Una bellezza necessaria

Vedere Vera Lytovchenko suonare il suo violino nello scantinato di casa sua a Kharkov, sotto le bombe, mi ha fatto capire quanto l’arte, la musica in questo caso, non sia un lusso inutile ma una compagna indispensabile per continuare a sopravvivere. Vedere Elena Osipova scendere in piazza, a quasi ottant’anni, con due suoi disegni che richiamavano l’Urlo di Munch e la scritta: “Soldato, lascia cadere la tua arma e sarai un vero eroe” mi ha fatto capire quanto l’arte possa essere uno strumento potente di ribellione, in modo quasi silenzioso, contro ciò in cui non si crede. 

Picasso diceva che l’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità. L’arte ci aiuta a prendere posizione, a trasmettere dei messaggi, a imprimere nella nostra memoria la storia. L’arte è fondamentale. Come faremmo a vivere in un mondo senza musica, senza film, senza libri, senza danza, senza quadri? Sarebbe impensabile.

L’arte ha il potere invisibile di rimanerci in testa in ogni situazione. Non c’è un momento della nostra vita che non sia associato ad una canzone che stavamo ascoltando in quel periodo o ad un film che abbiamo visto. L’arte ha il potere di farci aprire gli occhi di fronte agli orrori del mondo. Perché quando vediamo certe atrocità poi non possiamo più far finta di niente.

Arte significa libertà di pensiero e di espressione. Ecco perché ai regimi dittatoriali fa paura l’arte. Durante il regime nazista tutte le forme d’arte che non riflettevano i valori nazisti erano chiamate Arte Degenerata (entartete Kunst). Oggi l’artista cinese Badiucao attraverso la sua arte di protesta denuncia il controllo ideologico e morale esercitato dal potere politico. Prima dell’arrivo dei talebani l’artista afghana Fatimah Hossaini fotografava le donne della sua terra. Oggi in Corea del Nord gli unici film messi in circolazione sono a scopo propagandistico.

Gli artisti ci regalano una bellezza necessaria. Le farfalle di Terezin disegnate dai bambini per sfuggire dalla loro triste realtà e sperare nella libertà mi ricordano quanto io sia fortunata in questo momento a potermi esprimere liberamente. Ogni giorno tutti noi in fondo creiamo arte in un modo o nell’altro. L’arte è preziosa, ci fa sentire vivi. La pittura, la scultura, la fotografia, la scrittura, l’architettura, la musica, il design, il teatro, il cinema, i fumetti, la danza sono una bellezza necessaria. 

Le donne nella società-parte IV: le quote rosa in Italia

Nel contesto italiano le donne hanno sempre ricoperto un ruolo marginale all’interno della società, faticando ad emergere in un ambiente prettamente maschile, fondato sull’idea dell’uomo lavoratore. Per poter far evolvere la situazione e avere più indipendenza sono state portate avanti numerose battaglie, la cui svolta decisiva è avvenuta nel 1945 con l’affermarsi del diritto di voto alle donne. Grazie al suffragio femminile si aprirono nuovi scenari all’interno del contesto politico, tra cui l’introduzione del meccanismo delle quote rosa. Una novità importante che ha fatto in modo che la donna potesse emergere in quegli ambienti da sempre caratterizzati da presenze maschili, dove ormai l’idea che una donna potesse partecipare e prendere decisioni andava sempre più scemando.

Il primo comma dell’articolo 51 della Costituzione italiana recita: «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne». Si può quindi affermare che dal dopoguerra c’è stato un vero e proprio passo in avanti per quanto riguarda la parità di genere nella vita politica e sociale. Secondo l’Enciclopedia Treccani, le quote rosa sono un «provvedimento – generalmente temporaneo – volto a garantire la rappresentatività delle donne nei segmenti della classe dirigente di soggetti pubblici e privati (vertici aziendali, consigli di amministrazione, liste elettorali) attraverso la definizione di una percentuale minima di presenze femminili».

Principalmente le quote rosa sono state utilizzate per aumentare il numero di donne presenti nei parlamenti. Il 12 luglio 2011 la legge 120/2011 è stata approvata ed è entrata in vigore grazie a Lella Golfo e Alessia Mosca; secondo tale legge gli organi delle società quotate dovranno essere rinnovati riservando una quota pari ad almeno un quinto dei propri membri al genere meno rappresentato: le donne.
La legge Golfo-Mosca ha assunto non solo importanza storica per la corporate gender equality, ma anche importanza giuridica: è la prima legislazione che prevede il rischio di non conformità nel caso di mancato adeguamento agli obblighi normativi, ovvero il rischio sia di sanzioni pecuniarie sia di decadenza dell’intero organo eletto. La legge ha una validità di dieci anni, durante i quali le donne possono mettere a servizio le proprie conoscenze, esperienze e competenze. La legge è formata da tre articoli fondamentali:

Art.1: Equilibrio tra i generi negli organi delle società quotate. «Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti. Tale criterio di riparto si applica per tre mandati consecutivi».
Art 2: la decorrenza. «Le disposizioni della presente legge si applicano a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e degli organi di controllo delle società quotate in mercati regolamentati successivo ad un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, riservando al genere meno rappresentato, per il primo mandato in applicazione della legge, una quota pari almeno a un quinto degli amministratori e dei sindaci eletti».
Art 3: società a controllo pubblico. «Le disposizioni della presente legge si applicano anche alle società».

Alcuni dati

Il Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020, realizzato con Inps, riporta importanti dati riguardanti le donne in politica e ai vertici delle imprese, tra cui i seguenti:

  • nel 2008 le donne nei Cda delle società quotate erano 170, ossia il 5,9%, mentre oggi sono 811, il 36,3%.
  • Nel 2012 le donne nei collegi sindacali erano il 13,4%, nel 2019 sono diventate il 41,6%.
  • Ci sono 475 sindaci donne.
  • L’Italia è, con Francia, Svezia e Finlandia, tra i pochi Paesi europei ad aver superato il tetto del 30% nei CdA.
  • Nelle controllate pubbliche, la percentuale è più bassa: 28,4%. «Dove le nomine le fa la politica – sottolinea Golfo – la percentuale è più bassa, perché non si mettono d’accordo o lo fanno sul nome di un uomo».
  • Nelle società non soggette alla legge Golfo-Mosca, la presenza femminile è solo il 17,7%.
  • Nelle quotate, le donne amministratrici delegate rappresentano soltanto il 6,3%, le presidenti il 10,7%. Secondo una recente ricerca Equileap, l’Italia rimane comunque dietro gli altri grandi paesi europei per l’equità tra uomini e donne nelle quotate, nonostante sia ai primi posti in Europa per presenza di donne nei CdA.

Stando agli ultimi dati del World Economic Forum, per colmare il divario economico di genere serviranno oltre due secoli, per la precisione 257 anni. Golfo ha affermato che «abbiamo fatto passi da gigante ma ci siamo fermati all’obbligo, non siamo andati oltre. Il tema è principalmente culturale. Quando ho pensato alla legge, credevo che le donne nei CdA avrebbero dedicato molta più attenzione alle altre donne, e in particolare a quelle nelle aziende. Purtroppo, non è avvenuto. Chi ce la fa per prima, dovrebbe mandare giù l’ascensore per far salire altre donne, invece l’ascensore si è fermato a metà». Il problema non è solo italiano. Dallo studio europeo di European Women on Boards, soltanto il 6% delle società dell’indice di borsa STOXX Europe 600 ha a capo una donna. Inoltre, secondo il Global Gender Gap Report 2021, il potenziamento politico femminile, a livello globale, è al 22%. Per giungere alla parità, serviranno 145,5 anni.

Pro e contro

Naturalmente tali cambiamenti, soprattutto in un contesto politico, hanno suscitato diverse reazioni e tesi contrastanti di coloro che valutano i pro e i contro di questo meccanismo. Chi è favorevole sostiene che la legge Golfo-Mosca possa portare in evidenza temi e questioni che, altrimenti, verrebbero tralasciate. Avendo anche una presenza femminile all’interno del Parlamento, è possibile avere delle visioni più ampie che tengono conto degli interessi del genere femminile e che mettono in risalto punti di vista eterogenei. Le donne possono così dare voce ai propri pensieri, far risaltare le proprie opinioni e sostenere le proprie idee, senza doversi sempre attenere a un punto di vista prettamente maschile. In questa concezione le quote rosa rappresentano un meccanismo essenziale per garantire un’adeguata parità nella rappresentanza parlamentare delle donne, sistematicamente sottorappresentate. Inoltre, spesso, la figura femminile rappresenta una figura positiva negli ambiti politici perché porta allo sviluppo di un vero e proprio cambiamento: essendo, in genere, molto sensibili e attente, le donne possono portare all’affermazione di nuovi modi di pensare e agire, e questo anche nell’ambito lavorativo comporta una maggiore competitività̀.  Da questa riflessione si può evincere che è importante far valere il talento delle donne senza discriminarle solo per il genere di appartenenza.
Tuttavia, si è osservata anche una posizione contraria alle quote rosa, dettata dal sospetto che questo meccanismo possa sviluppare effetti negativi in relazione alla meritocrazia. Riservare un numero di seggi obbligatorio alle donne vorrebbe dire sceglierle non in base alle loro capacità, conoscenze e competenze, ma solo per il loro genere. Altri sostengono che le donne siano meno ambiziose e competitive degli uomini, con meno esperienza e capacità, il che significherebbe far ricoprire incarichi prestigiosi e fondamentali a figure meno competenti.

In ogni caso è fondamentale cercare di includere e imparare gli uni dagli altri. La presidente della camera Laura Boldrini ha istituito a Montecitorio una sala dove sono presenti quadri in cui viene raffigurato il volto delle donne e le rispettive cariche istituzionali assunte. Tre di questi quadri hanno al proprio interno uno specchio, in modo che qualunque donna possa aspirare a ricoprire quelle cariche che sono sempre state prive di rappresentanza femminile ovvero quella del presidente della Repubblica, presidente del Senato e presidente del Consiglio dei Ministri. Boldrini afferma infine: «nonostante gli enormi passi avanti fatti negli anni, spesso la donna viene considerata ancora come oggetto o elemento di non garanzia o di non sviluppo della società equiparando la parola donna a debolezza o nullità. Quindi si può affermare che le donne danno la vita, le donne insegnano la vita, le donne amano la vita e continueremo a lottare per quella parità di generi che ci spetta».

 

Le donne nella società-parte III: il caso dell’India

La disuguaglianza di genere è un argomento molto importante e da non sottovalutare: cercare di ridurre il gender gap è fondamentale non solo per ragioni etiche, ma anche perché l’esclusione sociale può portare a una riduzione generale del welfare di un paese.

Secondo il World Economic Forum’s Global Gender Gap Report, il gap tra generi è ancora molto largo. Il Global Gender Gap Index è un benchmark che traccia l’evoluzione delle differenze tra uomini e donne e tiene conto, nel tempo, del progresso verso la chiusura di questo gap. L’indice lavora secondo quattro dimensioni chiave: la partecipazione e le opportunità economiche, l’educazione, la salute, e il potere politico di un individuo (Economic Participation and Opportunity, Educational Attainment, Health and Survival, Political Empowerment). Globalmente, la distanza media che è stata completata per raggiungere la parità è al 68%, addirittura meno rispetto al 2020. Questi risultati sono per spiegati con il declino delle misure sociali di molte nazioni, soprattutto quelle in via di sviluppo. Da ora in poi serviranno circa 135.6 anni per chiudere il gap in tutto il mondo.
Questi dati mettono i brividi, i gap più sostanziosi rimangono quelli in potere politico, chiuso solo al 22%, e quello in partecipazione e opportunità economica, chiuso al 58%: effettivamente pochissime donne sono in politica e i numeri sono molto bassi anche considerando posizioni manageriali e professionali ad alto livello. Inoltre, la strada per il raggiungimento di un pari ed equo stipendio è ancora molto lunga.

Il caso dell’India

Come già accennato, questo scarto tende a peggiorare se consideriamo paesi in via di sviluppo in cui la povertà, l’analfabetismo e la completa mancanza di risorse e aiuti (sia sociali che economici), non migliora la posizione della donna. Inoltre, molte civiltà fondano le proprie origini su tradizioni e culture che hanno sempre discriminato la figura femminile, svalutandola e mettendola da parte.
Ad esempio, l’India è un paese caratterizzato da una lunga e radicata discriminazione sociale che è originata dalle antiche tradizioni dei matrimoni combinati e dal fatto che la società sia strutturata in caste. L’India presenta spesso dati statistici e indicatori economici e sociali molto più bassi rispetto a quelli di altri paesi in via di sviluppo con caratteristiche simili, come ad esempio il livello di reddito pro-capite, il tasso di mortalità, la malnutrizione, l’uso di contraccettivi, la fertilità etc.

Dopo aver dichiarato la propria indipendenza nel 1947, l’India ha adottato un sistema democratico di governo molto simile a quello del sistema parlamentare britannico. Questo radicale cambiamento avrebbe dovuto giovare alle condizioni della donna, garantendo eque opportunità lavorative e gli stessi diritti. Eppure, questo non è stato il caso, e la seguente tabella mostra diverse statistiche riguardanti le disuguaglianze della nazione:

World development indicators (2019) Male Female

Labor force participation rate (% of population aged 15+, national estimate)

75.8

26.2

Labor force with advanced education (% of working age population with advanced education)

80.99

30.57

Educational attainment at least primary (% of population 25+ years)

85.04

78.8

Educational attainment upper secondary (% of population 25+ years)

41.6

34.6

Literacy rate (% of population)

84.7

70.3

Median gross hourly salary (₹)

242.49

196.3

Source: own elaboration based on data retrieved from Gender Statistics database (The World Bank), Monster Salary Index (MSI) published in March 2019 and the National Statistical Office (NSO)

Infatti, l’India si classifica 140esima tra 156 paesi nel World Economic Forum’s Global Gender Gap Report 2021, diventando la terza peggiore performer in Asia del Sud.

Uno dei più grandi problemi che contribuiscono a questa persistente disparità è la sotto rappresentazione delle donne in politica, a livello nazionale o locale, a causa di norme culturali, barriere politiche e discriminazioni.
Nel 1971, un comitato sulla condizione delle donne è stato nominato per analizzare ed esaminare la loro posizione nelle opportunità politiche. Il rapporto del comitato, intitolato Towards Equality e pubblicato nel 1974, concludeva che l’impatto delle donne in politica era marginale anche se numericamente erano la minoranza più numerosa: il comitato ha proposto che ogni partito politico stabilisse una quota per le candidate come misura correttiva.
Nel 1992, il 73° emendamento costituzionale indiano ha imposto un decentramento di vasta portata istituendo un sistema di consigli a tre livelli: di distretto, di blocco e di villaggio. A livello di villaggi, i gram panchayat (GP) rappresentano il livello più basso del governo locale, composto da un presidente (pradhan o sarpanch) e dai membri del consiglio eletti dai rioni del panchayat. Le responsabilità del gram panchayat includono: la fornitura di servizi pubblici in materia di sanità, istruzione, acqua potabile e strade; fissare le tariffe e amministrare le tasse locali; l’amministrazione, la formulazione e l’attuazione di piani di sviluppo locale; la selezione dei beneficiari e l’attuazione dei programmi sociali ed economici sponsorizzati dal governo centrale. Le assemblee regolari (gram sabhas) di tutti gli elettori nel GP hanno lo scopo di monitorare le prestazioni e aumentare la responsabilità.
Inoltre, l’emendamento prevedeva che un terzo dei seggi in tutti i consigli del Panchayat, così come un terzo delle posizioni di Pradhan, dovesse essere riservato alle donne, le così dette quote rosa. La prenotazione è stata assegnata casualmente tra i villaggi.

Le quote rosa: una via di cambiamento?

In un articolo pubblicato dal Journal of Development Studies (giugno 2011), tre ricercatori hanno analizzato come questa politica di quote rosa ha impattato sui risultati politici di questi consigli di villaggio. I dati utilizzati provenivano da un’indagine rappresentativa a livello nazionale di 233 villaggi nell’India rurale, condotta nel 2007 dal National Council of Applied Economics.
Il set di dati contiene informazioni relative alle diverse caratteristiche del villaggio e alle caratteristiche relative al nucleo familiare di ciascun intervistato. Ogni membro della famiglia di età pari o superiore a 16 anni ha fornito le seguenti informazioni: informazioni personali (quali sesso, età, istruzione, casta, matrimonio, religione…); la sua opinione personale sulla performance del panchayat alla data attuale (2007); la frequenza e natura della sua partecipazione alle riunioni di gram sabha; la sua disponibilità a contribuire ai beni pubblici.
La variabile esplicativa di interesse, ovvero quella che è stata utilizzata per poter poi valutare l’introduzione delle quote rosa, è lo stato di prenotazione di ciascun villaggio, quindi se nel villaggio è stata imposta (reserved village) o meno (unreserved village) la prenotazione femminile durante le ultime tre elezioni. Questo è molto importante per poter fare un’analisi precisa, confrontando villaggi in cui le donne avevano diritto di partecipare alle riunioni e alla vita politica, e villaggi in cui il ruolo femminile in politica è rimasto emarginato.

La letteratura sulle quote di genere non è unanime. Da un lato i ricercatori ritenevano che l’attuazione del potenziamento politico femminile potesse garantire un migliore sviluppo e aumentare l’utilizzo del potenziale umano della società; come? Dando più voce alle donne, portando a un aumento delle segnalazioni di reati e una maggiore resistenza alla violenza, fornendo maggiori investimenti in sanità e istruzione e garantendo maggiori sforzi per attuare riforme fondiarie redistributive e una legislazione successoria favorevole alle donne con meno corruzione.
D’altra parte, i critici osservano che tali misure possono portare in carica individui con meno esperienza e qualifiche e che potrebbero essere facilmente manipolati dalle élite tradizionali (ad esempio le donne potrebbero venir costrette a fare determinate cose dai mariti o dalla famiglia).
Il contributo degli autori dell’articolo a questa letteratura consiste nell’analizzare se la prenotazione femminile nei villaggi ha impatti positivi o negativi sulla comunità locale, in particolare misurando il suo effetto su diverse variabili di esito, come la percezione degli elettori sul livello di trasparenza e responsabilità del consiglio, la disponibilità dell’elettore a partecipare alle riunioni e a contribuire ai beni pubblici.

I risultati trovati sono molto interessanti. Gli autori hanno notato che nei villaggi riservati, quindi quelli con le quote rosa, c’è stato un netto miglioramento sotto tanti punti di vista.
Innanzitutto, secondo gli elettori, avere una donna al potere aumenta la facilità con cui possono essere risolti i problemi locali e un miglioramento per quanto riguarda la corruzione e la responsabilità dei funzionari per i loro compiti. Inoltre, avere più donne in politica ha portato l’aumento del tasso di partecipazione e presenza agli incontri, consentendo anche alle donne, fino ad allora escluse, di poter esprimere la propria opinione e di diventare sempre più sicure di sé e indipendenti.
Infine, gli autori hanno notato più volontà da parte dei membri del villaggio nel contribuire economicamente ad alcuni beni pubblici, come l’acqua, le strade, la corrente elettrica e gli investimenti in sanità, salute ed educazione. Queste donazioni hanno permesso di migliorare le condizioni di vita dei villaggi, fornendo maggiori risorse e qualità dei servizi.
Dall’analisi è anche emerso che, per ottenere i benefici dell’inserimento delle quote rosa, c’è bisogno di tempo. Bisogna permettere alle donne di imparare a sfruttare le opportunità per far sentire la propria voce. Questo processo di apprendimento è qualcosa che avviene su orizzonti più lunghi: da un lato le donne necessitano di tempo per imparare e farsi rispettare, dall’altro lato gli uomini hanno bisogno di tempo per abituarsi ad avere una figura femminile al comando.

Si può quindi concludere che, nel complesso, la riserva femminile ha avuto un impatto positivo sugli esiti politici dei consigli dei villaggi rurali. Le quote rosa aumentano il livello e la qualità della partecipazione ai processi politici, della capacità di chiedere conto ai funzionari locali e della volontà degli individui di contribuire a diversi tipi di beni pubblici.
Questo è sicuramente un bene per la società, è importante che ci si renda conto dell’importanza dell’inclusione. Visti i risultati della ricerca, è evidente che sarà impossibile raggiungere risultati positivi nel breve periodo, ma che permettendo alle donne di farsi valere, di partecipare e di poter contribuire alle dinamiche della società, nel lungo termine le condizioni di vita non possono che migliorare, sia da un punto di vista sociale, che politico, che economico.

Le donne nella società-parte II: tentativi di cambiamento in Italia

Tentativi di cambiamento

La scarsa propensione al cambiamento che caratterizza le istituzioni, si riflette nella lentezza con cui processi come la femminilizzazione del mercato del lavoro e la defamilizzazione del sistema di welfare si stanno instaurando nelle politiche italiane: «come emerso dalle testimonianze raccolte tramite i programmi territoriali […] molte donne in Italia una volta rimaste incinte hanno subito discriminazioni sul lavoro, oppure fanno fatica insieme ai loro compagni a usufruire dei diritti e delle tutele previste una volta che si ha un figlio» (Save the children, 2020).

Tutto ciò, però, non significa che questi cambiamenti non stiano avvenendo. Il Decreto Rilancio in risposta all’emergenza Coronavirus, per esempio, ha previsto due forme di sostegno per i genitori lavoratori con figli piccoli (ad integrazione di quanto già previsto dal Decreto Cura Italia): il congedo parentale straordinario (utilizzato, però, per lo più da donne) e il bonus baby-sitter (che, oltre a dare la possibilità alle madri di famiglia di lavorare, crea, effettivamente, posti di lavoro per lo più per la popolazione femminile – generalmente considerata più “portata” per questo genere di occupazione – relegandola, però, ancora una volta, all’ambito della cura). C’è da chiedersi, comunque, se fosse necessaria una situazione di crisi pandemica per affrontare la questione parentale e fornire strumenti alle famiglie al fine di affrancare le donne – seppur con dei limiti – dal dovere di cura familiare.

I servizi per la prima infanzia restano il pilastro delle politiche per l’occupazione femminile: il concetto di work-life balance prende vita dall’esigenza di sollevare le donne dal lavoro di cura di cui si fanno carico in modo nettamente sproporzionato rispetto agli uomini. Solo alla fine del 2020, a causa della pandemia, si sono persi 101 mila posti di lavoro, di cui 99 mila erano occupati da donne. «A fronte dello standard europeo fissato a Barcellona, che prevedeva il raggiungimento entro il 2010 del 33% dei bambini di età inferiore a 3 anni iscritti a un servizio di cura dell’infanzia formale, solo alcuni Stati membri lo hanno raggiunto: nel 2018 in Danimarca la maggior parte dei bambini al di sotto dei 3 anni era iscritto a un servizio di cura per l’infanzia a tempo pieno (63%)», seguita dal Portogallo (50%) e dalla Slovenia (46%). In Italia siamo sotto il 30%.

Nonostante l’incremento dei posti nei nidi e dei servizi integrativi per la prima infanzia (evidenziato da un’indagine Istat del 2021 sui dati dell’anno educativo 2019/2020), l’Italia è ancora lontana dagli obiettivi europei, soprattutto a causa del gap tra il Nord e il Sud del Paese: a livello nazionale c’è stato un incremento dei posti nelle strutture dell’1,5%, solo al Sud addirittura del 4,9% rispetto all’anno 2018/2019, con un aumento del +0,6% della spesa dei comuni per i servizi educativi. Nonostante ciò, però, sono il 26,9% i posti nei servizi educativi per 100 bambini residenti sotto i 3 anni, ancora al di sotto del target dell’Unione. L’indagine campionaria europea del 2019 sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie, evidenzia, inoltre, come «la situazione lavorativa della madre abbia un peso determinante per l’accesso ai nidi: le famiglie in cui la madre lavora usufruiscono per il 32,4% del nido, contro il 15,1% delle famiglie in cui solo il padre è occupato: i nuclei in cui lavora un solo genitore, infatti, possono avere difficoltà ad accedere ai nidi privati, per l’onerosità delle rette, e ai nidi pubblici per i criteri di accesso applicati dai comuni».
Nonostante le difficoltà, quindi, esistono iniziative statali finalizzate alla defamilizzazione del sistema: l’aumento dei posti in strutture per la prima infanzia è sicuramente un elemento fondamentale per permettere una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ma, insieme alle riforme dei congedi parentali, non è sufficiente a sradicare il pregiudizio che porta a delegare alla donna la gestione della cura, a causa della componente fortemente familiare e assistenziale del welfare italiano e mediterraneo.

Riflessioni

Il patriarcato è un’istituzione, e come tale è resistente al cambiamento: questo è evidente nella difficoltà del welfare mediterraneo ad assecondare le trasformazioni della femminilizzazione del mercato del lavoro e della defamilizzazione del sistema.
Alla luce di dati oggettivi circa il radicamento di pregiudizi patriarcali e l’inadeguatezza italiana nel produrre politiche che favoriscano l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, per produrre un cambiamento è quindi necessario agire non solo dall’esterno, con decreti e disegni di legge o politiche per il lavoro (attive o passive che siano), ma lavorare dall’interno per abbattere un’istituzione scientificamente e culturalmente obsoleta. Il patriarcato non produce semplicemente discriminazione e pregiudizi di sorta, ma una vera e propria inefficienza sistemica nell’assecondare le richieste legittime delle donne, trattate come se fossero una minoranza nel Paese.
Questa mancanza va sopperita a partire da un’educazione alla parità, che si parli di diritti o di opportunità, e non da un goffo tentativo di nascondere un’istituzione patriarcale con iniziative superficiali e insufficienti, come le quote rosa, che, per quanto possano creare posti di lavoro per le donne in ambienti prevalentemente maschili, non potranno mai sostituire una sana meritocrazia, a cui anche le donne hanno diritto e con cui sarebbero perfettamente in grado di confrontarsi, al di là di qualunque caratterizzazione negativa di sorta.

Le donne nella società-parte I: il patriarcato, istituzione potente e nascosta

Il patriarcato, nel tempo, ha assunto il ruolo di una vera e propria istituzione nascosta, in grado di influenzare le politiche degli Stati e la situazione lavorativa delle donne in maniera significativa: durante i secoli ha dimostrato sempre di resistere a qualsiasi cambiamento, soprattutto per preservare gli interessi dei politici e dei decisori, spesso uomini.
Le istituzioni sono state definite da alcuni studiosi come «regole del gioco nella società»: garantiscono stabilità alla società sulla base sia di valori (prodotti storici umani) sia di «miti razionalizzati», adottati cerimonialmente dalle organizzazioni: credenze, cioè, che vengono giustificate come se fossero razionalmente fondate.

Defamilizzazione e femminilizzazione del mercato: alcuni dati

Il patriarcato, a seconda dei punti di vista, può essere considerato un costrutto radicato nella società contemporanea o un retaggio culturale in via d’estinzione, messo in crisi dai movimenti femministi e da politiche per il lavoro inclusive, affacciatesi nel panorama occupazionale in particolare con il boom economico. Qui vogliamo dimostrare che, più che un semplice retaggio culturale, il patriarcato è una vera e propria istituzione: con le sue resistenze al cambiamento, è stato capace non solo di coltivare pregiudizi di genere, ma anche di ritardare la femminilizzazione del mercato del lavoro e la defamilizzazione del sistema di welfare mediterraneo, ostacolando, di riflesso, l’emancipazione femminile dai doveri familiari. La defamilizzazione e la femminilizzazione del mercato del lavoro vanno di pari passo: la defamilizzazione del sistema di welfare consiste nella presa in carico da parte dello Stato di doveri prima relegati alle famiglie (per lo più alle figure della madre e dei nonni) di cura e gestione dei figli. Con l’aumento dell’età pensionabile e, allo stesso tempo, dell’età in cui una donna si sente pronta a mettere al mondo un figlio (con il conseguente invecchiamento dei nonni e l’impossibilità, da parte loro, di badare ai nipoti), la necessità di questa transizione da famiglia a Stato (con la creazione di posti negli asili nido e incentivi per l’assunzione di una babysitter) si fa sempre più urgente.

I dati mostrano una sensibile difficoltà da parte dello Stato italiano a stare al passo con i target europei relativi ai servizi di cura infantile; queste difficoltà sono ammortizzate dalle famiglie, su cui grava la maggior parte dei compiti di assistenza e cura, relegati, nella stragrande maggioranza dei casi, alla componente femminile del nucleo.
Iniziative per affrancare le donne dal dovere di cura a cui la storia le ha condannate esistono, ma, fino ad oggi, sono emerse per lo più in situazioni di crisi, senza dare vita ad una vera e propria parità di genere o stringere significativamente il divario occupazionale che vede un’alta percentuale di donne disoccupate o con contratti part time. All’aumentare dell’occupazione femminile, in Italia, diminuisce il tasso di fertilità, perché una donna che lavora non è libera di scegliere tra famiglia e carriera, ma, molto spesso, questa decisione è obbligata dalla mancanza di assistenza e accessibilità alle strutture di servizi di cura infantile formali. Questo gap porta con sé un andamento opposto rispetto a quello che caratterizza i paesi scandinavi, il cui sistema di welfare è, invece, di tipo redistributivo.

Già negli anni ’80, mentre i paesi scandinavi vedevano un alto livello di femminilizzazione del mercato e defamilizzazione del sistema di welfare (welfare di tipo redistributivo, un modello universalistico di assistenza basato sui diritti di cittadinanza e non sul tipo di impiego), nei paesi mediterranei questo non accadeva: in Svezia, nonostante le donne lavorassero molto più che in Italia, il tasso di fertilità era leggermente superiore, e la nascita di bambini, unita alla defamilizzazione del sistema, ha richiesto interventi statali multilivello, volti a permettere una continuità di carriera alle donne al di là dei servizi di cura familiare.

Rispetto alla distribuzione del lavoro di cura tra uomini e donne nei diversi paesi – in base ai dati OCSE relativi al 2014 – in Italia e Spagna le donne dedicherebbero tre volte più tempo degli uomini alla famiglia, ai lavori domestici e al volontariato, mentre in Svezia questo valore si dimezza.

Nel caso italiano, un aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro porta con sé necessariamente un abbassamento del tasso di fertilità: in uno Stato influenzato dal cattolicesimo «nel forgiare queste politiche, in contesti sociali peraltro imbevuti di “familismo”» e che lascia alle famiglie il ruolo di ammortizzatori sociali, alle donne rimane poca libertà di scelta circa il proprio futuro, e lavorare e formare una famiglia rappresentano, ancora oggi, due percorsi spesso incompatibili. Per questo motivo, in Italia, una donna occupata su tre ha un impiego part time, mentre nel caso degli uomini questa percentuale si riduce all’8,5% (Censis, 2019). Il lavoro a tempo parziale implica un trattamento retributivo ridotto, minori possibilità di carriera ed è destinato a tradursi, nel tempo, in una pensione più bassa, lungi, dunque, dal rappresentare una forma di emancipazione e una libera scelta, quanto, invece, una mancanza di alternative. 

La caratterizzazione negativa del femminile

Nell’ambito di una così profonda radicazione culturale, l’istituzione del patriarcato va modificata e abbattuta dall’interno: non bastano decreti e disegni di legge per migliorare le possibilità lavorative delle donne, ma è necessario un cambiamento di mentalità alla radice, fondato sull’abbattimento dei pilastri fondamentali su cui l’istituzione stessa si regge: la fiducia nella razionalità maschile e la caratterizzazione negativa del “femminile”.
Il patriarcato, nel tempo, ha assunto il ruolo di una vera e propria istituzione nascosta, in grado di influenzare le politiche degli Stati e la situazione lavorativa delle donne in maniera significativa: durante i secoli ha dimostrato sempre di resistere a qualsiasi cambiamento, soprattutto per preservare gli interessi dei politici e dei decisori, spesso uomini.

Ma che cos’è un’istituzione?  Secondo alcuni studiosi, si tratta delle «regole del gioco nella società»: garantiscono stabilità alla società sulla base sia di valori (prodotti storici umani) sia di «miti razionalizzati», adottati cerimonialmente dalle organizzazioni: credenze, cioè, che vengono giustificate come se fossero razionalmente fondate. Un esempio di istituzione è il denaro: nessuno può modificare a posteriori il significato e il valore del denaro senza generare una sommossa popolare, in quanto esso, come istituzione, è stato convenzionalmente fissato nell’immaginario collettivo come valuta di scambio universalmente accettata; così anche il patriarcato, come istituzione “nascosta”, ha influenzato tanto profondamente la vita e la cultura dei popoli da poter essere difficilmente sradicato senza danni o opposizioni.

La caratterizzazione negativa del femminile ha una lunga storia alle spalle, che inizia con la filosofia greca, probabilmente con Aristotele, che nella Politica scriveva: «il maschio è per natura superiore, la femmina inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata». Da un certo punto di vista, quindi, la filosofia può essere considerata complice, se non colpevole, di tale caratterizzazione, avendo propagato la convinzione che la razionalità (intesa come capacità di produrre inferenze logiche valide) fosse una prerogativa maschile, escludendo in tal modo le donne dalle pratiche scientifiche e dalla sfera conoscitiva, relegandole alla dimensione emotiva e, dunque, all’ambito privato della casa e della famiglia.
Limitando la donna alla dimensione della cura sulla base di una presunta propensione naturale all’assistenza altrui, l’istituzione del patriarcato ha influenzato in maniera profonda la concezione della donna e il suo inserimento nell’ambiente lavorativo, attraverso politiche che sembrano quasi dare per dovuto il sacrificio della carriera femminile in virtù della gestione attiva dei bisogni familiari.

Un’indagine Istat del 2019 (con dati in riferimento al 2018) ha riportato che gli stereotipi sui ruoli di genere più comuni sono incarnati dal 58,8% della popolazione italiana (di 18-74 anni), e sono più diffusi al crescere dell’età (65,7% dei 60-74enni e 45,3% dei giovani) e al diminuire del livello di istruzione. I risultati di questa indagine sono significativi, perché mostrano che questi pregiudizi sono fondati su qualcosa che non può essere semplicemente un retaggio culturale: il patriarcato ha radici profonde, e come un’istituzione influenza la vita privata delle persone, ma anche la politica di un paese come l’Italia, che fonda il suo welfare prevalentemente sull’assistenza familiare.

 

È difficile risparmiare?

Che sia stato un viaggio con gli amici piuttosto che una pizza in compagnia, oppure la semplice condivisione delle spese di famiglia, ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha avuto la necessità di tenere sotto controllo le proprie finanze. A tal fine, negli ultimi tempi, sono state sviluppate numerose applicazioni per smartphone  che danno la possibilità di suddividere un qualsiasi tipo di spesa tra coloro che hanno contribuito: un metodo  certamente molto efficace quanto veloce da utilizzare per riuscire a determinare l’apporto di ognuno dei  partecipanti.

La realtà è ben diversa quando si tratta delle nostre finanze e risparmi. In questo caso,  subentrano diverse ragioni di natura matematica e psicologica, che rendono difficile tenere sotto controllo i propri soldi. La prima categoria è la più facile da notare: spese come l’affitto, l’alimentazione e l’abbigliamento sono sicuramente indispensabili, ma ad esse vanno aggiunte le voci di spesa che rendono il nostro stile di vita più accettabile come l’istruzione, la cultura e la cura della persona. Posto che la cultura del risparmio è ben radicata in Italia, l’insieme di queste necessità ha ridotto ancora di più la quota delle entrate che abitualmente si destinava al risparmio, tant’è che nell’ultimo ventennio, tale valore si è ridotto dal 20% al 9% del proprio reddito disponibile.

Le ragioni di natura psicologica ruotano attorno alla definizione più semplice del risparmio, che prevede la rinuncia all’opportunità di spesa immediata per destinare le proprie risorse per il futuro. Questo significa costituire un salvadanaio che porterà benefici nel futuro e non nell’immediato. Per quanto possa sembrare una realtà tutt’altro che rosea, esiste qualche metodo per porre rimedio a questa situazione.

Un suggerimento proviene dalla regola del “50-20-30”, citata per la prima volta all’interno del libro “All Your Worth: The Ultimate Lifetime Money Plan”. Il volume è il risultato di vent’anni di studi in questo campo da parte della senatrice statunitense Elizabeth Warren, docente di diritto commerciale a Harvard, e da sua figlia Amelia Warren Tyagi. Secondo tale regola, il primo passo da compiere è quantificare le proprie entrate. Una volta compreso il proprio budget mensile, tale somma viene suddivisa in tre macroaree, che seguono la logica dei numeri indicati. Il 50% del budget mensile deve essere destinato alle proprie necessità personali, quali, ad esempio, cibo, affitto, abbonamenti dei mezzi pubblici. Il 30% del budget deve essere destinato invece a spese di necessità secondaria come le cene fuori,  l’abbonamento in palestra piuttosto che l’abbonamento a servizi streaming come Netflix. Il restante 20% del budget può essere destinato al risparmio per il futuro. Adesso non resta che provare ad adattare questo  metodo alla propria situazione, rimanendo consapevoli che si può godere delle opportunità del presente  riuscendo comunque a riservare delle risorse per il proprio futuro.

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