascoltatori; come nasce l’idea di farle invece raccontare proprio a loro?

A Quito il tempo cambia in continuazione. Devi avere sempre addosso una maglietta a maniche corte, una felpa calda, un antipioggia e nel dubbio pure una sciarpa. Era un pomeriggio molto piovoso quando nacque questo progetto. Mi trovavo in una biblioteca per bambini, cercando un testo da usare con loro durante alcuni laboratori che stavo tenendo. L’idea mi è balenata lì, per terra, sulla moquette. Ho subito inviato un messaggio a chi sapevo mi avrebbe ascoltato e che era a conoscenza del lavoro che stavo facendo: “E se gli facessi scrivere delle storie loro al posto di fargli leggere quelle di qualcun’altro?”. Era un progetto timido, un’idea in punta di piedi, ma ha toccato i cuori giusti, ed è diventato questa meraviglia di libro, scritto dai bambini e per i bambini. Farlo in un quartiere come Tiwintza nasce dalla consapevolezza di quanto poco spazio sia stato dato alla loro fantasia e creatività. Nasce dalla volontà di mostrare e dimostrare loro come un’idea e una storia, così astratte e impalpabili, possano prendere forma nella concretezza di un libro illustrato. Nasce dalla voglia di aiutare questi bambini, negli anni in cui si sta definendo la loro forma mentis, ad aprire i loro pensieri verso nuove prospettive, esplorando nuovi mondi, fuori e dentro di loro, per valorizzarli e dar loro una possibilità di crescita differente da un apprendimento prettamente scolastico. Un altro approccio educativo che si affianca al tipo di lezioni che sono abituati a ricevere durante il loro percorso di vita.

2. Per aiutare i bambini e ragazzi nel progetto di narrazione creativa si è servita di qualche “attrezzo del mestiere” particolare?

Una mente super aperta, un po’ di umiltà e un sacco di creatività. Avevo un’idea su cosa volessi fare, un canovaccio di strumenti e punti focali, certo, ma ho cercato di chiedere l’opinione di tantissime persone. Dai miei colleghi, alle persone in Italia, a giornalisti, scrittori, maestre… ho trovato tantissima disponibilità, tantissima voglia di condividere e offrire punti di vista. Li ho raccolti tutti e li ho fatti miei, prendendo il buono e adattandoli a chi avevo davanti. Nella pratica si è trasformato in un viaggio nella fantasia. Ho iniziato portandoli in braccio, facendo laboratori semplici, con l’aiuto di strumenti come il Dixit (usato in varianti molto diverse). Poi ho camminato un po’ per mano con loro, studiando insieme le parti delle fiabe, memorizzando quelle che più ci piacevano e cambiandone qualche parte. E infine, dopo giochi, disegni e rappresentazioni teatrali di quello che avevamo imparato, mi sono messa da parte, e ho lasciato che la loro creatività sbocciasse. Sono stati divisi in gruppi, più o meno per età, e con ognuno di loro abbiamo fatto un brainstorming durato un paio di incontri dove avevano la possibilità di esprimere tutte le loro idee, che sono state raccolte; gli abbiamo dato insieme una forma e sono stati scelti i dettagli come i nomi, il titolo ecc. Una volta finita l’abbiamo riletta insieme e voilà, la magia era fatta.

3. Come se l’è cavata con la diversità della lingua? I bambini l’hanno aiutata a farsi capire? Come?

Sono arrivata alla fondazione Ecuasol per una serie infinita di congiunzioni astrali, grazie alla grande fortuna di aver incontrato persone che mi hanno dato una fiducia inaspettata. L’impatto iniziale è stato indubbiamente complicato dal punto di vista linguistico: condividevo la casa e il luogo di lavoro con ragazzi francesi e dovevo relazionarmi tutti i giorni con bambini e adulti che parlavano spagnolo. Inutile dire che non conoscevo nessuna delle due lingue, sarebbe stato troppo semplice! Dalla mia ho grande testardaggine e caparbietà, quindi all’inizio mi sono servita di qualche malcapitato che parlava un po’ di inglese perché mi facesse da traduttore e nel frattempo ho preso lezioni, senza fare altro che studiare. Nel giro di un mesetto sono passata dal semplice: “Qual è il tuo animale preferito?”, grande cavallo di battaglia che ho usato con TUTTI i bambini, presa dal panico, a poter avere conversazioni sempre più articolate e adatte al mio lavoro. I bambini, come sempre, sono stati uno spettacolo, e con alcuni di loro la “barriera” linguistica è stata quasi una fortuna, perché mi ha permesso di avvicinarmi ed essere avvicinata in una maniera diversa e forse più delicata rispetto ad un approccio standard; utilissimo con chi, come loro, non ha vissuti semplici.

4. Chi si è occupato della parte illustrativa e grafica del libro?

La parte grafica (ma anche quella relativa alla ricerca degli artisti e degli sponsor e la spinta al rendere questo progetto bellissimo e grande com’è diventato) è merito di Boumaka, uno studio di graphic designers che si trova a Torino (li potete sbirciare qua: http://www.boumaka.it/ita/). Senza i componenti di Boumaka questo progetto avrebbe preso una piega molto più silenziosa, io ed Ecuasol dobbiamo loro tantissimo. Per quanto riguarda gli artisti incredibili che hanno prestato il loro tempo e talento alla causa sono: Daniela Goffredo (www.facebook.com/dadaillustrations), Alice Lotti (www.alicelotti.com), Serena Ferrero (www.facebook.com/santamatitaillustration), Elyron (www.elyron.it), gli Happy Centro (www.happycentro.it), Gianluca Cannizzo (www.facebook.com/mypostersuck), Hikimi (www.hikimi.it).
Ognuno con il suo stile, ognuno bravo da lasciarci il cuore.

5. Saprebbe darci qualche informazione su cos’è e come opera la fondazione Ecuasol?

Ecuasol è una fondazione franco-ecuatoriana situata a Tiwintza, quartiere svantaggiato della zona nord di Quito, in cima ad una montagna; il suo obiettivo è aiutare circa sessanta bambini e ragazzi dai 6 ai 20 anni e le loro famiglie durante la crescita, mediante un approccio a 360 gradi. Fornisce una possibilità di crescita alternativa a quella che può venire offerta dalle prospettive di un quartiere come quello, che si ritrova ad essere tra i più svantaggiati sia a livello economico sia socio-culturale. Nello specifico Ecuasol si occupa di supportare l’istruzione, di regolare l’alimentazione, di affiancare le famiglie e offrire supporto psicologico (parte di cui mi sono occupata io nello specifico), di far eseguire check up annuali e visite mediche specialistiche, di dare un aiuto economico alle famiglie, di organizzare workshop e attività ludico-ricreative. Il team che lavora nella fondazione è composto da quattro insegnanti che si occupano prettamente della parte scolastica, due cuoche che fanno in modo che i bambini abbiano un pasto sano e bilanciato ogni giorno e diverse figure professionali per la parte di contabilità, comunicazione, pedagogia e aiuto socio-assistenziale.

6. Lei ha insegnato ai bambini di Quito a raccontare storie, potrebbe svelarci qualcosa che loro hanno insegnato a lei?

Nella mia vita ho avuto la fortuna di collezionare tantissime esperienze con i bambini, sia all’estero che in Italia, tra il volontariato e il lavoro, e se c’è un pensiero che ho consolidato sempre di più negli anni è che noi “grandi” ci portiamo a casa molto di più di quello che lasciamo ai piccoli. I bambini sono delle spugne a fattezza d’uomo, nel bene e nel male assorbono tutto ad una velocità impressionante. Hanno molti meno filtri sociali; difficilmente non ti diranno quello che pensano senza filtri di sorta. Hanno la capacità di farti delle domande così spiazzanti nella loro semplicità che ti ritrovi obbligato a riflettere sul mondo e su te stesso. Sanno pretendere, sanno ridere in maniera incontrollata, sanno ascoltare ciò che conta e darti il mondo, senza troppi convenevoli. Per i bambini di Ecuasol, che arrivano da una situazione incredibilmente complicata sotto ogni punto di vista (la maggior parte di loro ha vissuti di violenze dirette o indirette, genitori alcolisti o con problemi di droghe, difficoltà economiche molto impattanti e problematiche di salute notevoli) ho in particolare una profonda ammirazione, per la caparbietà e la resilienza che dimostrano ogni giorno di avere. Ribalta le prospettive sulle tue priorità avere a che fare con degli esserini così piccoli eppure così coraggiosi.

7. C’è una storia che preferisce in questa raccolta, una che l’ha personalmente colpita di più?

Questa domanda è come chiedere ad una mamma se ha un figlio preferito. Eticamente scorretto, segretissimamente un pochino veritiero! Sono tutte bellissime e molto molto personali; la personalità di ogni membro del gruppo è venuta fuori in maniera inaspettata e quasi commovente. Le ho viste nascere, svilupparsi e prendere le forme più svariate e non potrei essere più fiera del risultato. Forse però, la storia intitolata “Verdi di invidia” mi ha rubato il cuore un pochino più delle altre; l’ha ideata un gruppo di bimbe molto piccole e ho trovato stupendo come siano riuscite a far passare un messaggio “forte e chiaro” in maniera così delicata. Hanno tutta la mia invidia per essere riusciti a trovare delle storie così uniche e belle.

8. Che cosa significa “Alhelì”?

Non è stato semplice trovare un nome che potesse rappresentare la bellezza, la forza ma anche la precarietà e la difficoltà della vita dei piccoli grandi esseri umani che fanno parte della fondazione Ecuasol; quando abbiamo trovato Alhelì, che ha un significato forte e delicato allo stesso tempo, ci è quindi sembrato perfetto. “Alhelì” è infatti il termine spagnolo per definire quei fiori spontanei e variopinti in grado di crescere in qualsiasi ambiente, anche sfavorevole: come le crepe, le fessure dei muri, gli spazi angusti e difficili.

9. Dove è possibile acquistare il libro?

Visto che il progetto è stato sviluppato interamente pro bono, vogliamo che tutti i proventi vadano alla fondazione. Abbiamo quindi scelto di non coinvolgere case editrici o librerie che prendessero una percentuale sulla vendita. Al momento il modo più semplice per poter avere il libro è chiederlo a me, a qualcuno dei nostri meravigliosi artisti, o alla pagina di facebook: https://www.facebook.com/progettoalheli.

 

Le facce del Desiderio: cronaca di un giorno perfetto alla Scuola Holden

La parola desiderio deriva dal latino “de” + “sidera” che significa letteralmente “mancanza di stelle”; quelle stelle che, molti anni prima della comparsa sulla Terra di Google Maps e Paolo Fox, erano la salvezza dei navigatori sulla via del ritorno e la risposta alla ricerca del senso di ciò che ci accade.

Ad esaudire il mio desiderio di conoscere un frammento del mondo della scrittura e delle scuole a questa dedicate ci ha pensato un piccolo gruppo di grandi persone. Il 2 dicembre mi spediscono, fresca di laurea, nella frazione torinese di Borgo Dora, con un biglietto regalo per il “Perfect Day” alla Scuola Holden (scuola di storytelling e arti performative fondata a Torino nel 1994 e legata in particolare al nome del famoso Alessandro Baricco, che oggi è il suo preside). Questa giornata, a cui si può partecipare anche senza essere iscritti alla scuola, acquistando il biglietto on line, consiste in una serie di incontri tenuti da grandi scrittori italiani che trattano tutti di un tema comune, quest’anno proprio “il Desiderio”. Ecco alcuni spunti di quel giorno, che ho conservato per condividerli con chi come me desiderasse soddisfare qualche curiosità su una giornata alla Scuola, su alcuni autori italiani o sulla tematica.

Caffè di benvenuto con Lou Reed di sottofondo e si comincia alle 9:30 con il discorso di apertura di Mauro Berruto, amministratore delegato della Holden ed ex allenatore della Nazionale italiana di pallavolo, che ci invita ad esplorare per bene l’ex caserma rimessa a nuovo, in cui ora si tengono le lezioni (l’ho fatto: le Metamorfosi di Ovidio versione murales alle pareti, aule con attrezzature specializzate per film-makers, cortiletto interno con panchine colorate, aula magna con palco pieno di cuscini: fighissima). Quella di Berruto è una riflessione su motivazione e desiderio nel mondo dello sport: che cosa accomuna tre imprese come l’oro di Jury Chechi alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 (ad appena quattro anni dalla rottura del tendine), l’impossibile giro di pista alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 della maratoneta svizzera Gabriela Andersen-Schiess (vittima di un colpo di calore, allontana i soccorsi e si trascina fino all’arrivo per evitare la squalifica) e la storica scalata (è il primo a tentarla in inverno) del Nanga Parbat, la famosa vetta himalayana simpaticamente rinominata “The Killer Mountain”, intrapresa dall’alpinista bergamasco Simone Moro nel 2016? Forse più di tutto un incredibile desiderio di superare l’insuperabile, spinta o aggancio per la loro forza di volontà. Berruto conclude il suo discorso su desiderio, motivazione e sport con una citazione di Antoine De Saint-Exupèry degna di un ex-coach di alto livello: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare ampio e infinito».

Dopo l’apertura di Berruto, la prima scrittrice a salire sul palco è Michela Murgia: energica, un concentrato di collegamenti brillanti. Per prima cosa propone la sua personale visione del desiderio da intendersi non come “mancanza”, amputazione di qualcosa che non si ha più, ma come “assenza”, ovvero come spazio di crescita che va edificato. Seguono spunti di riflessione che toccano più o meno tutti gli aspetti della vita: la tridimensionalità del desiderio, dell’assenza, non è forse meglio della bidimensionalità della presenza? È meglio il desiderio, che non ha confini e può essere tutto in potenza, o la sua soddisfazione reale? Cosa si perde quindi nell’esaudire un desiderio? È giusto cambiare per assecondare i desideri di qualcuno o, al contrario, aspettarsi che gli altri cambino per assecondare i nostri, ci chiede poi, aggiungendo in inglese: «They didn’t break your heart, they broke your expectation». La riflessione della Murgia non suona affatto come una celebrazione del desiderio ma più che altro come un monito, che si può riassumere con la frase con cui ci saluta, prima di scendere dal palco fra gli applausi: «abbiate un sano timore dei desideri e siate sempre cauti nel decidere quali realizzare».

Tocca poi a Marco Missiroli: altissimo, timido, estremamente divertente. Per lui il desiderio è sostanzialmente attesa, che si struttura temporalmente in quattro momenti (un “prima”, un “mentre”, un “dopo” e un “infine”) che Missiroli collega a quattro fasi della sua vita, in un racconto che ci fa ridere un sacco e anche commuovere un po’. Ci parla poi di due famosi autori, Buzzati e Nabokov, che in modo diverso hanno rivoluzionato il modo di “scrivere di desiderio”, sfidando l’ambiente borghese del loro tempo e coinvolgendo il lettore in un gioco letterario simile a quello che compie l’artista Fontana sfregiando la tela: trascinare l’osservatore, o il lettore, dentro l’opera d’arte.

Segue Fabio Geda, educatore, che cerca con sensibilità e forza di capire il mondo dei ragazzi. Attraverso un interessante riflessione sul suicidio giovanile, basandosi su recenti fatti di cronaca e prendendo spunto dalla letteratura e dalla cinematografia (in particolare dal film L’Attimo Fuggente e dalla serie Netflix Tredici), cerca di capire quali sono oggi i desideri dei giovani e dei giovanissimi e che cosa li può portare a perdere il desiderio di vivere. Le possibilità di scelta sono talmente aumentate che oggi più che mai sembra difficile dare una forma ai propri desideri; è più facile perdersi, confondersi, e il futuro sembra ancora più misterioso e minaccioso di qualche generazione fa. In questa situazione, dice Geda, i ragazzi sono contenti di sentirsi dire, come spesso accade, che qualcuno crede in loro per rimettere a posto le cose, ma sembrano soprattutto aver bisogno di adulti e giovani adulti che credano prima di tutto in loro stessi, dando un esempio reale.

Lo scrittore Maurizio de Giovanni, in un intervento intitolato Il desiderio del movente, il movente del desiderio, spiega qual è la forza motrice alla base dei suoi romanzi di successo (da cui tra l’altro è stata tratta la serie tv Rai I bastardi di Pizzofalcone) che, ci tiene a sottolineare, sono “scrittura nera” e non “gialli”. Nei romanzi gialli, spiega, quello che conta è la scoperta del colpevole del reato in questione, nella scrittura nera l’identità dell’assassino può anche essere dichiarata nella prima pagina, ciò che importa all’autore e analizzare che cosa spinge l’uomo a compiere un determinato gesto: spesso proprio un desiderio che sfugge ai dettami della morale e del vivere civile. Ed è proprio questa ricerca di “perché”, questo andare a scovare i motivi scatenanti del desiderio deviato di arrecare male al prossimo, l’ispirazione di de Giovanni e il punto di partenza per i suoi romanzi, che paragona al colore che fa da sfondo ad un’opera d’arte.

La conclusione della giornata è affidata al preside Alessandro Baricco. Per trattare il tema della giornata sceglie di leggerci alcune pagine dello scrittore che secondo lui meglio ha incarnato il desiderio nella sua scrittura, Gabriel Garcia Màrquez. Assistiamo così alla lettura di alcuni paragrafi del celebre Cent’anni di solitudine, che Baricco interrompe di tanto in tanto per farci notare la particolarità dello stile di Garcia Marquez (l’uso quasi “fisico” delle parole, l’ossessione per il numero tre, che emerge anche dalla struttura delle frasi, il realismo magico),o per raccontarci alcuni aneddoti tratti dai sui viaggi in America Latina, patria dell’autore in questione e luogo dove sono ambientati i suoi libri (Cent’anni di solitudine è ambientato nel paese immaginario di Macondo, ma l’autore fornisce alcuni indizi che permettono di collocarlo nella penisola della Guajira). La vita dei protagonisti del romanzo, i componenti della famiglia Buendía, sembra essere totalmente governata dalla forza dei loro desideri, che li possiede e li trascina, senza dar loro la possibilità di scegliere razionalmente e provocando spesso in essi grandi sofferenze.

Ognuno degli scrittori protagonisti della giornata ha così offerto la sua personale interpretazione del desiderio nelle sue tante sfaccettature, da molla motivazionale che è essenziale seguire per vivere una vita piena, a forza a volte ingannevole e oscura, da trattare con cautela.

Baricco termina il suo intervento tra gli applausi e, dopo un brindisi di gruppo e una fetta di pandoro offerti dalla Scuola, mi avvio all’uscita. Fuori la neve a rendere ancora più magica una giornata a tutti gli effetti perfetta, le cui prossime edizioni consiglio a tutti gli amanti della lettura e della letteratura e a tutti quelli che siano curiosi di sentire che aria si respira in una scuola così particolare.

 

Beatrice Silvestri

Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!