Entro e fuori

Arriva sempre una fine. Presto, tardi, lontano o indissolubilmente vicino, arriva sempre un punto di non ritorno. Quel traguardo invalicabile che abbraccia la linea di orizzonte e resta lì, come se non dovesse mai venire nella nostra direzione, come se dovesse sempre esser altro, intoccabile. Eppure prima o poi anche noi lo oltrepassiamo. Capisci che la fine stia arrivando quando i secondi si fanno numeri e non solo più attimi. Quando il respiro della gente intorno a te diventa vapore e non solo più parole non dette. Quando stringendo un paio di mani, senti i calli e le rughe e non solo più le paure e le speranze. Capisci che stia arrivando una fine quando, in silenzio, stai seduto a guardare fuori dalla finestra, e non fai nemmeno lo sforzo di romperla e andare oltre. 

Abbiamo tutti paura della fine: temiamo che venga tagliato il filo di certe nostre esistenze perché c’è l’oblio di mezzo, il non sapere, l’essere lontani da ciò che conosciamo e da ciò in cui stiamo più comodi. Abbiamo paura della fine, qualsiasi essa sia, perché indubbiamente diventeremo altro. 

Ma ci avete mai pensato a cosa significhi “diventare altro”? A cosa voglia dire effettivamente “cambiare”? Siamo talmente terrorizzati da queste parole che non ne comprendiamo il reale senso. Siamo tutti talmente tanto avvolti dalle stesse coperte, dalle stesse camicie, indossiamo le stesse collane, gli stessi orecchini, teniamo sempre il portafoglio nella tasca destra dei pantaloni e la borsa alla spalla sinistra, beviamo il caffè nella stessa identica tazza la mattina, quando ci trucchiamo mettiamo sempre la stessa canzone in sottofondo. Sempre lo stesso. Rimaniamo sempre gli stessi. E questo perché evadiamo la fine, la allontaniamo, la releghiamo ai margini dei nostri corpi, e così viviamo entro esistenze apparentemente infinte, in dei tunnel in cui non si vede l’uscita: inerti, senza forza, senza speranza, ci dimentichiamo di cosa realmente siamo. 

Umani. Carne e sangue. Sentimenti e desideri. Vita e movimento. Cambiamento. Ed è proprio la finitudine a renderci così assurdi e incomprensibili. È proprio entro i nostri limiti che comprendiamo quale universo portiamo negli occhi, che capiamo cosa voglia dire aver teso così tanto a qualcosa da averla attraversata, da averla sublimata e fatta diventare parte di noi. I fini, i punti di non ritorno, noi li assorbiamo fino alle ossa, e li comprendiamo come i riassunti, le note a piè pagina delle esperienze che viviamo. 

Bisogna fermarsi, in tutti i sensi, e guardare le linee che ci si stagliano davanti: guardare i piedi e capire cosa ci abbia spinto fino a lì, perché abbiamo scelto certe strade, o semplicemente perché ci siamo finiti bloccati dentro, perché ci è parso così tanto impossibile uscirne, perché abbiamo gioito così tanto, perché abbiamo provato certe emozioni e soprattutto cosa ci siamo buttati nelle vene di tutto ciò. Bisogna guardarli i fini. Bisogna renderli importanti, bisogna dire “non vedevo l’ora che arrivasse”. Siamo altro oltre i nostri limiti, siamo qualcosa di totalmente sconosciuto, e questa penso sia la più grande sorpresa della vita: sapere che saremo eternamente inesauribili, che anche nei momenti in cui diremmo “una fine non ci sarà mai”, la disegneremo noi e ci diremo “da adesso è tutto diverso, è tutto nuovo, per un’altra volta posso tirare fuori l’ennesima canzone da suonare.”

C’è un’eterna bellezza nei limiti, a questo credo profondamente. È la stessa bellezza di finire un libro, di arrivare all’ultima riga e avere solo la voglia di scoprire come andrà a finire, ma una volta finito, rimarremo in silenzio, legheremo le pagine alle dita, e metteremo il libro sullo scaffale. Ma questo non ci impedirà di tirarne giù un altro dalla libreria, magari un giallo, magari un racconto di fantascienza, e magari lo inizieremo con entusiasmo e voglia, o con noia, magari ne proveremo mille, di libri,  dopo quello letto perché non troveremo alcuna storia che valga la pena leggere, ma prima o poi arriverà: arriverà una storia che leggeremo con occhio universale, azzurro come il cielo e marrone come la nostra terra, nella lettere nere scopriremo ogni nuova cellula rigenerata di un “noi” che non conosciamo, e rimarremo su quel libro, su quella vita, magari un anno, così come un secondo.

E pensateci, se non fosse stato per un fine, per un libro portato a termine, non avremmo mai trovato la voglia per trovare una nuova dimensione, un nuovo racconto, una nuova persona. E piu tendiamo ai fini, più liberiamo altro, più liberiamo essenza, più liberiamo noi. Possiamo deciderli i nostri diluvi universali, alcune piogge lavano via i corpi, e serve coraggio per sciacquarsi il volto e trovarne uno nuovo.

Ho iniziato ad apprezzare il fatto che siamo finiti quest’anno soprattutto, in questa prigione di dieci mesi lontani gli uni dagli altri, lontano dai nostri desideri, lontano dagli abbracci, lontano dai baci, lontano dalle bocche, dai sorrisi, dai denti bianchi. Siamo stati lontani da noi. Abbiamo salutato gli sguardi incrociati nelle strade, i bicchieri alzati e i cuori leggeri, abbiamo allontanato la gente che ci cercava, abbiamo quasi dimenticato  i nostri sentimenti, quello che realmente proviamo. Abbiamo conservato ogni sensazione, ogni desiderio, ogni volontà per la nostra vita dentro di noi, li abbiamo ibernati per non rischiare che una pandemia globale ci prendesse anche quello. Abbiamo elevato ciò che provavano all’infinito. 

Ma è arrivato il momento di mettere fine anche a questo: abbiamo bisogno di far uscire tutto, di liberarci, di urlarci quanto ci siamo mancati, quanto ci sia mancato camminare senza la pesantezza della paura, di quanto vogliamo andare a visitare una città e perderci in posti lontani per sempre, di quanto desideriamo semplicemente una birra in spiaggia in estate o la nostra canzone preferita suonata a massimo volume e cantata in un coro abbracciato.

Abbiamo bisogno di mettere fine al silenzio di ciò che proviamo, del nostro dolore, delle nostre mancanze: bisogna valicare questa linea bianca che ci separa da una nuova vita e ristabilire la nostra rinascita. Ecco, abbiamo bisogno di rinascere. Di essere altro, lontano da quello che siamo stati adesso. 

Auguro a ognuno di noi,  noi vittime di questa commedia tremenda, a tutti coloro che stanno dipingendo un quadro che non vedono l’ora di finire, di trovare persone che siano i nostri limiti, che siano essi stessi punti di frontiera (e non che siano loro a pormeli): sono quelle anime che ci mettono sempre in discussione, che ci fanno sempre essere altro, che ci dicono che non basta essere felici, ma che dobbiamo anche essere tristi, se non siamo abituati ad esserlo, che dobbiamo provare a vestirci di blu anche se ci vestiamo sempre di nero, che ci dicono di provare a disegnare a carboncino o ascoltare R&B anche se non l’avete mai fatto. Trovate persone che siano un limite che supererete anche mille e una volta, e che alla milleduesima volta vi facciano trovare un nuovo accordo di voi stessi. Trovate persone che mettano punti alle vostre “i”, ma che non vi preferiscano se scritte in corsivo o in stampatello. Trovate persone i cui “va bene così” vi facciano rispondere “sicuro?”, le cui parole (finite) siano la chiave per schiudere desideri e sogni. Trovate persone che quando smetteranno di tenervi la mano, saranno semplicemente sul bagnasciuga ad aspettarvi, ad aspettarvi ancora, a valicare ancora un altro limite. E lì, non dovrete fare altro che tuffarvi nelle scure acque di un mare nuovo, freddo, che vi farà nuotare fino a che non sarete esausti, ma che vi irrorerà vita nelle vene, e desiderio negli occhi. 

L’infinitesima promessa dell’attimo. 

Trovate persone così, sempre.

E soprattutto adesso, che i secondi cominciano letteralmente a diventare numeri sempre più desiderati, fatevi una promessa: ponetevi dei fini. Ricercate limiti e siatene assettati. Cercate le righe che vi possano schiudere, liberare, cambiare, e non abituatevi all’”ora e sempre”.  Sono mesi che siamo bloccati entro porte chiuse che ci hanno imbruttito, incattivito, e proprio adesso dobbiamo liberarci dei nostri mali. Diciamo “basta”, e ripartiamo.

Ripartiamo da zero. 

Non so voi, ma voglio essere nuova. Voglio essere sconosciuta. 

Articolo di Cecilia Capello

Invisible women

Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano. Questo è il titolo del libro di Caroline Criado Perez, attivista e scrittrice britannica. 

Un libro rivoluzionario e rivelatore che mostra come la popolazione femminile venga sistematicamente ignorata. Questo saggio ci fa capire come il mondo sia fatto su un modello maschile che ostacola da sempre le donne in molti modi. Grazie ad un’impressionante raccolta di dati e documenti, l’autrice ci fa comprendere la differenza di trattamento che la società moderna riserva alle donne. Il saggio è diviso in diverse sezioni, tutte dedicate ad argomenti differenti e in ogni capitolo viene preso in esame come il gender data gap, cioè il vuoto di dati di genere, influisce sulla vita delle donne. Ci si interroga proprio sulla sconvolgente assenza di dati disponibili sulle abitudini e i bisogni femminili. L’esperienza maschile è considerata standard mentre quella femminile è un qualcosa di nicchia. Come nel caso degli smartphone, progettati in base alla misura delle mani degli uomini. Lo smartphone medio, pertanto, risulta grande per essere usato comodamente con una sola mano da una donna. Oppure, c’è il fatto che le donne corrono un rischio maggiore rispetto agli uomini di morire o essere gravemente ferite in seguito ad un incidente stradale. Questo perché da decenni i test sulla sicurezza stradale sono svolti solo con manichini maschili. I sistemi di sicurezza dell’auto non proteggono quindi le donne come fanno con gli uomini. 

Questo libro spazia in modo ben documentato in ogni ambito: dalla vita lavorativa alla vita privata, dalla ricerca medica all’intelligenza artificiale. In campo medico, ad esempio, viene citata la sindrome di Yentl, ovvero la tendenza a sottovalutare il dolore femminile, sbagliare o ritardare la diagnosi sulle donne rispetto che sugli uomini. Questo perché si studiano maggiormente i sintomi, le diagnosi e le cure sui soggetti maschili. Ciò spiega perché a volte i medici non sono in grado di diagnosticare in tempo un infarto in una donna. La diagnosi errata di questo tipo di malattia è una delle principali cause di morte in Europa.

Dunque i corpi maschili non possono essere considerati come un esempio universale di corpo umano, le donne non presentano le stesse manifestazioni degli uomini.

Ma vi siete mai chiesti perché nei bagni delle donne ci siano code lunghissime e in quelli dei maschi no? L’autrice ci fa capire che ci sono grandi differenze tra uomini e donne anche in questa situazione, che vediamo quotidianamente.

Attraverso questa lettura riusciamo quindi a inquadrare perfettamente l’attuale realtà della donna, il suo essere invisibile. Per rendere la donna meno invisibile basta prenderla in considerazione, chiedere la sua opinione e lasciarla libera di esprimere il proprio talento. Capiamo quanto è radicata la mentalità “uomocentrica” e quanto bisogna ancora lottare per raggiungere la parità. La discriminazione di genere non è un’invenzione, non è un capriccio. È una realtà evidente e riscontrabile. L’informazione e la riflessione su questi temi ci rende capaci di cambiare le cose. È il primo passo verso un futuro di inclusione per combattere il divario di genere.

Alice Taricco 

“Cogitare” aude!

«La pigrizia e la viltà sono le causa per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni!

Se io ho un libro che pensa per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione»

(Kant, Che cos’è l’Illuminismo)

La libertà è un bene che oggi, in alcune parti del mondo, abbiamo la fortuna di poter dare per scontato, ma quando possiamo considerarci davvero liberi?

Kant in Che cos’è l’Illuminismo tratta della condizione di quelli che egli chiama “minori”, soggetti che, dalla comodità del nido in cui si ritrovano, rifiutano qualunque tipo di responsabilità, delegando ogni decisione ai cosiddetti “tutori”. Il filosofo inizia la sua trattazione dando la sua semplice, ma eloquente, definizione di “Illuminismo”: «l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso». Esso è dunque un processo dinamico, l’uscita da una condizione per fare il proprio ingresso in un’altra. Tale condizione è quella della minorità, descritta da Kant come incapacità di avvalersi del proprio intelletto senza la guida di un altro; il minore è capace di pensare, ma non autonomamente, e tale condizione è imputabile a lui stesso, poiché non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza della decisione e del coraggio di fare uso del proprio intelletto senza essere guidato da un altro. Per Kant l’emancipazione coincide dunque con l’autonomia, ovvero il darsi da sé la propria legge, senza restare sotto la tutela e la guida di altri, e sembra non capire perché la maggior parte degli uomini sia incline a questa condizione e non se ne ribelli, ritendendo fondamentale un’auto-emancipazione che permetta di uscire dalla tutela, di usare la propria intelligenza mirando ad una liberazione che è individuale. Liberarsi è una questione solo di volontà, tutto dipende dal fatto che i soggetti non fanno buon uso di un patrimonio liberante che i realtà già possiedono: i minori VOGLIONO e PENSANO, ma vogliono rimanere minorenni, e pensano solo entro i limiti imposti dal tutore, non autonomamente. La comoda inerzia che tiene gli uomini dentro la caverna della minorità è per Kant vincibile dai soggetti che si trovano in questa condizione. Non ha dubbio che gli ostacoli interni siano superabili e nessun dubbio che esista una condizione migliore a quella della minorità: le tenebre possono piacere solo a schiavi inconsapevoli e a bambini viziati, ma vale sempre la pena uscire.

C’è un rovesciamento della metafora dei pesi: le catene, che dovrebbero essere pesantissime, sono qui la condizione più comoda, mentre la libertà, che solitamente è descritta come “alata”, è qui più una sciagura, poiché essere adulti e autonomamente pensanti è molto più scomodo di essere minori. Il fascino della minorità sta nella serie di sgravi ed esoneri che si possono ottenere semplicemente delegando ad altri il compito di assolverli al proprio posto. 

«È dunque difficile per ogni singolo uomo lavorare per uscire dalla minorità, che è divenuta per lui una seconda natura, egli è perfino arrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto non avendolo mai messo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità: anche chi riuscisse a sciogliersi da essi non farebbe che un salto malsicuro sia pur sopra i più angusti fossati, poiché egli non avrebbe l’abitudine a siffatti liberi movimenti»

(Kant, Che cos’è l’Illuminismo)

Della minorità i minori vedono per lo più il godimento, il confort, il delegare: non esistono per loro alternative più desiderabili di questa. L’uscita dallo stato di minorità è una forma di sapere, e le catene che tengono i minori in quella condizione sono dunque per Kant catene dell’ignoranza. 

Avere il coraggio di pensare (“cogitare” aude) è l’unico modo sicuro che abbiamo per essere liberi: la libertà non è una condizione data e pronta all’uso, ma va guadagnata e salvaguardata con l’esercizio di un libero pensiero capace di scioglierci dalle catene dell’ignoranza e permetterci di essere soggetti liberi che si muovono in un mondo in cui pensare liberamente è un dovere ed un diritto fondamentale. Ci vuole molto coraggio per pensare, ma ne vale sempre la pena.

«Pesare è disobbedire, disobbedire alle proprie certezze, alla propria comodità, alle proprie abitudini. E se ci si disobbedisce, è per non essere “traditori di noi stessi»

(F. Gros, Disobbedire)

 

Denise Arneodo

Radici

Sentivo le luci scorrermi nelle vene.

Quelle offuscate, senza contorni definiti e palpabili; quelle che vanno sempre amalgamandosi con le tonalità morbide degli immobili circostanti. Quelle accese nella prima notte, quando il sole pallido bacia un’ultima volta la strada e si ritira, senza promettere se il giorno dopo tornerà o meno.

Quelle luci t’incendiavano, ti facevano sentire il cuore nelle orecchie e la voglia di ballare al suono delle macchine sfreccianti. Ti facevano venire voglia di cambiare faccia, di mutare aspetto, di smetterla di avere i capelli scuri e gli occhi limpidi. Ti facevano perdere la tua meta, ti cambiavano il tragitto e in te facevano nascere il desiderio di perderti: lasciare i piedi allo sbando, unicamente guidati dalla fragranza di un romanzo di fine Ottocento ancora aleggiante sopra gli spioventi e stretti tetti, di rado illuminati da qualche immagine familiare visibile attraverso le finestre.

Pareva quasi ti parlassero le strade: erano come la proiezione delle parole che le persone avevano paura di dire. Ti invogliavano a prenderle, a sviare, a sbagliare via e a non trovare più il ritorno. Ma cosa importava ritornare a casa quando l’anima ribolliva per l’autenticità che era riuscita a scovare fra i ciottoli di quelle strade, fra i bordi stretti che abbracciavano la Senna, fra le luci dei cafès, talvolta vuoti e talvolta pulluli di anime giovani a cui la vita alludeva serbare più che la vita stessa, sebbene la consapevolezza fosse ormai greve, pronta a prendere i sogni e trascinarli in un baratro.

Ma finché sei lì, finché Parigi ti parla e con le sue luci soffuse ti culla con la promessa che il tempo mai si è evoluto in quella città dalle vie ciottolose, la consapevolezza è meno pesante, meno ardua da sopportare, mitigata da quell’illusione di vivere come in una dimensione ormai perduta, ormai bruciata dall’avidità con cui l’uomo gioca a scottarsi. Cullami, Parigi.

Fammi ubriacare del profumo dei croissants e delle baguettes appena sfornate in un mite giovedì mattina e fammi addormentare a ritmo dei passi sconnessi e rubati dell’amore che, come uno spirito vagante, fa capolino dietro gli occhi trasparenti e la voce pressata dall’insoddisfazione che la vita ha donato.

Pare quasi una sorta di nostalgia per un qualcuno che conosco a malapena.

L’amore mi è sconosciuto: talvolta penso che mai mi innamorerò perché ho un labirinto racchiuso fra quattro ossa che nemmeno io sono capace di districare. Ma tu, m’hai fatta innamorare con la delicatezza di un quadro che prende l’anima e la ribattezza e, assorbendomi tutto il caos con cui ormai convivo, m’hai tolto anni pesanti dalle spalle. Immobile, fra le tue strade che paiono braccia, ho sfiorato quella meraviglia che solamente un bambino che vede il primo tramonto sarebbe capace di provare.

Amore mio, lontano, ti cerco nello specchio di ricordi sfocati, fra i profumi di Saint Germain-Des-Pres, seduto nel giardino delle Tulleries a guardare il via vai di gente pura, libera, o a contemplare le Ninfee di Monet all’Orangerie, in mezzo a tutto quel colore tenue che rigenera l’anima e che dipinge gli occhi.

Amore mio, lontano, percorro sentieri per tornare da te, per tornare da me, che mi manchi, che mi manco, o Parigi.

 

testo a cura di Cecilia Capelli

Ridi che ti passa

Una risata può davvero migliorare la tua giornata.
Sembra assurdo ma ridere fa bene al cuore, è la via più semplice ed economica per sentirci meglio.
I benefici della risata sono conosciuti fin dai tempi di Ippocrate, padre della medicina, che attribuiva al ridere il potere di liberare sostanze benefiche per la nostra salute. La scienza di oggi ha confermato le antiche sapienze. Infatti al termine della nostra risata si ha un rilascio di sostanze chimiche naturali, endorfine e catecolamine, che ci fanno sentire vivaci e in forma.
Ridere è una medicina che fa bene a tutti, grandi e piccini!
Ad ogni modo, la terapia del sorriso non è una novità: il padre della risoterapia Patch Adams, da cui si è ispirato l’omonimo film, ha trasformato la risata in cura. «Una risata può avere lo stesso effetto di un antidolorifico» dice Patch Adams «entrambi agiscono sul sistema nervoso anestetizzandolo e convincendo il paziente che il dolore non ci sia».
Addirittura uno studio del professore Maciej Buchowski, ha evidenziato che ridere dieci o quindici minuti al giorno permetterebbe di bruciare circa cinquanta calorie.
La risata è una capacità innata che abbiamo sempre a disposizione, basta solamente decidere di usarla!
Qualche volta per stare meglio abbiamo solo bisogno di qualcuno o qualcosa che ci faccia ridere e ci faccia staccare dal nervoso e dallo stress del mondo reale.
Se di oggi non ti sei ancora fatto una bella risata, cosa stai aspettando?

Alice Taricco

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