Amore e orientamento sessuale

«E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell’uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un’altra che le è complementare, perché quell’unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. È per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare».
(Platone, Simposio)

L’amore è un sentimento dalle innumerevoli sfumature: in un mondo che cerca di dare risposta e lasciare spazio a quelle manifestazioni dell’amore che, per molto tempo, non hanno avuto la possibilità di esprimersi (come l’amore omosessuale), si stanno cercando giustificazioni nuove a “problemi” che in realtà non avrebbero mai dovuto essere tali.
Platone nel Simposio, trattando il tema della natura di Eros, porta alla luce una considerazione dell’amore omosessuale che mostra come nella Grecia antica questo fosse trattato e discusso senza il timore di cadere nell’ambito del “moralmente scorretto”.

Nel racconto del mito dell’androgino egli narra di un tempo in cui esistevano tre generi umani, i quali erano tutti compositi: il maschile (composto di due maschi), il femminile (composto di due femmine) e l’androgino (composto di un maschio e di una femmina). Tali esseri erano rotondi e con due facce, erano forti, veloci e molto intelligenti e, soprattutto, erano eterni. Questa loro forza, unita all’ambizione che li caratterizzava, li rese però una minaccia per l’ordine delle cose e per gli dei dell’Olimpo, i quali avrebbero voluto eliminarli come avevano fatto con i loro nemici precedenti. Zeus si rese però conto del fatto che eliminare gli uomini sarebbe stata una rovina per gli dei, i quali esistevano soltanto in virtù della devozione che gli esseri umani dimostravano nei loro confronti e dei sacrifici che praticano per servirli, e di conseguenza decise di non ucciderli, ma con una saetta li divise in due, indebolendoli infinitamente.  Da quel momento, infatti, gli uomini cominciarono a vagare in cerca della loro metà perduta, senza la quale si ritrovarono deboli e incompleti. Una volta ritrovata la metà smarrita gli uomini però morivano in un continuo abbracciarsi e stringersi che non sarebbe mai riuscito ad emulare la loro unione precedente, caratterizzata dall’eternità. Per questo Zeus, impietosito da tanta sofferenza, concesse agli uomini la possibilità di riprodursi, affinché l’eternità individuale perduta potesse essere loro restituita a livello non più del singolo, ma almeno della specie.

Ma l’amore non è mera riproduzione, perché solo dall’unione delle due parti dell’androgino ricongiunte può nascere una nuova vita, infatti per Platone l’amore contempla anche tutte quelle unioni che non sono finalizzate alla creazione di una prole: l’amore è un sentimento di mancanza e di ricerca continua della propria metà mancante che si genera anche tra persone dello stesso sesso: in particolare il filosofo esalta l’unione tra maschio e maschio (rispecchiando il tipico maschilismo che caratterizza la Grecia antica), in quanto considerata unione generatrice di arte, andando al di là del piacere del corpo per raggiungere un piacere dell’anima.

L’amore nasce da una mancanza, dall’incompletezza che caratterizza gli uomini, ed è quindi un sentimento peculiare solo di essi, e non degli dei che, in quanto perfetti, non mancano di nulla. Eros stesso non è un dio, ma un demone nato durante il banchetto per la nascita di Afrodite dall’amore tra Poros (espediente) e Penia (povertà): proprio dalla natura della madre Eros erediterà un’eterna incompletezza, che lo spingerà alla continua ricerca del bello al di fuori di sé.

Amare significa dunque semplicemente essere umani, essere mancanti di un qualcosa che non possiamo riscontrare in noi stessi, ma solo in qualcuno a noi predestinato e compatibile: non importa il sesso di questo qualcuno, quanto la sensazione di completezza che genera in ciascuno. L’amore non si esaurisce nell’orientamento sessuale, ma è un sentimento che va ben oltre, un senso di vuoto mai completamente riempito, e qui sta la natura dell’amore, che è in parte una condanna e in parte il dono più grande che potesse esserci fatto.  

Viviamo in un secolo in cui la tecnologia e la ricerca scientifica fanno ogni giorno passi da gigante, eppure cerchiamo, con scarso successo, risposte ad interrogativi che tali non sono, ma rappresentano situazioni perfettamente naturali e non problematiche che già gli antichi avevano inteso come tali. In un mondo di esseri incompleti quali siamo, di mele a metà che vivono alla ricerca della propria parte mancante, non possiamo fare altro che celebrare l’amore in tutte le sue forme in quanto sentimento che completa l’uomo in senso letterale, e gli permette di essere la versione migliore di sé.

Denise Arneodo

Birra

Penso stia tutto nel sapore della birra. Forse l’ho tirata fuori troppo presto dal frigo ormai vuoto e ammaccato, doveva rimanerci ancora un po’. O magari è scaduta.

Perché, oltre al tempo, anche le birre scadono, vero?
È una domanda che mi faccio spesso, tutte le volte che butto giù un sorso di questa birra che sa di altro, di lontano, mi sembra sia stata stillata da bersi almeno cinquant’anni fa, o magari anche solo ieri, ma decisamente questa birra è già morta nel momento in cui l’assaggio.
O forse sono io ad essere sbagliato per questa birra: forse sono io a farla diventare così amara, così forte. Forse sono io ad essere in un tempo lontano, quando magari ancora la birra in lattina non esisteva e non esisteva nemmeno un apribottiglie, quando la birra non la pagavi in offerta al supermercato e, in fila per la cassa, la tenevi sottobraccio come fosse un figlio, e ipocrita t’ostentavi a criticare la falsità dietro gli scaffali.
Bel panorama, però. Viola tenue al limite dell’orizzonte e una bottiglia di vetro.
Eppure nulla. Assolutamente nulla.

Sono scaduto tempo fa, ma nessuno si è mai preoccupato di buttarmi nell’indifferenziata. Alla fine è questo che siamo un po’ tutti, no? Indifferenti non cestinati, ed è questo il ruolo che ci divertiamo ad impersonare ogni giorno. Se qualcuno mi ci avesse buttato, nell’indifferenziata, almeno saprei di non star inquinando.
Ma i moralismi non sono mai stati fatti per me, e quindi la sapete una cosa? È tutto intorno che m’inquina, non io. È questa birra, che forse non è scaduta, ma è persino troppo buona per essere bevuta come se nulla fosse, come se il resto, in realtà, non stesse andando a catafascio, come se la corruzione negli occhi delle persone fosse solamente un momento d’ebrezza, e non la consapevolezza che, di guardare, non siamo più capaci.
Sei scaduto quando ti accorgi di non riuscire nemmeno a finirla, una birra. Quando nemmeno una gradazione ti alleggerisce, quando il retrogusto amaro non sazia la sete di libertà che hai. Capisci di essere scaduto quando guardi un tramonto violaceo che bacia i contorni della terra e non riesci a fare un po’ di cliché, ad immaginarti tutti i baci mai dati e che avresti potuto dare nelle sfumature del cielo, quando un bacio nemmeno sai cosa sia. Capisci di essere scaduto quando non hai nemmeno più voglia di aggiustare il frigo, di rimettere la batteria e andare avanti, andare, andare, per inerzia, fino a…
Capisci di essere scaduto quando senti le labbra contrarsi, e, passando una svelta mano sulle guance, percepisci solo un lieve, sconfitto, ma indifferente sorriso, rivolto a quella vista, a quel mondo che tanto urla e canta, ispirato dalla bellezza e dalla superbia, e che pretende di essere consumato con gli occhi, di essere invidiato, addirittura odiato. Ma, in quello stesso istante, rientro, poggio sul tavolo la bottiglia di vetro, e semplicemente la lascio lì, a vivere.
Perché, alla fine, sta tutto nel sapore della birra.

Cecilia Capello

Seconda chance

Ci impegniamo a fondo e ci va male, ci rimproveriamo e rimaniamo arrabbiati con il mondo per aver perso l’opportunità. Crediamo di essere stati originali e provocatori ma non veniamo apprezzati per niente, anzi una valanga di critiche ci travolge. Siamo completamente persi, nelle mani del destino, abbandonati a noi stessi… però forse c’è una remota possibilità di rialzarsi.

Albert Einstein diceva che nel mezzo delle difficoltà nascono le opportunità. Forse aveva ragione, proprio quando la prima porta ci è stata sbattuta in faccia magari, subito dopo, altre porte si aprono regalandoci il doppio di prima. Non si può mai smettere di credere nelle seconde opportunità. La vita è lunga, piena di momenti negativi come di positivi, non si può mollare in nessun momento.

Ognuno ci mette il suo tempo a riprendersi da un fallimento, grande o piccolo che sia, ma tutti abbiamo l’opportunità di guarire e rialzarci arricchiti. Fare errori è normale, fa parte del gioco del buttarsi, dell’avere coraggio e voglia di fare. Per questo credo nelle seconde chance, tutti ne hanno bisogno, almeno di una nella vita. Più si rischia più si fanno errori e più possiamo cambiare la nostra vita.

La paura più grande è quella di interrompere la comodità a cui siamo abituati perché se usciamo dal nostro guscio è tutto una salita. Però il vivere la vita a pieno sta proprio nell’esplorare i nostri limiti, accettare una seconda opportunità per poi magari fallire di nuovo ma capire la giusta strada da prendere.

Sentirsi smarriti credo che sia una delle sensazioni più frustranti della vita, quando non sai dove andare o non hai un obbiettivo ti senti nullo. Se non hai nessuno che crede in te e che ti sprona è difficile andare avanti e non mollare tutto. Ma sapete una cosa? Tutti i più grandi campioni, innovatori e celebrità hanno avuto dei fallimenti prima di arrivare al successo. Perché se non cadi, non impari e per brutto che sia quel momento in cui tutto va male bisogna trovare qualcosa o qualcuno a cui ispirarsi. Molte volte condividere i fallimenti personali aiuta a superarli o può aiutare gli altri a uscirne.

Ho letto un romanzo molto incoraggiante e che fa riflettere: “Le coordinate della felicità. Di sogni, viaggi e pura vita.” di Gianluca Giotto. Vorrei quindi condividere una frase del libro che mi ha colpito e che credo possa riassumere tutto:

《Fallire significa provarci, e provarci significa fallire in ogni caso. Non importa il risultato finale, l’unica cosa che conta è la consapevolezza di averci provato. Perché nel cuore di una persona che ha vissuto a pieno non c’è spazio per i sé o per i ma, non c’è spazio per i rimpianti né i rimorsi》

Articolo di Alice Taricco

Cara vita,

Ho uno sguardo in sospeso con te. Ho gli occhi che mi bruciano, che urlano, che vogliono scorgerti un’ultima volta. Ti cercano, disperatamente, vogliono sentire ancora una volta il profumo della prima volta, della prima estate, della prima luna, del primo passo mosso sulla sabbia umida quando tutto intorno era inverno. Ho uno sguardo in sospeso con te, anche se non so da che parte iniziare a guardare. Tutto pare così latente, così nebbioso, come se solamente la punta delle mie dita sia materiale o forse nemmeno quella.

Come devo usare questi occhi? Devo veramente credere a tutto ciò che mi avvolge o non è altro che il riflesso della mia anima troppo sognatrice? O sogni, o aspirazioni, è così che m’illudete del mondo esterno?

Quel gusto amaro in bocca la mattina appena sveglia, ecco ciò che rimane del nostro mondo vero, di quello in cui ci disegniamo le nostre storie, dipingiamo i nostri quadri, dove un cuore lacerato può solo sanguinare acqua e non dolore. Quel gusto amaro, quel fastidio sulle labbra lavato via con l’inerzia giornaliera è proprio quello che pretende un ultimo sguardo, un’ultima parola con te.

Cara vita, che tanto buona sei stata con me, che mi hai dato occhi blu che trovano casa nel mare al tramonto, che mi hai dato lunghi capelli castani che hanno preferito rimanere corti, che mi hai dato un’anima sensibile, fragile, che tende sempre a rimanere imbalsamata nel sorriso sincero di un amico, in un quadro nascosto in una galleria d’arte, in un libro dimenticato in libreria. Tu, vita, voglio vederti tornare, voglio vederti esserci, con quel profumo d’inaspettato che pretendi sia solo tuo, che lavi via quell’amaro ormai troppo frequente: voglio berti in un bicchiere a tarda notte e cancellare via ogni mancanza, ogni rimorso. Ti ho aspettato per quest’ultimo sguardo, ti ho aspettato nei giorni scuri d’incertezza dalla finestra; eri una vetrina troppo spoglia o forse ero io a essere in una vetrina ma nessuno ci è mai passato davanti perché tu, allora, non c’eri.

Ora, in un secondo, ho sentito bussare alla porta, vado ad aprire e torno o forse non tornerò più. Eri lì, con la bellezza del primo respiro, del primo passo, della prima lacrima versata, della prima risata. Sei tornata, come la prima volta.

Cara vita, ora voglio farti vedere io cosa si nasconde dietro l’amaro delle sei di mattina: ti voglio dimostrare dove egoisticamente ti ho tenuta nascosta nei ricordi, quando ormai ti davo per morta; eri ancora presente, ti nutrivo di sensazioni passate, dei baci che ho dato, delle pagine che ho studiato, delle canzoni che ho ballato quando la musica ancora non spaventava. Eri lì, protetta, ti disegnavo qualche volta in uno sguardo malinconico quando tutto il resto era fermo e l’unica consolazione era il passato. E tu, mio egregio passato, mio confortevole amico in balia del dolore, mi hai custodito una vita che era astratta, lontana, a viverla non era la me stessa che sono adesso.

La mortalità cambia tutti. Perchè sì, è quel che siamo stati: tu, vita, te ne sei andata e, per un attimo infinito, non abbiamo temuto la morte. Ma la morte, io, la voglio disperatamente temere, ne voglio essere terrorizzata, voglio sentire i brividi di una ferita, come voglio sentire il cuore piangere quando vede una stella cadente troppo lontana, voglio sapere cosa significhi vedere una persona e avere le farfalle allo stomaco, voglio sentire un bacio al profumo di rose che mi racconta la sua vita, voglio un abbraccio che sussurra “sempre”. Voglio tutto questo, fino alle viscere. Voglio la morte perché significa che tu sei qui, vita.

Sono qui, ho aperto la porta e non posso fare altro che accoglierti, stringerti.

  • Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ci siam viste?
  • Dieci anni, come anche un secondo.

Ci sediamo al tavolo, a consumare quello sguardo in sospeso che avevamo. E ora? ti chiedo.  E tu, con uno sguardo di sfida, quello sguardo che tanto volevo vedere, quasi beffandoti di me, rispondi Ora son qui. Non hai più nessuna scusa.

 

testo a cura di Cecilia Capello

Komorebi

Luce che filtra tra le foglie degli alberi: è questo il significato della parola giapponese Komorebi. Quando ho letto per caso questa parola mi è piaciuta fin da subito, mi è entrata in testa. Mi fa pensare a settembre, a questo mese di svolta che ti allontana dall’estate e ti porta a ricominciare.

Settembre è quella luce che ti indica un nuovo cammino senza però svelare troppo, come i primi raggi di sole in un bosco ancora buio e addormentato.

Ho sempre considerato questo mese come l’inizio di nuove esperienze, letteralmente come la partenza di un nuovo anno. Anche se porta la malinconia dei giorni d’estate, questo mese è ricco di suspense per quello che verrà dopo.

Settembre è un tornado che ti fa cambiare rotta e ti fa sentire vivo.

Settembre ti dà l’opportunità di guardarti dentro e scoprire le cose che nascondi anche a te stesso per ripartire con il piede giusto.

Quindi buona fortuna per tutto!

 

Alice Taricco

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