Il dono di essere umani

Giampy ha 47 anni, lavora presso gli uffici amministrativi di un’azienda ospedaliera ed è molto goloso, ma è a dieta perché la sua pancia sta iniziando a prendere una forma sempre più tondeggiante. Abita in una villetta a schiera alle porte di Cuneo e, dopo esserci incontrati un paio di volte, abbiamo deciso di dare vita a questa rubrica.

Ogni merenda trascorsa insieme abbiamo bevuto un caffè e, mentre Giampy si tratteneva dall’avventare qualche biscotto che era in tavola, indispettito dal mio abbuffarmi, abbiamo riso e scherzato, prendendoci più volte in giro quasi a voler smascherare i dettagli più imbarazzanti dell’uno e dell’altro.

Ogni volta mi sorprendevo di più nel vedere il suo volto stropicciarsi sotto gli occhi per le contagiose risate: come può un uomo che convive con un ladro essere così felice? Ciò che mi lasciava ancora più scosso era l’identità del ladro. Questo “bastardo” che ha rubato a Giampy il suo essere sano si chiama Grave Tetrapresi Spastica e si impadronì di lui quando aveva appena 6 mesi; ormai il fisico di Giampy è compromesso e per muoversi ha bisogno di una sedia a rotelle e di amici che la spingano. Eppure, il suo umorismo sottile e la sua capacità di affrontare con leggerezza (che non è menefreghismo) questa non desiderata convivenza mi hanno affascinato perchè in fondo desidero anch’io essere felice e avere la capacità di ridere di me stesso.

Come può un uomo impossibilitato a camminare guardare con gioia e spensieratezza alla propria vita mentre io che sono sano, con una famiglia unita alle spalle e con la possibilità di studiare all’università, ho gli occhi spenti e mogi o persi nel nulla?

Ogni giorno si sentono diverse voci che invocano a una vita piena, semplice e di immediata realizzazione: dalla pubblicità in televisione alle feste notturne in discoteca, tutto sembra parlare di godimento e successo. Sono voci continue, seducenti, che diventano voci nella testa e voci contro il tempo. Sono voci di grande distribuzione, indirizzate a ciascuno, ma sono voci urlate senza nomi.
Tutte queste voci, però, non bastano a se stesse, non durano a lungo e condannano a cercare subito un’altra voce per sopperire al vuoto che lasciano. Non è sufficiente un nuovo cellulare per soddisfare il desiderio di essere accolti, non è la soluzione una serata di sbronza facile per sentirsi più sicuri di sè.
Nel mondo dell’ipermercato, dove tutto si compra e si consuma, manca la tua voce canterebbe Zucchero. La tua voce che aiuta a convivere con le difficoltà quotidiane e che fa gioire per quello che si ha, senza bisogno di riempire vuoti su vuoti con le soluzioni più disparate tese a un continuo sconforto.

Chissà quante voci nella propria vita Giampy ha ascoltato per trovare un senso alla sua paralisi. Chissà quante volte Giampy si è domandato perché quel ladro abbia scelto proprio lui, perché persone che hanno 47 anni possono avere una famiglia e lui non può neanche concedersi una passeggiata in un prato.
Dare una risposta a queste domande è impossibile e non esiste una voce facile che suggerisca una soluzione.
Giampy, nel suo passato, ha seguito molte voci che spostavano l’attenzione su qualcos’altro per qualche momento, ma come queste passavano la paralisi era, e tutt’ora è, ancora lì.
Ci sono certe domande le cui risposte sono inottenibili come esseri umani. E la difficoltà più grande di un essere umano è la convivenza con certe questioni in sospeso che si portano nel cuore.
Un professore di filosofia di Lovagno, all’inizio di ogni corso universitario che teneva, scriveva alla lavagna: “L’uomo è un animale inquieto, se non è inquieto è solo un animale”. Coesistere con alcuni punti interrogativi è natura umana, è un dono per l’essere umano tanto da permettergli di essere più di un animale, ovvero di abitare consapevolmente il proprio tempo e la propria storia a partire dalla propria natura essenziale.

Giampy di fronte alla propria malattia ha passato dei momenti di grande abbattimento e di rabbia estrema. Ha avuto grandi difficoltà ad accettarsi, finchè qualcuno non gli ha sussurrato nell’orecchio “Non è colpa tua e, nonostante tutto, vai bene così”.
Quel “vai bene così” ha salvato Giampy, che è riuscito a trovare una soluzione a tutti i suoi interrogativi in un semplice atteggiamento: stare. Stare chiamando per nome la propria disabilità come una mamma che non smette mai di chiamare per nome il proprio figlio. Stare ammettendo i propri problemi fisici e non cercando di scappare dal proprio corpo rifiutandolo, come una mamma che ha una voce più sottile e meno rumorosa di tante altre, ma che non ha paura di dire sempre la verità anche quando può essere difficile.

Il coraggio di stare nella propria umanità, di dire “Eccomi” ad ogni nuovo giorno, nonostante non potesse scendere da solo dal letto, è stata per Giampy un’ardua conquista, fatta di pianti e di momenti di abbattimento. La forza di non porre la propria paralisi al centro di ogni suo pensiero e azione, ma di rilegarla a una compagna a cui non spetta il ruolo da protagonista, è arrivata anche grazie agli amici, ai familiari e alle persone incontrate durante le strade della vita. D’altronde, per natura l’uomo è un animale socievole e, da solo, in certi momenti, non è per lui facile stare nelle proprie domande. Anzi, è quasi impossibile perchè l’essere umano non è sufficiente a se stesso: ha bisogno di essere amato. Ha bisogno di sapere che vale, che è riconosciuto per i suoi talenti e che nonostante i suoi difetti, fisici o meno, è degno di sentirsi voluto bene.

Uscendo dalla stanza di Giampy, si scorge una piccola stampa che riporta una frase: “Solo i malati guariscono” che è il titolo di un libro di Luigi Maria Epicoco.
Stare in se stessi, nei propri limiti e nelle proprie complessità quotidiane è più che scomodo. Spesso non si riesce e si cerca rifugio altrove, ma l’essere umano non si sente mai a casa fin quando non si riconcilia con il proprio umano, ammettendo la propria umanità con il coraggio di essere umano: non può esserci guarigione per chi non si considera malato perché troppo convinto a convincersi o a convincere di essere perfetto o giusto.

Giampy ormai è guarito, non fisicamente, ma giorno dopo giorno trova il coraggio di essere umano, di essere fragile e vulnerabile, di amare e lasciarsi amare nonostante la Grave Tetrapresi Spastica e grazie a questa sua grande grazia è rinato perché, come scrive ancora Luigi Maria Epicocco, “se non accetti la fragilità del tuo essere vulnerabile non potrai mai sperimentare nemmeno la guarigione. Per questo solo i malati guariscono”.

Open Garden: un giardino incantato

Peru peru monta su, cala cala mai pi giu.”

Spiga verde sali su, senza scendere più giù”.

Questa era una filastrocca che veniva ripetuta più volte nei pomeriggi tra le spighe dei campi di campagna. Perché per passare lunghe ore tra i campi, nel torrido caldo estivo, senza cellulare o connessione internet, i bambini dovevano sognare e abbandonarsi alla creatività per trasformare la campagna in un parco giochi. Non c’erano Facebook o pomeriggi interi al centro commerciale. C’era l’arte di far morire un seme piantato nella terra, di aspettare il freddo dell’inverno e la soave brezza primaverile per veder nascere la pianta da cui tutto poi aveva inizio.

Una filosofia, quella agricola, che sembra sempre più lontana e nascosta. Eppure, c’è chi vuole riscoprirla e donarla a tutti coloro che sognano di fare la spesa in un mercato contadino di prodotti locali, di cuocere la carne alla brace su un braciere condiviso insieme ad altre persone che hanno scelto anche loro di non chiudersi in un centro commerciale. Chissà che con una buona birre non diventino degli amici. D’altronde, la filosofia agricola nasconde anche questo.

La terra da coltivare è sempre una scoperta, perché ogni anno tutto può cambiare. Più pioggia o meno pioggia, più sole o meno sole, più fertile o meno fertile e tutto il raccolto può subirne variazioni. Dietro tutto questo, però, la terra porta con sé altri valori che prescindono il tempo e ci guidano nella nostra quotidianità sempre più frenetica, egocentrica e superba.

L’arte della attesa, perché in natura non è tutto subito. Per giungere alla bellezza, quella vera, bisogna faticare, lavorare, aspettare e sperare. In natura c’è un tempo per tutto e le coltivazioni richiedono fatica come zappare sotto il sole cocente. Non è tutto subito, altrimenti sarebbe acerbo. E non è tutto al tempo nostro: un frutto se non è colto quando è maturo, marcisce. Ecco, l’arte dell’attesa è l’arte di arrivare pronti agli appuntamenti importanti. E’ la fatica di prepararsi; è la gioia di tenere nel palmo di una mano il frutto del proprio lavoro pronto per essere gustato.

Poi c’è’arte dell’originalità. Dal latino origo che significa origine. Come a dire che è davvero originale solo chi ha radici profonde, chi appartiene a qualcuno. E’ l’arte di riconoscersi responsabili della propria terra, del proprio territorio, perché è da lì che si proviene. Forse è un’arte sempre più in disuso. Perché essere originali non è analogo ad  avere successo, ma è sinonimo di preziosità

Infine c’è l’arte dell’umiltà. Umiltà deriva dal latino humus, terra. Umile è colui che arriva dal basso, dalla terra appunto. Umiltà è anche un senso di piccolezza nei confronti di qualcosa di più grande. Umiltà è quel sostantivo che racchiude quella filosofia agricola che tanto ci manca e a ricordarmela è stato quel gelataio di Poirino che serve il gelato all’Open Graden Baladin: “Il latte delle mie mucche, la frutta dei miei frutteti… Io faccio di tutto perché vengano fuori nel miglior modo possibile, ma non dipende tutto da me. Tutto è dono, della mucca o dell’albero. Io ne colgo solo i frutti”. E il frutto di tutti questi frutti è un gelato eccezionale!

Tutti questi valori sono nascosti tra le panche, le braci e i profumi di un giardino, quasi incantato. L’Open Garden è la semplicità che si realizza. Non è altro che un giardino, davvero. Ma in un’epoca come la nostra, dire di andare in giardino a fare la spesa, la carne alla brace e a giocare a carte fa specie. A fare effetto qui, però, non è solo questo: sono anche le storie di tutti quei contadini che portano i prodotti della propria terra, le storie di ogni singola birra che si può sorseggiare e la storia che ognuno può riscoprire in questa filosofia agricola.

Le storie, al nostro tempo, quasi non si recitano più. C’è stanchezza, c’è poco tempo e c’è l’ansia di voler tutto subito. Basti pensare alla scuola dove non si raccontano più storie, dove non si raccontano più i motivi che hanno spinto a una scoperta o allo scrivere una poesia, ma si completa solo il programma.

C’è una grande ricchezza nelle storie. E la storia più bella è quella che ognuno di noi è venuto a raccontare. Un proverbio ebraico recita: “Dio ha creato l’uomo per sentirgli raccontare storie”. E le storie belle, quelle originali, si raccontano con umiltà e si ascoltano in un’attesa silenziosa.

La differenza tra una storia brutta e una storia bella è la reazione che avviene dopo che la si è ascoltata. La prima è eccitante, ma dura poco. La seconda porta frutti col tempo e dona gioia duratura. Insomma, la prima è di successo immediato mentre la seconda passa inosservata, ma la prima svanisce mentre la seconda cresce.

In altre parole: la prima è un centro commerciale, la seconda è un giardino in mezzo alla natura.

Quattro chiacchiere da bar

Ci sono alcune parole che ogni giorno usiamo ripetutamente, ma siamo sicuri di conoscerne il significato vero e proprio? Oppure non ci siamo mai posti il problema?

Non sono sicuramente io la persona adatta a parlare di linguistica, semantica o etimologia. D’altronde non vogliatemene, studio economia. Eppure ho incontrato alcuni uomini che con il loro modo di stare nella vita mi hanno sorpreso. I loro occhi parlavano e, molto spesso, anche le loro poche parole mai scontate sapevano sussurrare a una verità che scaldava l’anima.

Dietro tutto questo portavano dei segreti, dei significati più profondi associati a termini spesso inflazionati, ma forse solo da gustare con un attimo di calma in più. Non da perderci tutto il giorno sopra, semplicemente da non dare più per scontati.

Le cinque parole che mi hanno toccato di più:

ACCETTARE: ricevere qualcosa con pieno consenso. Ricevere con gradimento.

Ecco, “con pieno consenso” proprio non andava giù nel mio modo di pensare. Ho sempre creduto che accettare significasse rassegnarsi. Ovvero abbandonarsi alla propria impotenza e crogiolarsi nel proprio “essere sfigato”, quel “mai una gioia” che va tanto di moda.

Eppure, scrutando a fondo il verbo accettare, c’è ben altro dietro questa finta apparenza che tanto soddisfa il piangersi addosso. Allora accettare che qualcosa vada storto, che non vada secondo i propri piani, come può risultare gradevole?

Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a volte non è piacevole l’atto di accettare, ma il vivere dopo aver accettato è una vera e propria sensazione di leggerezza, priva di rancore, colma di speranza.

INUTILE: che non dà alcun vantaggio.

Inutile è la negazione di utile, quindi ciò che è inutile non genera utile. Non provoca alcun ritorno, ma allora chi me lo fa fare?

Anche a questo non so trovare risposta, però mi piace pensare che inutile vada a braccetto con accettare. In effetti la natura stessa ci chiama all’inutilità: una mela matura che cade a terra per poi marcire in un prato di campagna a chi è utile? Nè al contadino che non la può vendere né al bambino che si diverte a rubare il frutto insieme agli amichetti nel campo del vicino; ormai è marcia, dopo tutta l’adrenalina e la paura passate per non essere scoperti durante il furto neanche può essere gustata. Nonostante questo, ogni anno quell’albero ci dona il suo frutto senza che nessuno glielo chieda e senza averne ritorno: una mela inutile che è dono gratuito o, per meglio dire, che è compimento necessario per quel melo. Lo possiamo immaginare un melo che non produce mele?

E così, allo stesso modo, durante le nostre giornate, quante cose accadono e non sappiamo da dove vengano? Quante cose dobbiamo fare e non generano utile ma chiedono la capacità di passare un inverno nel nostro cuore per poi fiorire?

Così è l’inutile: gratuito, non chiede nulla in cambio. A volte incompreso, ma necessario per poter far fiorire i talenti di ognuno.

Chissà che questo inutile non sia davvero da accettare

CATTIVO: di persona, insensibile o maldisposta verso sofferenze o fastidi altrui, capace anzi di rallegrarsene o addirittura di provocarli.

Il temine cattivo etimologicamente deriva dal latino captivus, ovvero nato in cattività: colui che non ha genitore, non sa di chi essere figlio. Può apparire un po’ strana la cosa, ma quante volte anche noi che non ci riteniamo cattivi siamo scontrosi in famiglia perché abbiamo qualcosa che ci turba? Oppure assumiamo un atteggiamento sgarbato nei confronti di una persona al solo fine di farla stare male quasi come fosse una vendetta? Per esempio dietro un commento ambiguo, ma tagliente, detto in compagnia?

Essere cattivi richiama l’essere figlio: chi mi ha generato? Perché sono stato generato?

Okay, certamente non so rispondere, però mi piace ricordare Francesco d’Assisi quando, di fronte a persone che avevano commesso gravi sbagli, ripeteva continuamente “Non è cattivo. E che non è stato amato”.

Accettare l’inutilità delle persone cattive, provando a dedicarci del tempo, potrebbe essere quasi interessante.

LIMITE: linea di demarcazione confine.

Una parola che sembra assumere un significato geografico, ma spesso dimenticata in questa accezione e molto più umanizzata. Chi non ha dei limiti?

“Sono basso, timido e appena lasciato dalla ragazza, riesci a capire quanti limiti ho. Con tutti questi limiti sono una persona spacciata” ripetevo in tempi non sospetti a tanti amici. In fondo, chi non si sente limitato e osa mostrare i propri limiti? Le proprie fragilità?

Anch’io pensavo questo (e a volte i pensieri ritornano in modo dirompente), fino a quando non mi è stato detto che il limite è quel no che ti regala la libertà. Una persona senza limiti altrimenti sarebbe un robot, un essere programmato e non un essere  provocato come in realtà è.

La bellezza del limite è la sua capacità di rendere umana ogni cosa. E’ quel confine tra l’uomo e il divino che tanto spaventa quanto ha il dono di chiamare alla vita piena, consapevole di questa distinzione.

Una persona che si sente dio di se stesso è destinata a fallire… e buon per lei!

Conoscersi limitati chiama ad apprezzare la realtà per quella che è e dona la bellezza dell’imprevisto: tutto fosse terribilmente perfetto sarebbe prevedibile in ogni suo momento, ascrivibile in leggi e per nulla creativo. L’uomo non risponde solo a qualcosa di insito in lui, ma è imprevisto. Il limite provoca, non decide al nostro posto. E’ il contorno del disegno che ognuno di noi è. E’ la bellezza di non riconoscersi vaghi o copia dell’altro, ma essere unico e irripetibile.

E se non mi credete o non vi piace l’idea di accettare i propri limiti che possono sembrare inutili e ci salvano dall’essere cattivi, provate a leggere “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia… Buona lettura!

SALUTE: condizione di benessere fisico e psichico dovuta a uno stato di perfetta funzionalità dell’organismo.

“Se hai la salute hai tutto!” Quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase? In effetti va di pari passo con: “L’importante è la salute!”.

L’altro giorno ho avuto il dono di incontrare una persona malata ma felice e queste due frasi mi sono parse un po’ piccole di fronte alla grandezza di un ragazzo malato di un male terminale con la gioia negli occhi.

Assolutamente non voglio dire che la salute non sia importante, anzi, è fondamentale e ringrazio ogni giorno di poter essere sano. Eppure credo che la bellezza di quei due detti, come mi è stato suggerito, sia nell’etimologia della parola salute.

In latino salus significa salvezza.

“Se hai la salvezza hai tutto!” e “L’importante è la salvezza!” non suonano meglio? A mio parere sì. Perché essere salvati significa vivere in pienezza, con un animo colmo di gioia anche nelle difficoltà.

“AAA fonte di salvezza cercasi!” è il primo pensiero che mi ha suscitato questa riflessione. D’altronde ci sono persone che non hanno nulla, sono povere e forse hanno problemi fisici, ma in fondo sono piene di vita (https://www.youtube.com/watch?v=jsZxH49R9ns) in tutte le loro avversità. Non tutti caratterialmente siamo così, ma tutti possiamo accettare il nostro limite di non esserlo e, anziché diventare cattivi nelle difficoltà, trovare salute (salvezza) nella loro inutile testimonianza.

Magari possono sembrare solo quattro chiacchiere da bar queste parole. Chissà che anche lì, però, non ci sia tanta bellezza da scoprire.

Un prete, un gruppo di universitari e delle sedie a cerchio

Parla con la sua voce squillante mentre, con lo sguardo a volte timido, incrocia la gesticolante mano destra. Poco per volta prende coraggio e inizia a guardare negli occhi i giovani che ha di fronte, chiamandoli ad essere presenti per davvero. D’altronde il tema dell’incontro è “la concretezza”.

Riccardo, giovane curato, ama incontrare i giovani e raccontare attraverso un alternarsi di musica e parole la propria esperienza. Perché, in fondo, essere concreti non è produrre, è stare nella vita.

Vicino a lui la solita cassa da cui escono pezzi musicali che spezzano il discorso.

Ad un tratto Daniele Silvestri canta, in Il Viaggio (pochi grammi di coraggio), che “fondamentalmente io forse non ho mai aspettato niente”. E ancora “lo sguardo di uno che era di passaggio”. Chissà che non fossero proprio questi i pensieri di Zaccheo quando salì sul sicomoro (LC 19,1-10), perso nella praticità di riscuotere le tasse, lontano dalla concretezza della vita terrena fatta di sguardi, abbracci, gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso.

Si può immaginare un mago della finanza che tra un titolo che sale e un cambio di valuta sappia fermarsi, aspettare e lasciarsi guardare?

Concretezza non è solo dare, è anche ricevere. E’ ammettere la propria finitezza, il bisogno di gesti di amore altrui, di regali, di parole, di rimproveri e incoraggiamenti. Essere umani è anche questo, di sicuro non è essere dei robot invincibili.

Etty Hillesum, nel suo Diario, ringrazia per i giorni di stanchezza e inadeguatezza perché erano momenti di riposo per l’anima e di rinascita interiore e, se a scriverlo è una donna che ha vissuto la rappresaglia nazista e il campo di concentramento senza mai perdere la forza e la fiducia nella vita, qualcosa di vero e profondo sicuramente è nascosto in quelle righe.

Tra questi discorsi un po’ troppo elevati per la quotidianità di uno studente universitario, Riccardo inizia a parlare della sua mattinata, fatta di cambiamenti: invita a immaginare quella voglia di ribaltare tutto, di creare scompiglio per poi capovolgere il senso delle cose. Poi stimola a pensare alla camera da letto di un giovane ragazzo con libri impilati ovunque, fogli volanti e il letto disordinato. Infine invita a riflettere sulla ricerca di essenziale che invade ogni persona: poche cose, poche ansie, leggerezza, quel lui o quella lei.

Riccardo ha trascorso la mattinata a riordinare camera, spostando i mobili da un posto all’altro per esprimere la propria essenzialità interiore, perché ogni gesto compiuto è l’arte di concretizzare i pensieri del proprio cuore.

Mentre parla, dalla finestra di una sala del quinto piano di un palazzo nel centro di Torino, veleggia una grande insegna di un mobilificio che pubblicizza una camera da letto spoglia, con un armadio pensato su misura, un letto incastrato e una scrivania ad angolo con luce incorporata nel muro. Insomma, una camera da letto definita essenziale, con la scritta “Dormendo così i pensieri tornano in ordine”.

Da un lato un folle curato che con il suo ordine interiore modella i luoghi esterni, dall’altra una società che ha bisogno di luoghi ordinati per modellare se stessa. Proprio come Zaccheo: prima un po’ società che necessitava che i conti quadrassero per trovare pace in se stesso, poi esempio per il giovane sacerdote che, trovato un senso, cerca di concretizzarlo nel vivere quotidiano.

In questa vita che, come canta Fiorella Mannoia, Per quanto sembri incoerente e testarda se cadi ti aspetta, siano benedetti i limiti e i fallimenti che fermano e che tornano a far “apprezzare quello che non ho saputo scegliere”, continua Riccardo. A dirla tutta, però, a scrivere questo è Marco Mengoni in, appunto, “L’essenziale”. E la concretezza è essenziale.

Concretezza è lo sguardo di quell’uomo che si ferma e si autoinvita a casa di Zaccheo senza troppi discorsi esistenziali. Perché tra essere o dover essere, quel “dubbio amletico contemporaneo come l’uomo del neolitico” (F. Gabbani, Occidentali’s Karma), non c’è nulla di più concreto dell’amore: l’amore fa gesti, fa capriole, inventa favole e canzoni, gioca a nascondino e spettina i capelli, illumina gli occhi e fa tremare il cuore.

Nella sua concretezza, come conclude Riccardo con le parole di Mengoni, “l’amore non segue le logiche”, semplicemente passa, “ti toglie il respiro e la sete”.

E per l’amore che passa non si è mai in ritardo, ma sempre puntuali al minuto scoccato.

Una rivoluzione imprenditoriale

Si parla sempre più di Start-up e veleggia incontrastato il desiderio di rinnovare ogni industria a livello tecnologico. D’altronde, lo sviluppo di un’azienda ha come punti di partenza l’innovazione e la tecnologia. Questi sono elementi  essenziali oggigiorno per essere competitivi nella nostra economia di mercato. Eppure, è di fondamentale importanza non dimenticare chi è l’agente dell’innovazione e della tecnologia: l’uomo.
Ogni essere umano ha un nome e un volto, è unico e innovazione e tecnologia sono strumenti a sua disposizione, non viceversa. Parlare di start-up non ricordandosi che anche esse sono un’espressione dell’essere umano sarebbe un passo indietro troglodita.
E’ basilare che ogni “start-upper” dia spazio nella sua formazione a testimonianze che sappiano edificarlo sul cammino dell’imprenditoria. Ad esempio, Brunello Cucinelli, imprenditore tessile, lancia una novità che mira a migliorare la vita dei suoi dipendenti: il bonus cultura. Le spese per libri, cinema, teatro e attività culturali saranno rimborsate dall’azienda. Il fondo prevede 500 euro per i single e 1.000 euro per chi ha famiglia e per poter ricevere i rimborsi, basterà presentare lo scontrino e le relative note spese.
Riscoprire delle guide formative, che sappiano provocare a un nuovo modo di fare impresa non guardando solo al benefit dell’impresa ma anche al valore sociale che questa possa creare, è sinonimo di maturità e di gratitudine nei confronti di chi si è battuto in precedenza per rendere la nostra quotidianità più umana.
Creare un’azienda, mettere in pratica un progetto che possa coinvolgere più persone, giocandosi il rischio di fallire è un’impresa epica e degna di ogni sorta di stima purché non abbia un solo scopo egoistico. Se la visione aziendale è più ampia e mira anche a un fine sociale allora sì che si sta facendo innovazione, o sarebbe meglio dire, una vera e propria rivoluzione.

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