big in japan

Molto povera è la consapevolezza europea sulla cultura orientale, non per mancanza di informazioni, ma per la superficiale qualità di queste ultime e, sopratutto, per il modo con cui gli occidentali si approcciano all’argomento in questione. L’Estremo Oriente viene ancora considerato come un territorio lontano e misterioso, nonostante la sua influenza nel mondo sia oggi tangibile e sarà sempre più presente negli anni a venire.

Per questo motivo è doveroso sfatare i tenaci cliché sulla cultura orientale (come quella della somiglianza, del tutto infondata, tra giapponesi e cinesi) andando ad analizzare uno degli stati fondatori di quest’ultima: il Giappone, il Paese del Sol Levante. I viaggiatori rimangono sempre stupiti dall’unicità e dalle particolarità del popolo nipponico che lo rendono così diverso ed impenetrabile agli occhi occidentali. La gente cordiale, l’ottimo sistema di trasporti pubblici in perfetto orario e la natura meticolosa ed attenta dei giapponesi ne sono gli esempi più comuni.

Sebbene gli stereotipi sul Giappone siano spesso vaghi ed inesatti, è pur vero che esso presenta alcuni aspetti peculiari, frutto della sua storia e del modo in cui la popolazione si è evoluta ed ha interagito con l’ambiente. Si è sviluppata una società che dà grande importanza all’identità di gruppo in funzione dell’armonia sociale, poiché in passato non sono esistiti gli stati gli spazi per coltivare un individualismo attivo. Il Giappone è un arcipelago e la separazione geografica dall’ Asia continentale è stato un elemento fondamentale nella cositutizione dell’identità del paese. Inoltre gran parte del suo territorio è per lo più montuoso, di conseguenza le poche aree pianeggianti sono densamente abitate e gli abitanti hanno sempre vissuto a stretto contatto fra di loro, sulla base di un’organizzazione rigidamente gerarchica e per un lungo periodo simile ad un sistema di caste. Lo scambio di opinioni e i dibattiti accesi, comuni nei paesi Occidentali, erano e sono ancora, fenomeni piuttosto rari.

L’armonia deriva dall’autocontrollo personale e dalla cordialità, nell’attitudine a mostrare sempre un sorriso che cela le preoccupazioni private. Tutto ciò è radicalizzato nelle tradizioni che continuano a sopravvivere nonostante l’arrivo della modernità. È buona educazione, infatti, riempire il bicchiere del tuo vicino durante i pasti ed aspettare che questo faccia lo stesso oppure evitare di soffiarsi il naso in pubblico. Questa mentalità rituale è un lascito delle religioni principali.
Secondo un curioso proverbio, i giapponesi nascono shintoisti, si sposano cristiani e muoiono buddisti. La maggior parte degli abitanti della nazione pratica sia lo Shintoismo, soprattutto per quel che riguara il battesimo e il matrimonio, sia il Buddismo, riservato invece alle celebrazioni funebri. Benché i seguaci del Cristianesimo siano una minoranza, il matrimonio cristiano rappresenta un’originale alternativa alla cerimonia scintoista.

La tradizione è però solo una faccia della medaglia. Oltre alle bellezze architettoniche dei santuari, dei templi e dei castelli, il Giappone è conosciuto per la sua modernità e per le sue tecnologie d’avanguardia. Da qualche anno non è più l’Occidente ad esercitare un influenza sul paese del Sol Levante, bensì il contrario . Molti prodotti, come elettrodomestici e auto, vengono esportati in tutto il mondo da multinazionali celebri come la Toyota e l’Honda. Per non dimenticare la diffusione sempre più capillare nel mondo giovanile europeo e americano dei manga ed anime giapponesi e dei loro Cosplay che si fanno spazio tra i classici fumetti e cartoni disneyani. Ormai c’è qualcosa di “nipponico” anche nei nostri modi di vivere. Per fortuna, il progressivo avanzare della cultura pop e materialistica dei paesi occidentali non ha cancellato completamente le antiche tradizioni.

Se si visitano grandi città come Tokio e Kyoto, risulta lampante quanto incredibilmente la modernità conviva con la tradizione: a pochi passi dai frenetici centri abitati sono presenti santuari solenni, templi antichi e giardini incantevoli. Questi scenari, custodi della memoria di un tempo, cercano di farsi spazio nell’urbanizzazione eccessiva, che ha reso fin troppo evidente l’impronta dell’uomo sull’ambiente circostante. Anche se quest’ultimo è stato manipolato per secoli, ci sono ancora paesaggi che mostrano una varietà di climi ed ecosistemi che pochi paesi al mondo hanno la fortuna di avere. Una coscienza ambientale si sta diffondendo soprattutto tra le nuove generazioni.
In apparenza i giapponesi possono sembrare persone serie e noiose, ma dietro ai volti indecifrabili si nasconde una grande voglia di divertimento che prende vita nei matsuri (feste) e negli eventi più famosi . Ad esempio se parteciperete all’Hanami, la contemplazione dei ciliegi in fiore fra marzo e aprile, la popolazione locale vi offrirà gioiosamente sakè, birra e cibo e vi chiederà di ballare e cantare con loro, oppure di esibirvi col karaoke portatile.

Ciò che più stupisce del carattere nipponico è l’atteggiamento vigorosamente positivo nei riguardi della vita. Questo clima favorevole trae le sue radici dallo Shintoismo, la religione autoctona del paese. Fosco Mariani, etnologo poeta e autore fiorentino del celebre libro “Ore giapponesi” definisce questo culto come <<un portatore di un’accentuata filosofia vitalista, non teorizzata, ma vissuta in riti, simboli, atteggiamenti emotivi. E proprio al vitalismo Shinto va riferita moltissima parte di quella frenesia produttiva, diciamo pure di quell’aggressività industriale e commerciale, che contraddistingue gran parte dei giapponesi di oggi>>.

Nonostante la situazione quasi insostenibile dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone si è ripreso a grande velocità negli anni ’50, ai ritmi di un miracolo. I decenni seguenti sono stati caratterizzati da un periodo di stagnazione economica dapprima causata dallo scoppio della “bolla economica” del 1990 e poi dalla crisi finanziaria mondiale del 2008.
Tre anni dopo uno dei più devastanti terremoti dell’ultimo periodo e il conseguente tsunami hanno colpito il Giappone provocando la morte di 15.000 persone. Il Paese del Sol Levante, con sana determinazione e volontà, si è rimboccato le maniche riprendendosi dalle avversità come solo questa nazione sa fare. Il suo sguardo è sempre teso al futuro senza mai dare le spalle al passato.
Ora il Giappone si sta preparando per le Olimpiadi del 2020 che si terranno a Tokyo: nell’aria regna un chiaro ottimismo.

Ricordando Natalia Ginzburg

Ma il cancello che a sera

s’apriva, resterà chiuso

per sempre, e deserta

è la tua giovinezza.

Spento il fuoco,

vuota la casa.

(Natalia Ginzburg, Memoria)

Cent’anni fa a Palermo nasceva Natalia Levi, meglio conosciuta con il cognome del primo marito, Leone Ginzburg. Ma di siciliano l’autrice non ha conservato nulla, anzi, nascere in Sicilia è stato un evento del tutto accidentale: la famiglia Levi si trovava a Palermo perché il padre Giuseppe aveva ottenuto lì la cattedra di anatomia comparata. Ben presto, quando Natalia ha solo tre anni, i Levi si trasferiscono a Torino, in una grande casa in via Pastrengo. L’autrice dirà in seguito: «non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale […] mi immaginavo però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo […] cullandomi nella nostalgia, o in una finzione di nostalgia, feci la prima poesia della mia vita, composta di soli due versi: Palermino Palermino / sei più bello di Torino». E a Torino la vita di Natalia è legata a doppio filo: qui cresce, scopre sé stessa, inizia a scrivere e frequenta i più straordinari intellettuali dell’epoca. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, l’infanzia della Ginzburg non si può propriamente definire felice. Natalia è stata istruita in casa da insegnanti private e questo è stato per lei motivo di solitudine. Quando veniva portata a scuola per sostenere l’esame di fine anno, un sommesso senso di invidia la pervadeva: anche lei avrebbe voluto essere povera come quei bambini, povera ma felice insieme agli altri, povera però come tutti. In questi anni a farle compagnia sono i libri a cui si appassiona e le poesie che scrive e che è costretta a nascondere ai fratelli per non venire derisa. Anche i primi tempi al Liceo Classico Vittorio Alfieri, quando studia finalmente in classe con altri coetanei, sono segnati da una nota di malinconia: è, ad esempio, l’unica a non avere un vicino di banco. In ogni caso, fin da subito si distingue per l’abilità nella scrittura con i suoi temi, che si guadagnano il plauso dell’insegnante e l’onore di esser declamati alla cattedra. Nel periodo liceale legge Anton Chekhov e Alberto Moravia, che erge a suo maestro: «Lessi e rilessi Gli indifferenti più volte, col preciso proposito di imparare a scrivere. Quello che volevo che mi fosse insegnato, era la facoltà di muovermi in un mondo impietrito, e Moravia mi sembrava il primo che si fosse alzato e mosso camminando nella precisa direzione del vero», spiega.

Occorre ora fare un salto di circa trent’anni e piombare nel 1963, quando Natalia Ginzburg vince il premio Strega – scalzando autori di notevole statura come Beppe Fenoglio e Tommaso Landolfi – con il suo Lessico famigliare. Il libro è, come dichiara in un’intervista rilasciata per la Rai, una sorta di «diario diseguale», di «autobiografia scoperta» in cui l’autrice ripercorre la sua vita dagli anni Venti agli anni Cinquanta. L’intento primario era quello di mettere per iscritto il vocabolario sui generis che la sua famiglia utilizzava e trasformarlo in un racconto, ma poi il materiale si è infittito ed il progetto si è concretizzato in un romanzo.

In realtà, è difficile catalogare il libro come romanzo, e anche l’etichetta “autobiografia” gli sta stretta. Certo, i fatti raccontati sono realmente accaduti, così come veri sono i personaggi, ma l’autrice stessa tiene a precisare nell’Avvertenza che Lessico famigliare «benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare». È la memoria, per quanto frammentaria, a fare da propulsore ed a scandire il ritmo del libro, ed i ricordi che affiorano vengono messi su carta in maniera spontanea, senza seguire un preciso ordine cronologico, così che i vari piani temporali finiscono per intersecarsi. Il risultato è un flusso continuo di memorie, separate solo da spazi bianchi e non suddivise per capitoli o, come accade ad esempio ne La coscienza di Zeno, grandi aree tematiche. Inoltre, fatto piuttosto insolito per un’autobiografia, la protagonista non è la voce narrante: «questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia» scrive sempre nell’Avvertenza. Natalia-personaggio rimane, infatti, in ombra e a campeggiare fin dalla prima pagina è il padre, vera fucina di espressioni come «sempio» (stupido), «negrigura» (gesto inappropriato), «babe» (amiche di sua moglie), che costituiscono quel lessico valido solo tra le mura di casa a cui rimanda il titolo: «una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati».

Le pagine di Lessico famigliare permettono di intrufolarsi nella vita dell’autrice e di capire cosa accadeva nella Torino di quegli anni. Sarà ad esse, quindi, che si ricorrerà per continuare a raccontare gli anni Trenta di Natalia. Riprendiamo dal periodo del liceo, che è lo stesso del fascismo, a cui tutta la famiglia Levi è avversa, in particolare il fratello Mario, che faceva parte della cellula torinese del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» insieme a Leone Ginzburg. È proprio Mario a far sì che Leone e Natalia si incontrino, nel ’33. Lei aveva scritto un paio di racconti, Mario li aveva passati a Leone e Leone li aveva spediti alla rivista «Solaria». Fu così che l’autrice pubblicò il suo primo racconto, I bambini. Poi, lei e Leone si legarono sempre di più e, nel ’38, pochi anni dopo la fine del liceo, i due convolarono a nozze e andarono a vivere nella casa di via Pallamaglio (ora via Morgari 11). Ginzburg fu un convinto dissidente del fascismo: «Leone, la sua passione vera era la politica». Fu anche socio fondatore della casa Editrice Einaudi, anch’essa nata negli anni Trenta.

Il libro fa ben comprendere ciò che è stata Einaudi ai suoi albori, le amicizie tra einaudiani come Cesare Pavese, Balbo e lo stesso Ginzburg, l’ascesa della casa editrice. Natalia racconta, ad esempio, che Leone e Giulio Einaudi dovettero insistere per convincere Pavese a lavorare con loro: «Diceva: – Non ho bisogno di uno stipendio […] –. Aveva una supplenza al liceo. Guadagnava poco, ma gli bastava. Poi faceva traduzioni dall’inglese […] Scriveva poesie. Le sue poesie avevano un ritmo lungo, strascicato […] alla fine si persuase, entrò anche lui a lavorare con Leone in quella piccola casa editrice». La casa editrice consiste, inizialmente, in due locali al terzo piano di un palazzo in via Arcivescovado 7, ma poi si ingrandisce e, quando la sede antica crolla durante un bombardamento, si trasferisce in corso Re Umberto.

La Ginzburg scrive anche della Seconda Guerra Mondiale e di ciò che ha comportato per lei ed i suoi cari. Prima della guerra, Leone insegnava letteratura russa a Torino ma perse presto il posto perché si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al Partito Fascista; poi anche il padre di Natalia, Giuseppe, perdette la sua cattedra e si trasferì a Liegi, in Belgio, per continuare ad insegnare. Quando, nel ‘38, entrarono in vigore le leggi razziali, a Natalia e suo marito fu ritirato il passaporto e Leone, essendo antifascista, ogni volta che un’autorità politica giungeva a Torino, veniva arrestato in misura preventiva. In seguito, venne mandato al confino, in Abruzzo, dove Natalia lo seguì con i loro figli e diede alla luce Alessandra. La vocazione alla scrittura, negletta in questo periodo, viene risvegliata grazie all’ausilio di Pavese, che scrive: «Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro più bello del mio», il libro in questione è Paesi tuoi, in cantiere in quell’anno. Nel ‘42 esce finalmente il primo vero romanzo ginzburgiano, La strada che va in città, che l’autrice, a causa delle leggi razziali, è costretta a pubblicare con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Nel luglio del ’44 Leone lascia il confino per Roma e la moglie a novembre lo raggiunge: «Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice […] Leone dirigeva un giornale clandestino […] Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più». Muore lì, in prigione, torturato dai tedeschi, e la Ginzburg più tardi riverserà nella poesia Memoria il suo dolore per la morte del marito.

Terminato il confitto mondiale, l’autrice si sofferma a ragionare sulle tendenze letterarie del dopoguerra. Ora lavora all’Einaudi e scrive: «Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare […] Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia». Sono, questi, gli anni del neorealismo, in cui tutti sono presi dalla smania di raccontare l’esperienza vissuta. Sono anche gli anni Cinquanta – aperti dal suicidio di Pavese, di cui la Ginzburg non manca di scrivere -, sui quali si conclude Lessico famigliare.

Il valore documentario del romanzo è considerevole, anche se non c’è un vero intento cronachistico. C’è solo, più forte di tutto, la voglia di raccontare saltellando qua e là tra i ricordi.

I segreti del Trono di Spade

Il Trono di Spade (originariamente “Game of Thrones”) è la serie TV campionessa di ascolti e di incassi tratta dai celebri romanzi di George RR Martin. La serie, prodotta da HBO e distribuita in Italia da Sky, è sul punto di ritornare sul piccolo schermo con la settima, forse ultima, stagione. Nonostante sia tra le serie televisive più seguite al mondo, molte sono le curiosità di cui in pochi sono a conoscenza: eccone alcune!

Leggete senza timore, vi avvertirò in anticipo in caso di eventuali spoiler.

Per prima cosa, non tutti sanno che ottenere i diritti per poter produrre la serie è stato molto difficile. L’idea dello show non convinceva infatti George RR Martin, ma, in un incontro con i produttori, questi gli rivelarono di essere riusciti a capire chi fosse la madre di Jon Snow (uno dei personaggi principali), la cui identità non era ancora nota. Conquistando così l’attenzione dell’autore, egli diede il via ufficiale alla produzione.

Fin dalle prime puntate è stato possibile individuare una delle caratteristiche principali della serie: la macabrità di alcune immagini. In una delle scene più famose della prima stagione troviamo per l’appunto l’attrice Emilia Clarke (Daenerys) intenta a mangiare un cuore intero pulsante. Probabilmente ciò che non sapete è che ciò che l’attrice ha realmente divorato è una grande caramella gommosa.

Ciò che è invece più noto, è il fatto che i costi di produzione della serie sono da sempre elevatissimi; ma di quanto stiamo effettivamente parlando?
In media, per ogni singolo episodio sono stati spesi circa 6 milioni di dollari dalla casa di produzione. La cifra è stata però ampiamente superata in alcuni casi singoli, come nel caso dell’episodio “The Battle of the Bastards”, che è costato ben 10 milioni di dollari.

[ALLARME SPOILER]
Parlando invece dei singoli attori, alcuni hanno affermato di non aver letto i libri e di non conoscere quindi il seguito della storia se non per quanto letto nei copioni. E’ il caso di Charles Dance, interprete di Tywin Lannister, il quale ha raccontato di aver scoperto da una sua fan che il suo personaggio sarebbe stato ucciso di lì a poco da niente meno che uno dei suoi figli. Chissà se l’attore, sicuramente provato dalla notizia, avrà poi deciso di leggere i romanzi!

L’ultima curiosità che vi propongo, riguarda un amore nato sul set. Non crediate che stia per raccontarvi dell’ennesima relazione tra attori nata durante le riprese, dato che quello di cui sto parlando è l’affetto che è scaturito da Sophie Turner (Sansa Stark) nei confronti del cane che ha “recitato” nel ruolo di Lady, il fedele “metalupo” ucciso da Ned Stark per volere di Cercei. Sophie ha deciso di prendere il cane in adozione dopo le riprese e di chiamarla Zunni.

Spero di aver reso più sopportabile l’attesa della settima stagione della serie con queste curiosità e ricordate che, anche se siamo ormai a Marzo, l’inverno sta, inevitabilmente, sempre e comunque, arrivando.

IL CIOCCOLATO FA VENIRE I BRUFOLI?

Alcuni dermatologi si sono riuniti a Perugia per il simposio “Acne e cioccolato” dell’Adoi (Associazione dermatologi ospedalieri italiani), per sfatare il mito che collega i brufoli al consumo del cioccolato. Questa credenza, infatti, è sfruttata dai genitori ma non è fondata su alcun fatto documentato. Per stabilire quale relazione realmente ci sia fra la salute della pelle e il cacao è stato eseguito, su cinquanta adolescenti, il primo studio multicentrico italiano, a cui sono stati fatti consumare 60 grammi di cioccolato al giorno. Dopo due settimane nessuno ha presentato la proliferazione di brufoli e i dermatologi hanno quindi chiarito che solo in dosi massicce, il dolce potrebbe contribuire ad alterare l’equilibrio dei microorganismi a livello intestinale e cutaneo. Sottolineano inoltre che i cibi che peggiorano l’acne sono quelli che aumentano il metabolismo glucidico e degli aminoacidi. Quindi zuccheri, lipidi e, in parte minore, gli aminoacidi della carne rossa. È soprattutto la presenza di estrogeni nella carne e nel latte a contribuire allo sviluppo dell’acne. Grazie ai dermatologi la cattiva credenza è sfatata. Come del resto è noto da sempre ad ogni Maestro cioccolatiere!

Intervista a Elena Varvello – SIC 2016

Intervista a Elena Varvelli

Sabato ore 15.30, incontro di scrittori in città dal titolo ” I nomi dei padri”, dove tre scrittori, Andrea Cisi, Pietro Grossi e Elena Varvelli, hanno raccontato la forza motrice che li ha spinti a scrivere le loro nuove opere, ossia la necessità di filtrare e valutare il rapporto con i loro padri. Questa valutazione la riflettono nei loro personaggi e la offrono al pubblico come spunto per compiere lo stesso viaggio nella loro memoria. Elena Varvelli propone cosi a scrittori in città la vita felice, il suo ultimo romanzo.

Il dissidio padre-figlio è un tema che rimarrà sempre aperto ed è legato a filo doppio dal contesto socio-culturale in cui si è vissuti. Secondo lei, da cosa è derivata questa esigenza di riavvicinamento nei confronti del proprio padre?

La verità è che scriviamo questi libri per cercare questa risposta. Ciascuno di noi cerca di scappare dalla figura paterna, di andarsene il più lontano possibile fino ad un certo punto della vita. Poi arriva il momento in cui si ci rivolge al passato e si ci pone delle domande, domande che non ci saremmo mai posti prima in questo fuggire. Io ed Elia, il protagonista del mio libro, abbiamo vissuto la stessa esperienza; il paese in cui vive Elia si chiama Ponte ed il riferimento non è  casuale, c’è sempre un ponte invisibile che collega padre e figlio. Come si ci può allontanare da una sponda, si può allo stesso modo tornare indietro. In quanto al perché di questo ritorno la risposta probabilmente la  troverò scrivendo.

Oggigiorno la figura del padre si è evoluta rispetto a quella del passato, il padre moderno è quello che si prendere cura del figlio e cerca di instaurare un dialogo con lui. In tutto ciò, non si sta un po’ perdendo il ruolo chiave di maestro che, quando è necessario, rimprovera l’alunno?

Questo è un problema moderno; è un momento di grande smarrimento per i padri, che si sono abbandonati più morbidamente ad un ruolo di accudimento, di vicinanza, ma che sentono che questa vicinanza sottrae qualcosa al loro ruolo di maestro. Allo stesso modo si perdono i figli che vagano senza confini. La mia impressione è che questo, comunque, sia un periodo di passaggio necessario per l’apprendimento di nuove forme di dialogo nelle famiglie e porta, come ogni fase di passaggio, sbigottimento e tramortimento.

Ultimissima domanda, cosa consiglierebbe ad un ragazzo che si vorrebbe affacciare al mondo della scrittura?

Di scrivere senza l’esigenza di pubblicare il prima possibile. Non si scrive per se stessi, ovviamente, ma neanche per gli altri. Inoltre non bisogna avere paura dei conflitti, la letteratura è conflitto, bisogna essere un po’ sadici rispetto ai propri personaggi e metterli nei guai per tirare fuori le loro paure, che in fin dei conti sono quelle di chi scrive.

Intervista a Shady Hamadi – SIC 2016

Shady Amadi, classe 1988, giornalista, figlio di papà siriano musulmano e mamma italiana cristiana.

Lo incontriamo dopo un dibattito sul tema “Islam, la pace non solo nel nome” insieme a una brillantissima Chaimaa Fatihi, delegata nazionale dell’Associazione Giovani Musulmani d’Italia al Forum Nazionale Giovani.

Abbiamo parlato con lui della Siria e delle conseguenze di questa disastrosa guerra sui suoi abitanti, sui suoi sfollati e sul resto della scena internazionale.

C’è qualcosa che possiamo fare noi? Certamente. Le risposte di Shady vi chiariranno le idee.

La guerra in Siria finirà quando…? 

Questo non lo so. Finirà di sicuro quando la comunità internazionale, la società civile capirà che quello che sta avvenendo in Siria è un suo problema. Il fatto è che fino ad oggi questo non è stato compreso, quindi le prospettive non sono buone. E poi il dopo. Finisce la guerra, ma dopo come si ritrova questo paese con mezzo milioni di morti e tredici milioni di sfollati?

Qual è l’alternativa che tu vedi al regime di Assad?

Sostenere la società civile che cerca l’emancipazione dalla dittatura e dal fondamentalismo islamico. Sono ragazzi come noi che perdono la vita quotidianamente nella completa indifferenza della comunità internazionale.

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Nel tuo libro  (Esilio dalla Siria) dici che spesso i giornalisti definiscono la Siria come un “caos”, e questo non aiuta nessuno, tranne forse il regime e i gruppi fondamentalisti. Il problema è il giornalismo che non si interessa abbastanza alla Siria e non la conosce? Ci sono giornalisti in Siria adesso?

Sì, ci sono giornalisti siriani, sono i citizen journalist che documentano quello che avviene all’interno del paese. Quando io parlo di caos intendo dire che manca la contestualizzazione della notizia, cioè “90 morti ad Aleppo” non basta, devi spiegare al lettore cosa accade ad Aleppo e da quando. Bastano due righe per fornire quel dettaglio in più che aiuta il lettore a comprendere la situazione. E poi descrivere la situazione come un caos significa non voler vedere quello che davvero è accaduto, non mettere insieme i fatti che hanno portato al disastro di oggi.

Giornalisti italiani che coprono la Siria?

Ce ne sono stati molti che sono entrati nel paese e hanno fatto un ottimo lavoro. Il problema è che non sono stati apprezzati quanto invece lo sono stati altri. Io credo che ci sia un altro problema di fondo cioè quanto i giornali vogliono spendere sugli esteri. Il fatto è che credono che gli esteri non diano lettori, allora non gli rivolgono attenzione, e questo è un grosso problema.

Ma che cosa manca in Europa? Mi spiego: perché molti giovani europei decidono di trovare una risposta nel fondamentalismo? Perché partono?

La risposta non è solo il fondamentalismo, c’è anche chi va a combattere in altre formazioni che noi non consideriamo fondamentaliste come le YPG nel Kurdistan. Sono sempre giovani italiani che partono. Un NoTav di Torino (Davide Grasso, ndr) è andato là a fare un video contro Renzi. Lo si poteva fare anche da Cuneo sto video non andando in Siria. Questo è un vuoto che c’è in Europa e che colpisce tutti i giovani. Parlo di un vuoto identitario, un vuoto anche culturale di riferimenti morali, insieme poi a delle società che si stanno sfilacciando, che porta molti giovani a fare queste scelte. In Francia c’è anche il fenomeno della ghettizzazione dell’altro, del musulmano, che ha avuto ripercussioni nefaste con molti che sono andati a combattere. Ma poi qua in Italia, secondo me, come in altri paesi, c’è proprio un vuoto morale, un vuoto di riferimenti. La globalizzazione ci ha talmente tanto intrecciati che io vado a cercare la risposta al fallimento della mia vita in un altro paese, a dare senso alla mia vita in un altro paese, perché senso qua non ce l’ha.

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Noi cosa possiamo fare?

Svolgere una battaglia culturale profonda, senza santificare persone. Mettere in crisi anche la cultura che c’è oggi in Italia: chiedere di più di quello che ci viene dato. Noi giovani poi dobbiamo incontrarci, costruire una rete, dibattere tra di noi e impegnarci perché l’impegno manca. Io ascolto tanti miei coetanei – ho 28 anni – che mi dicono: “È inutile che io faccia le cose perché tanto non cambia nulla!”. Questa è la peggiore delle risposte perché non far nulla agevola quello che accade oggi nel mondo del lavoro, negli esteri e in tutto il resto. Invece noi dobbiamo rispondere a quello che non hanno fatto i nostri genitori.

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