Ritrovo per le 8.30 al bar per una colazione condita di Senegal.

Arrivo un po’ in ritardo ma fortunatamente non sono l’unica: dopo poco mi raggiunge Elena, che mi accoglie con un sorriso. Dentro ci aspettano Miriam e Alice: mi presento con la prima, abbraccio la seconda e ci sediamo al tavolo. Ordiniamo un caffè caldo e una brioche ripiena.

Attorno a me sento come un odore lontano di Africa e immagino i cuori e le menti di Alice, Elena e Miriam tornare a rivivere le sensazioni e le emozioni di qualche anno fa, una malinconia velata di piacere a raccontarla.

Questo il loro viaggio.

Al terzo anno di Educatore Professionale – inizia Elena – ci è stato proposto di andare a fare la tesi all’estero e l’Università proponeva un progetto, con un’associazione di Torino (Jamm), che consisteva nell’andare a fare un tirocinio esperienziale di due mesi in un villaggio del Senegal, Adeane, in cui l’associazione stessa aveva sede: saremmo entrate in contatto con la cultura del posto e tutto ciò che comporta l’aspetto educativo, con il fine di sviluppare dei progetti da realizzare nell’arco della nostra permanenza.

Io e Miriam siamo state giù da metà novembre a metà gennaio, a cavallo tra il 2014 e il 2015, e Alice ci ha poi raggiunte per Natale.

La mia esperienza infatti – continua Alice – è stata un misto di vacanza, volontariato e incontri. Sono partita per raggiungere loro due ma io non avevo nessuna competenza nel mondo dell’educativa. Essendo una studentessa di Medicina ho però avuto la possibilità di frequentare il piccolo consultorio medico e ostetrico del villaggio.

 

Noi siamo partite con un’educatrice, Francesca, che ci avrebbe fatto da tutor, e con altri tre che andavano a farsi un’esperienza di volontariato. La partenza è stata un po’ “allo sbaraglio”, senza nessuna particolare preparazione e informazione sul paese, e siamo arrivate lì abbastamza “ignoranti” di ciò che avremmo incontrato. Siamo arrivate a Dakar in aereo e poi ci siamo dirette ad Adeane, a bordo di una station wagon per una durata di circa 8-10 ore: ma quello è già stato fighissimo! Ci siamo dirette verso la regione meridionale del paese, attraversando anche il Gambia, e immergendoci in una natura rigogliosa e molto verde –  ricorda Elena con un sorriso sul volto.

Adeane è un piccolo villaggio rurale, costituito da numerose capanne. La sede dell’associazione, dove stavamo anche noi, era poco più fuori, a Dindi, circondata da terreno coltivato, dove abbiamo lavorato anche noi per i primi tempi.

La sveglia suonava intorno alle 8.30, ci dirigevamo verso i campi e bagnavamo la terra. Dopo circa un’ora mangiavamo colazione, molto abbondante. O meglio, più che una colazione era un pranzo! Con l’inizio delle scuole, materna ed elementare, è cominciato anche il nostro periodo di osservazione degli stili educativi, per circa una settimana/dieci giorni.

Per quanto mi riguarda, – precisa Alice – la mattina davo una mano agli infermieri, personale tuttofare, che si occupava di assistere le donne durante i parti, di seguire il follow-up dei bambini nei primi 4/6 mesi e delle donne durante la gravidanza. Inoltre c’era un piccolo triage dove si selezionavano i pazienti che potevano essere seguiti da loro in ambulatorio e chi invece necessitava di un controllo medico e quindi veniva inviato all’ospedale di Ziguinchor. Raggiungevo l’ospedale infermieristico in moto, mentre solitamente al ritorno facevo una passeggiata. Attraversando il villaggio venivo fermata da tutte le persone che incontravo ed era sempre un momento di confronto e risate.

Nel pomeriggio invece seguivo il lavoro di Elena e Miriam dando il mio contributo in base alle loro necessità.

 

Concluso questo, era il momento delle grandi partite di calcio nella piazza principale: il più sentito dal villaggio e al quale non mancavamo mai. Corse, risate, chiacchierate, bimbi, giochi, amicizie. Era tutto e si faceva tutto. Quando calava il buio significava che era il momento di tornare a casa.

 

Dopo 20 minuti di camminata per la campagna arrivavamo alla nostra abitazione dove Lai, il nostro fratellino senegalese, ci aspettava per cucinare e cenare tutti insieme. A volte avevamo ospiti, a volte no. In Senegal nessuno ti invita a casa, ma tutti cucinano un piatto in più, almeno se arriva qualcuno hai qualcosa da offrirgli. La serata si passava davanti al fuoco facendo il caffè e il thè senegalesi e sentendo storie di una cultura lontana, ma affascinante, che ci faceva sognare.

 

Abbiamo vissuto il paese attraverso gli occhi di Paco, ragazzo di 27 anni, nato e cresciuto ad Adeane, che è stato il nostro punto di riferimento e intermediario con la comunità durante la nostra esperienza. È stato un confronto bellissimo: Paco ama il Senegal e parlando con lui te ne puoi solo innamorare, e ama la nostra amica Francesca, con cui è fidanzato, e quindi anche l’Italia.

La sua è una famiglia allargata: oltre a mamma, papà e sette-otto fratelli, con loro vivevano anche altri componenti, non facenti parte del legame famigliare ma considerati tali.

 

Ad Adeane non esistono le porte di casa, non esistono muri e barriere. Lì ho capito cosa significa fare parte di un gruppo, condividere le gioie e i dolori, le feste e i momenti di difficoltà. Sei sempre il benvenuto. Ad esempio, nel villaggio c’è una sola televisione e la si guarda tutti insieme, perché non è importante cosa vedi, ma è una scusa per riunirsi, per parlare. Da noi la televisione è uno strumento per assuefarsi: ti siedi e non pensi e soprattutto ti isoli. In Senegal no, sei sempre parte di qualcosa e non ti senti solo. Il villaggio si prende cura di te e tu ti prendi cura di lui.

Alla fine sei figlio un po’ di tutti, sei figlio del villaggio. Senti di appartenere a qualcosa e non a qualcuno.

 

Abbiamo vissuto e conosciuto l’Umanità con la U maiuscola, quella che ti fa sentire a casa non appena arrivi, che ti circonda sempre di persone curiose e pronte a farti mille domande, di bambini timidi e un po’ spaventati, ma non appena incroci il loro sguardo si fidano, si avvicinano e toccano la tua pelle bianca perché vogliono capire come mai sei così pallido. Di donne che ti chiamano in casa per farti assaggiare cosa stanno cucinando, di uomini che passando in moto urlano il tuo nome storpiato e ti salutano, di ragazzi che si mettono a ballare e ragazze che ti fanno le treccine ai capelli. Insomma è l’Umanità che ti fa capire che non esiste un io e un tu, ma esiste solo un NOI.

Uno degli aspetti che abbiamo apprezzato maggiormente è stato il rito di iniziazione dei giovani uomini. Si tratta di una prassi molto sentita all’interno del villaggio e velata da un alone di sacralità. Vi è addirittura uno spirito – il Kankouran – che ha il compito di proteggere i ragazzi durante il periodo di isolamento (circa un mese) all’interno della foresta.

Al giorno d’oggi le pratiche si sono modernizzate, per cui i ragazzi non sono completamente isolati dalla comunità ma hanno la possibilità di continuare a frequentare la scuola e anche la famiglia.

In particolare noi avevamo assistito alla parata conclusiva in cui i ragazzi avevano ormai terminato l’iniziazione, in seguito alla circoncisione, e erano stati riconsegnati al villaggio, ormai uomini.

Era stata una festa enorme, al ritmo di tamburi e canti tradizionali, caratterizzata da una miriade di colori, che ti avvolgevano come pioggia. Ti immergevi completamente nello spirito della festa, arrivavi davvero a crederci.

La cultura laggiù è un misto di tradizioni animiste antiche e dell’islam moderno. Non c’è estremismo religioso, molte famiglie, se non tutte, hanno nonni di culture e fede diversa, ma tutti vivono insieme rispettando gli usi e spesso fondendo insieme aspetti di diverse religioni.

É così affascinante vedere come la tradizione e il patrimonio culturale possano essere collante tra le generazioni.

Ti porti nel cuore la nostalgia di questi spazi così aperti, del fatto che “quello che è mio è tuo”.

Ti fa riflettere come sia importante il fatto di creare una rete, senza alcun interesse di ritorno: tu sei un punto di riferimento per la comunità perché dev’essere così e basta, perché te lo senti dentro. «Si mangia tutti da un unico piatto».

Il nostro, però, non vuole essere un racconto da “mal d’Africa”. Siamo tornate consapevoli del fatto che non potremmo mai vivere laggiù. Abbiamo conosciuto un mondo che ci ha aperto degli orizzonti di riflessione ma che deve ancora crescere sotto molti aspetti, che presenta i suoi limiti. È un altro approccio alla vita.

Nonostante ciò, il Senegal è diventato parte di noi.

Un Grazie immenso a Alice, Elena e Miriam che mi hanno contaminato con i loro racconti al gusto d’Africa.

La mia colazione è stato un viaggio alla scoperta di una nuova terra, una cultura antica e radicata, e di un popolo affascinante. Grazie per le vostre storie.

 

**Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf