La Letteratura ai giorni nostri: incontro su Alessandro D’Avenia

L’associazione culturale 1000Miglia, in collaborazione con la libreria Stella Maris di Cuneo, cercherà di raccontare come alcuni autori contemporanei siano riusciti a penetrare il mondo giovanile di oggi: amici, amore, genitori, scuola sono solo alcuni degli spunti che emergono dai libri di Alessandro D’Avenia e Alessandro Baricco.

Il primo incontro sarà su Alessandro D’Avenia, “Dai banchi alla vita, da figli a genitori”, e si terrà venerdì 27 gennaio alle ore 18 presso la libreria Stella Maris a Cuneo, in via Felice Cavallotti 5. L’incontro sarà accompagnato da pezzi musicali arrangiati da Gioele Luchese e da letture dai libri di Alessandro D’Avenia: “Bianca come il latte, rossa come il sangue“, “Cose che nessuno sa“, “Ciò che inferno non è“, “L’arte di essere fragili“.

Nel secondo appuntamento si dialogherà su Alessandro Baricco, mentre nell’ultima serata sarà presente la scrittrice Elena Varvello, insegnante della Scuola Holden di Torino.

Libreria Stella Maris

E se un’ora di lezione mi salvasse?

Caro prof,

ormai siamo quasi a metà dell’anno scolastico e ho il piacere di consegnarti con umiltà queste lettera con la speranza che tu possa leggerla, gustarla, apprezzarla o stracciarla, a patto che le tue mani possano toccarla concretamente, come ti auguro di fare con tutte le ferite e le gioie degli allievi che da lunedì ti ritroverai in classe.

A partire da gennaio si può parlare di secondo tempo in ambito scolastico: dopo la pausa di 15 giorni per le vacanze natalizie, dove ci si rifocilla un po’, non con un tè caldo ma con panettoni e cenoni interminabili, inizia la vera partita, quella che stabilisce il vincitore al triplice fischio finale di giugno. Ogni allievo avrà un obiettivo diverso e anche ogni professore ambirà a un risultato differente. Non oso neanche citare la volontà di qualche insegnate di diminuire il numero di allievi in classe perché ingestibile o il desiderio di regalare alti voti per lavarsi le mani di fronte alla possibilità di esami di riparazione a settembre. Almeno spero che la tua ambizione sia quella di lasciare il segno nel cuore dei tuoi ragazzi, di iniziare in loro il compimento di un progetto di vita futuro che non si fermi al completamento del programma o al raggiungimento di un voto superiore alla sufficienza.

Desidero, però, condividere con te anche questa piccola riflessione che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, in una lettera ai suoi insegnanti: “Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani” (Les mémoires de la Shoah, in “Le Monde” del 29 aprile 1995).

Credo che il testo parli abbastanza da sé e non saprei che altro aggiungere di fronte a tanta verità. Infatti la verità è così: ormai dimenticata, perché ritenuta impotente in un mondo di maschere pirandelliane, da poter disarmare anche i più forti.

Di sicuro potrebbe essere facile ribattere a questo preside sostenendo che la quotidianità di una classe di adolescenti in cerca di se stessi non è una confortevole crociera verso il diventare persone adulte e mature, ma una lotta dove, per farsi valere, è necessario utilizzare il pugno di ferro.

Prof, per piacere, non cercare giustificazioni. Combatti anche tu con te stesso come tutti quei trenta allievi che lottano con se stessi già la notte, magari non chiudendo occhio prima di venire a scuola perché persi in una battaglia senza speranza, dove il sogno di realizzarsi nel proprio futuro si scontra con l’unisona voce di un mondo consumistico e iperattivo che fa del piacere la propria unità di misura, annientando gran parte dei desideri realmente umani.

Tra le mani, prof, hai tutto per poter rendere i tuoi ragazzi umani: la tua storia, la tua passione, la tua identità. E se tutte queste cose non bastassero o fossero segnate da tormenti, non ti resta che affidarti a quegli studi che ti hanno accompagnato per tutta l’università fino a condurti a diventare insegnante. Dante risolve ogni problema d’amore, Pitagora trova soluzioni quando sembrano impossibili e Brunelleschi costruisce cupole anche quando ogni progetto risulta irrealizzabile. Per piacere, racconta tutte queste bellezze con la tua voce che si spezza di fronte a un verso indescrivibile o a una costruzione memorabile, con quelle parole che ti appartengono, che sono talmente tue da salvare gli allievi e te stesso facendo memoria del significato più profondo nascosto dietro alla lezione che mi stai spiegando. Vorresti farmi credere tu, professore di biologia, non ti sei mai emozionato davanti alla meraviglia dell’incontro tra un ovulo e uno spermatozoo o tu, professore di fisica, non ti sei mai esalto di fronte a semplici formule che spiegano la luce e la sua propagazione nell’universo? Appassiona con questi racconti, con queste teorie i tuoi ragazzi. Usa parole vere, donacele, ormai mancano in noi. Sempre più leggiamo per informarci, ma sempre meno gustiamo le parole. C’è una grande carenza nel vocabolario di noi giovani. Abbiamo poco per volta perso la ricchezza del nostro linguaggio verbale saziando il vuoto prima con Ruzzle e adesso attraverso le emoticon di Facebook: non ci sforziamo neanche più di cercare le parole, esprimiamo i nostri pensieri con un semplice clik su un pollice alzato o un cuore.

La parola è nient’altro che un suono che rimanda ad una realtà, eppure non sappiamo più rimandare il nostro pensiero a nessun altro significato oltre quello che si presenta davanti ai nostri occhi. Creatività e immaginazione sono scomparse: forse perché il programma da portare a termine durante l’anno scolastico non permette piccole evasioni, anche se approfondimento di un argomento proposto?

Chi fa delle proprie parole un’arte e un mestiere cerca di raccontarci la realtà, di entrare nelle nostre menti con “canzonette” pop che passano in radio. Eppure a volte le rifiutiamo perché apparentemente banali, non musicalmente elevate o, forse, le sentiamo senza ascoltarne una parola. Pensare che la stessa cosa succedeva alle vicende di Ulisse nell’antico mondo greco: una narrazione troppo banale per essere considerata espressione della realtà all’epoca, riscoperta come guida e opera eccelsa oggi.

In uno dei suoi ultimi singoli, J-AX, insieme a Fedez, Stash e Levante, canta: “Da bambino ero felice quando nevicava, adesso blocca il traffico, rovina la giornata”. Parole semplici, ma così vere che ormai non hanno quasi più peso perché la nostra umanità sembra essersi abituata a questa realtà, come se non valesse più la pena alzare lo sguardo per meravigliarsi di fronte a quelle manifestazioni sorprendenti della natura e di quel pianeta che ci ospita. Troppo spesso la stessa situazione si ripresenta in classe tra i banchi. Ragazzi disillusi di fronte a opere e scoperte che hanno radicalmente cambiato il vivere dell’uomo cercando di spiegarne i misteri più profondi, con insegnati scoraggiati che non sanno ritrovare il rotolo della matassa.

Partendo dal presupposto che le vicende politiche e ministeriali sembrano troppo spesso dimenticarsi della scuola, perché non ripartire da coloro che fanno la scuola? Senza allievi e insegnanti la scuola, infatti, non esisterebbe.

Per piacere, prof, questa volta non cercare surrogati. Ogni allievo si affida a te, si mette nelle tue mani. Non hai mai pensato alla grandezza e alla bellezza della tua responsabilità? Rendere umano un adolescente in cerca di risposte esistenziali nella vita. Certo, non sazierai tutti i vuoti e non darai risposta a tutti i dubbi, ma tu, prof, puoi iniziare a tracciare il sentiero.

Un proverbio ebraico recita che chi semina datteri non mangia datteri, ma non per questo un papà si rifiuta di piantarli per i propri figli. Ecco, come studente posso prometterti che se tu ci sei e non ci fai, se ti mostri fragile, mi presenti i problemi, ma non mi abbandoni ad un altro anno frustrante che mi rende ancor più frustrato nella vita, noi studenti torneremo un giorno da te e ti abbracceremo sussurrandoti qualcosa di simile al testo dell’ultimo singolo di Robbie Williams: “Pregherò (desidererò) di darti tutto ciò di cui tu hai bisogno, così un giorno tu mi dirai: – Amo la mia vita, sono pieno di energie, sono bello, sono libero”.

Queste parole sono l’espressione migliore per ricordarti, caro prof, che tutto quello che donerai ai tuoi alunni tornerà a te.

Ti auguro il meglio prof, di camminare, correre e volare in questo secondo tempo. Ti assicuro che così “sbaraglierai tutto ciò che non era vita e non scoprirai in punto di morte che non eri vissuto” (Thoreau) e che noi studenti non chiediamo tutto a te, sappiamo che anche tu sei fragile e sei umano, ma solo tu puoi appassionarci in una singolare maniera.

Prova a fidarti per una volta dei tuoi studenti: il meglio arriverà. Ricordiamoci a vicenda che “che tu sei qui, che la vita esiste e l’identità, che il potente spettacolo continui e che tu puoi contribuire con un verso” (Whitman) e il viaggio in questo mare sarà leggero, essenziale. Diventerà quasi bello naufragare nel mare della scuola.

I panini della buonanotte

Chi non ha mai sognato di ricevere qualcosa di nuovo? Di alzarsi la mattina di Natale e trovare qualche regalo solo da spacchettare? Ma non solo: dei nuovi amici, un nuovo naso e delle nuove orecchie, un nuovo lavoro, un nuovo papà,… Insomma, una novità per segnare una nuova nascita nella propria vita come quelle sere che si va a letto con la convinzione che dal mattino dopo tutto cambi. E non è nuovo che il giorno dopo nulla cambi.

Paul ha 19 anni, è originario della Repubblica Centraficana e per arrivare in Italia ha attraversato tutta l’Africa sahariana con camionette di fortuna o camminando a piedi scalzi lacerati sul deserto ardente. Una traversata lancinante per approdare in Italia in cerca di quella novità negata nel suo paese natale: un nuovo lavoro, un nuovo senso a quella crudele esistenza che l’ha condannato a scappare dal proprio paese, un nuova vita.

Com’è triste fuggire. Com’è umiliante rinnegarsi di fronte alla propria terra natia ormai solo più terra di parti. Chi nasce, scappa: fisicamente o mentalmente non importa, viverci in tutto e per tutto è deleterio.

Paul ride e ha una cicatrice sulla guancia, segno di una sigaretta spenta sulla sua pelle. Paul parla italiano e dopo tre anni di scuola in Italia ha letto una versione semplificata dell’Odissea. Prima di partire aveva promesso a sua nonna analfabeta che avrebbe studiato e letto tanti libri. Promessa è, promessa mantenuta.

Paul si paragona a Ulisse e benedice tutta la sua storia. Benedice di essere nato in Africa, di aver attraversato il Mediterraneo e dormito per terra in stazione in Italia. Paul è folle.

Alla domanda sul perché benedice tutto questo risponde: “Ogni giorno una signora anziana veniva da noi ragazzi immigrati a portarci un panino al centro di accoglienza. Non parlava con noi, ci dava solo un panino e con una carezza sul volto ci salutava. Nessuno, mai, aveva fatto così con me. Senza aver trascorso notti stipato nella stiva di un barcone non avrei ricevuto i suoi panini e le sue carezze.”

Io non credo a questa risposta, è troppo impossibile che bastino dei panini e della carezza. Intanto Paul continua a ridere.

Da domani inizierò anch’io a prepare panini per cambiare tutto: genitori, amici, lavoro, naso, vita. Non cambierà niente e nessuno, i panini cambieranno tutto, parola di Paul.

Intanto stasera vado a letto con questo pensiero.

Walter Veltroni, il papà, i giovani e il nuovo romanzo “Ciao”-SIC 2016

“Ciao papà, non ti ho conosciuto o, per meglio dire, non mi ricordo di te. Avevo solo un anno quando te ne sei andato. Nel giro di qualche mese un brutto male ti ha portato via. Ora, però, sogno di scambiare qualche parola con te. Ciao papà.”

Basta questa semplicità per introdurre il nuovo romanzo di Walter Veltroni, “Ciao”. Perché non c’è nulla di più vero e spontaneo di un rapporto tra un figlio appena nato e un genitore. Perché non c’è nulla che accomuna tutta l’umanità più che la morte.

Proprio di fronte a questo mistero nasce la voglia del giovane Walter di conoscere il padre. A scuola, dopo le classiche domande “Come ti chiami?” e “Di che squadra sei?”, arrivava sempre la terza: “Che mestiere fa tuo padre?”. Le possibili risposte per il piccolo Walter erano due: una frottola o la verità, anche se questa significava aprire le porte della categoria della morte anche all’amichetto, come a dirgli: “Può accadere anche a te!”.

Gli anni per Walter intanto trascorrono, una mamma forte e determinata e, come tutte le donne, più brava dell’uomo ad affrontare il dolore per quel legame ancestrale e altruistico che la lega con la vita, sempre al suo fianco. Walter cresce, si sposa, impegni giornalistici e politici, ma il desiderio di conoscere il padre non tramonta mai. Quel padre che, anche andandosene presto, ha regalato al figlio un grado ulteriore di profondità e di intelligenza (da intus = dentro; legere = leggere; leggere dentro) nei confronti del prossimo. D’altronde quella ferita lasciata dalla sua prematura scomparsa in qualche modo andava colmata con un dono al figlio.

L’ex segretario del Partito Democratico ha due figlie e dopo la loro nascita aumenta esponenzialmente il numero di pensieri sul suo papà. “Come si fa il padre?” è la domanda che si porta dietro per anni perché la curiosità, nel come affrontare questioni di cui non ha mai avuto un esempio pratico, è immensa.

Così arriva il libro “Ciao”. Un dialogo immaginario con una figura essenziale che si configura attraverso uno scambio di idee, discussioni e una domanda spiazzante di cui ogni figlio ha bisogno di sentirne e conservare la risposta: “Papà, ma tu sei orgoglioso di me?”.

E così, a fine presentazione, con grande e umile disponibilità, Walter Veltroni si ferma per qualche domanda. Dirette, ma pregne di significato, le sue risposte.image1

Walter, hai parlato di quell’orizzonte nella mente che la mancanza di tuo padre ti ha donato. Praticamente come lo possiamo descrivere?

“E’ il non lasciarsi scorrere le cose addosso e il condividere la propria vita con gli altri. Dobbiamo ritornare ad innamorarci delle storie della vita degli altri. Non ascoltiamo più. Siamo una società piena di paure e necessitiamo di raccontare la nostra vita agli altri per riceverne conferma. In realtà il dono più bello e l’ascolto, poi perché ripetersi la propria storia che già si conosce quando può essere l’aneddoto della storia degli altri a sorprenderci? Comunque la fantasia resta sempre il migliore orizzonte.”

A un giovane di oggi, che consigli daresti per affrontare la vita?

“Dubbi, passioni e sogni sono le chiavi di tante scoperte. Però non esiste la vita facile, comoda, serena. Esiste la vita piena. Ecco, avere dubbi, passioni e sogni per una vita in pienezza.”

Il consiglio più prezioso lasciato alle tue figlie che hai il piacere di condividere con tutti i giovani figli?

“Non pensate solo a voi stessi, la vita diventa noiosa.”

Con una stretta di mano e un “Ciao” Walter Veltroni ci saluta. Nello stesso modo in cui saluta anche all’arrivederci quel papà che non ha mai conosciuto, ma di cui gli sono state testimoniate l’allegria, la serietà, la simpatia e quella luce negli occhi tipica di coloro a cui piace il futuro.

La luna e la commedia umana

“Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa?”

Con queste parole Fedor Dostoevskij dava inizio al suo sognante romanzo breve “Le notti Bianche” e, ancora a distanza di più di un secolo, lo scrittore russo descrive con toccante essenzialità queste sere di metà novembre in cui la Luna si avvicina alle nostre case come poche volte accade. Con la sua eleganza la Luna si affaccia sul nostro mondo scorgerndone i dettagli più nascosti mentre illumina le strade silenziose della nostra notte.

Colore vivace e presenza feconda sono solo due caratteristiche di questo piccolo satellite terrestre di regale umiltà: è sempre in cielo a donare bellezza, splendente, ma non richiede mai di essere osservato per continuare a riflettere nel buio un po’ di raggi solari. Perché la luna è così, silenziosa e innocua, ma allo stesso tempo parlante e toccante se ci lasciamo interrogare dalla sua bellezza. Contemplarla, in una di queste sere, potrebbe rilevarsi punto di partenza da cui estrarre un’essenza più profonda, autentica, che pervade e interroga la propria interiorità.

In questi giorni si accavallano anniversari ed eventi storici. Dal ricordo degli attentati di Parigi agli imprevisti risultati delle elezioni americane, fino alla tragica guerra siriana. Eppure la Luna si mostra nella sua più grande interezza, nel pieno della sua presenza vicino alla Terra. Il piccolo satellite ha scelto una data illogica per farsi ben vedere: nel ricordo degli attentati, nel mentre di una guerra, la Luna è qui. Ci osserva come una mamma che si prende cura del proprio bambino. Da sempre la Luna c’è, per lo meno da prima dell’evoluzione umana. Conosce tutto della nostra specie e di ogni singola persona che abbia calpestato il suolo terrestre. Sa di ogni azione buona o mala che avviene sulla Terra, ma non si è mai stancata di mostrarsi ogni giorno. In fondo la Bellezza è così, è oltre la scelta umana. Esiste a prescindere da che cosa succeda, non si esaurisce mai e a noi, essere pensanti, non smette mai di interrogare costringendoci a domandare a noi stessi come, di fronte ad essa, si possa essere collerici o capricciosi. La Bellezza non si esalta, ma affascina. Si mostra mettendo l’altro nella suprema condizione di fare del bene, riconducendo la persona alle radici della propria umanità, ovvero a quella sensazione di sentirsi bisognosi di un abbraccio, di un parola, o a quella travolgente voglia di correre a urlare “Ti voglio bene” a un amico. La Bellezza salva e non sbaglia mai il tempismo, anche quando sembra non avere senso il momento in cui essa si manifesta. E così è la Luna in queste ore, espressione puntuale della Bellezza.

La Bellezza, però, non agisce al posto dell’essere umano. Richiama, ma non si sostituisce. Non crea cose nuove, fa nuove tutte le cose. Redime una persona, la rinnova provocando commozione di fronte al mistero della propria esistenza, provoca una catarsi degna di una tragedia greca. Ci richiama alla grandezza dell’uomo che, invece, nel consumismo di oggi, è divenuta superbia. Perché sentirsi padroni di se stessi, forti di poter consumare i propri talenti nel momento scelto, anziché donarsi con i propri talenti senza la necessità di prevedere il proprio tornaconto, sembra essere il più alto scopo della quotidianità odierna. Tutto è acconsentito. Il mondo oggi tutto permette, niente perdona. Ecco il richiamo alle notti giovani di Dostoevskij: in un mondo che si esprime solo più la notte, lontano dal chiasso  in cui tutti parlano, ma nessuno ascolta, la Luna non permette tutto, ma interroga, richiama ai propri limiti e perdona tutto. La Luna ridona giovinezza per ricominciare.

Qui si compie il mistero della Luna a portata di mano della Terra. Tra tutto quanto accada o si ricordi sulla Terra in questi giorni, non si può dimenticare la conclusione dell’anno della misericordia. Un anno rivoluzionario di cui la Luna ne è portavoce.  Con cuore misero la palla gialla ci scruta, ci conosce per quella che è la nostra natura. Nonostante tutta la nostra attenzione sia rivolta alla prestazione, sia in campo lavorativo sia affettivo, la Luna ci riconduce al nocciolo della questione: “Tu chi sei?”.

Una domanda che salva, che perdona, che ci pone degli argini quando ci allontaniamo dal centro della nostra esistenza. La Bellezza, infatti, spoglia perché di fronte alle meraviglie della natura svanisce l’effetto del vestito all’ultima moda che si indossa. Si rimane nudi, poveri nel proprio animo. La Luna, proprio oggi, riflette autenticità nell’anima di ciascuno attraverso gli occhi di ognuno, parlando a tu per tu. Invita ad essere fragili, a scegliere come stare su questo pianeta. D’altronde i Greci da più di 2000 anni ce lo ricordano: la vita è un “dramma” che, letteralmente, significa “decidersi a fare”. Decidersi a quale dramma prendere parte tra la tragedia, priva di libertà sebbene permetta tutto, e la commedia, piena di libertà anche se con qualche regola da seguire, ma con il mistero del perdono (compimento di un dono gratuito) che rialza qualsiasi caduta.  In questo contesto la misericordia della Luna ha le idee molto chiare, infatti nel dono della sua povertà è nascosta una pienezza tangibile che se colta umilmente, nell’atto del meravigliarsi di fronte ad essa (come di fronte a qualsiasi manifestazione di Bellezza), chiama a compromettersi. Qualcuno, nella storia, ha scelto di vivere il dramma della vita chiamandola commedia e chi, tra questi, sapeva scrivere e si divertiva con i versi, l’ha definita divina.

Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!