Sapore di oceano

È un pomeriggio freddo, l’autunno comincia a farsi spazio prepotentemente e la mia mente è ancora rivolta al caldo avvolgente e piacevole dei giorni scorsi. L’appuntamento è per le 17 ma sono in ritardo e rincorro i minuti perché non scorrano troppo veloci. Sono un po’ agitata, ma è quell’agitazione positiva.  Arrivo davanti al bar e lo trovo seduto su una panchina. Si sta guardando intorno, sembra spaesato, chissà a cosa pensa.

Ehi! Lo colgo all’improvviso e fa un piccolo salto.

Scusa il ritardo, è da tanto che aspetti?  Inizia così la nostra chiacchierata. Anche se non ci conosciamo, mi sento fin da subito in confidenza.

Elia è molto alto, mi devo come arrampicare per poterlo salutare. Ha uno zaino con sé e mi accoglie con un sorriso. Dopo poco, mi rivela i suoi prossimi progetti. Ha deciso di ripartire e la meta scelta è la Nuova Zelanda. Mi lascia un attimo spaesata questa rivelazione: wow, penso. Ammetto di provare un po’ di invidia, ma la tengo per me.

Ci sediamo e ordiniamo un caffè: nel caos che ci circonda cominciamo a raccontarci piccoli pezzi di viaggi e di vita.

Elia ha la mia età, 21 anni, ed è da poco tornato da un viaggio di 8 mesi in Australia. Scoprii la cosa tramite una storia su Instagram: una foto buia che ritraeva un paesaggio non bene identificato, indicante la localizzazione: Sydney.

Incuriosita, lo contatto, proponendogli una collaborazione per un articolo sulla sua avventura.

Quasi 7 mesi dopo eccoci qui, uno di fronte all’altra, due caffè e un tavolino da bar che ci separano e tanta curiosità.

In svedese, gli rivelo, esiste un sostantivo – resfeber – che indica il battito irrequieto del cuore di un viaggiatore prima che il viaggio cominci, un misto di ansia ed aspettativa. Se potessi rivolgerti al te stesso di un anno fa, conoscendo dubbi e curiosità, cosa gli diresti?

Gli direi che quel sostantivo è il motivo per il quale, molto spesso, le persone non possono più fare a meno di viaggiare. È un duetto che, bilanciato, suona melodie che quantomeno ti alzano dalla sedia, poi per ballare bisogna aggiungere altro.

Non fosse stato per le aspettative che mi ero creato non sarei mai partito per l’Australia. Che poi alcune non siano state soddisfatte poco importa, è però di vitale importanza averne.

E, allo stesso modo, non fosse stato per l’ansia non sarei, col senno di poi, così soddisfatto di quello che ho vissuto e creato.

Che cosa ti ha spinto a fare una scelta di questo tipo? Cos’era ciò che cercavi?

Il fatto che non avessi nulla da perdere ha contribuito in modo significativo alla mia scelta.

Sono un ragazzo di 21 anni, non ho grandi vincoli, navigo in una fascia d’età nella quale potenzialmente posso essere tante cose e mi è permesso sbagliare, quindi mi sono detto: perché no?

Bisognerebbe chiederselo più spesso ed evitare che sia la paura a rispondere.

Un altro fattore contribuente è stata la voglia di conoscermi maggiormente, valutare le mie abilità di adattamento in un ambiente non familiare e dimostrare a me stesso di poter uscire da solo di fronte a situazioni di difficoltà. Ne esco una persona molto più sicura e consapevole.

Cos’era ciò che ti spaventava o ti ha spaventato maggiormente?

La mia principale paura è stata, ed è legata, all’uso di una lingua diversa da quella madre. Sono approdato in Australia con un livello di inglese certamente non invidiabile e quindi le principali difficoltà sono scaturite dall’uso della lingua. Ho provato sulla mia pelle, e già sapevo in parte, di come sia difficile dire un qualcosa di esatto senza avere nel proprio vocabolario le parole giuste per poterlo fare. Si usano termini generici che non sempre aiutano la comprensione altrui. In risposta ho trovato una mentalità ed un paese aperti e abituati a questo tipo di difficoltà. Non mi sono quasi mai sentito in difetto, per esempio, nell’esprimermi gestualmente o nel chiedere di ripetere ciò che mi era appena stato detto.

Tra gli incontri fatti, pensi di esserti riflesso nelle storie degli altri? Sono stati incontri che ti porterai dietro nel tuo bagaglio di vita?

Nell’ultimo mese di permanenza ho viaggiato, insieme ad un amico, alloggiando e cambiando frequentemente ostelli. Ho incontrato una quantità notevole di persone e posso quindi affermare alcuni aspetti che ho avuto modo di appurare:

  • Per quanto si possa provenire da zone opposte del mondo, esiste una linea continua che accomuna la maggior parte di noi e che punta verso orizzonti simili;
  • L’uso corretto delle comunità virtuali, come i social networks, facilita e aumenta esponenzialmente la creazione di comunità reali;
  • La diversità, accolta nel modo giusto, migliora la nostra condizione personale e collettiva;
  • L’arte culinaria italiana è molto apprezzata dal popolo australiano e non solo (nulla di sconvolgente, ma è sempre bene ricordare che l’Italia ha una sua importanza nel mondo, più di quanto si potrebbe comunemente pensare);
  • Viaggiare è una figata.

In un mio vecchio articolo scrissi: «il viaggiatore è come un cantastorie: si fa strumento per poter diffondere, attraverso le sue parole e i suoi ricordi, le storie che, in silenzio, ha appreso e vissuto, per giungere al prossimo, toccarlo, fargli dono e alla fine ritornare in sé arricchito del viaggio intrapreso».

Qual è la tua storia?

La mia è una storia di paure, possibilità, personalità, libertà, avventure, mancanze, presenze.

Non so ancora bene definire una traccia, è passato troppo poco tempo dal mio ritorno, sono però felice di aver riempito le pagine bianche con storie di vita personale e altrui. Aprirò il libro della mia vita, capitolo Australia, ogni qualvolta avrò paura di un nuovo inizio, sicuro di aver scritto, in modo indelebile, storie dal sentore di oceano.

È una chiacchierata calda e rigenerante quella che ci accompagna in quest’ora. Alle parole di Elia si accompagnano anche splendide foto che mi fanno immaginare e quasi vivere la bellezza di quei posti così lontani e selvaggi. Piccoli frammenti di vita quotidiana, di esperienze vissute e di persone conosciute. Rimango affascinata da come, ancora una volta, mi nasca la sensazione di come a volte riusciamo a cambiare il mondo ma quasi sempre è il mondo a cambiare noi.

Tra poco devo essere ad allenamento, scusa.

Torno alla realtà e il racconto di viaggio deve terminare.

Usciamo nuovamente all’aria fresca della sera. Ciao Elia, è stato un piacere. Grazie.

Lo saluto e dentro di me gli auguro il meglio per questo nuovo viaggio.

Chissà dove lo porterà e chi incontrerà. Ma questa sarà un’altra storia.

Un posto nel mondo – Fulminacci

«La Vita Veramente è un disco pieno di me e questa è sicuramente la cosa più bella. Lo considero un album estremamente vario, quasi schizofrenico nella sua proposta stilistica, ma nonostante questo nessun brano risulta figlio unico, ha una coerenza tutta sua e rispecchia la mia voglia di sperimentare e di non fermarmi mai, neanche quando sono soddisfatto. Parlo di amori e rincorse, di tangenziali e gite, tradimenti e caffè, sigarette, ascensori e semafori, insomma parlo della vita, veramente».

Ho scoperto questo nuovo e giovane cantautore grazie ad un amico, Matteo, che colpito dalla sua bravura ha voluto consigliarmelo. Il pensiero e l’idea dei suoi testi, così vicini anche alla mia vita di tutti i giorni, le domande, i dubbi e le sicurezze hanno saputo cogliere immediatamente la mia attenzione e mi hanno conquistato. E ho deciso di condividere con voi l’entusiasmo di questa nuova, straordinaria scoperta.

Classe 1997, nato a Roma, si chiama Filippo Utinacci, ma preferisce definirsi con il suo nome d’arte, vale a dire Fulminacci. Sorta di crasi molto sui generis tra nome e cognome e allo stesso tempo espressione di stupore d’altri tempi, utile a descrivere un personaggio alquanto alieno rispetto all’attuale panorama musicale. La Vita Veramente è il suo album d’esordio, uscito il 9 aprile.

È un artista di rottura, scrive, arrangia e canta le sue canzoni. Piace per freschezza e versatilità: le canzoni  sono cariche di una più unica che rara intelligenza emotiva dal sapore cinematografico, votata alla quotidianità più ordinaria e personale; colpisce per il suo umore irrequieto, cinico, capace di non adeguarsi alle mode e alle consuetudini imperanti. Il suo è un disco di formazione, di dubbi, di paure, di malinconie e fragilità tipiche di chi si sta scoprendo.

In mezz’ora scarsa di durata, Fulminacci si racconta in maniera scarna, cinica e diretta. Va dritto al punto, senza orpelli inutili. Chitarre acustiche, classico tono di voce da romanaccio, faccia da bravo ragazzo che con la sfrontatezza e genuinità dei suoi freschi 22 anni canta i più svariati temi che abbracciano l’amore naturalmente, le buche di Roma, la spensieratezza, la leggerezza.

 

In un’intervista per RollingStone.it racconta:

Sembri uno che si fa molte domande.

Altroché, sono parecchio interrogativo su me stesso.

E quel “veramente” nel titolo del tuo disco?

La Vita Veramente è un tentativo che faccio di spiegare come vive una persona come me. A volte mi capita di vivere momenti in terza persona, guardandomi dall’esterno, giudicandomi senza veramente ricordarmi che lo sto facendo. Sto sempre a guardarmi da fuori anziché vivermi una situazione veramente. La canzone parla di quello, di riuscire a stare al mondo in maniera onesta, presente al 100% senza pensare a cosa si sta facendo mentre lo si sta facendo.

Quello forse è per la giovane età. Solo invecchiando ti rendi conto che la vita ti riguarda eccome. Hai ragione quando dici in Una Sera che “la vita diventa un mestiere”.

Me ne accorgo sempre di più. Quella è una frase che i grandi ti dicono spesso quando sei piccolo. Ti dicono di goderti gli anni della gioventù, gli anni senza responsabilità, perché poi dopo non ritornano più. Ti dicono che puoi fare tutto, quasi ti senti immortale a forza di sentirti dire che sei giovane, che “come fai a morire? Sei giovanissimo”. Tutte cose a cui però non ho mai creduto troppo, neanche da piccolo. Mi sono sempre fatto un po’ troppe domande.

(per l’intervista completa: https://www.rollingstone.it/musica/interviste-musica/fulminacci-e-un-giovane-vecchio/453072/ )

Romanticismo, ritorni a casa, pigrizia, egoismo e un po’ di Roma: un macinato di espressioni, momenti delicati e corse verso il futuro. 22 anni (!) e una strada senza fine dinanzi.

E dimmi com’è, dimmi com’è, dimmi com’è, dimmi com’è
non sono stato mai a parlare per ore
senza pensare che lo sto facendo.
E dimmi cos’è, dimmi cos’è, dimmi cos’è
la vita veramente.
E non abbiamo mai un’opinione vera,
un’anima sincera, un’emozione pura
Però tu come fai, tu che mi sembri seria
svelami tutti i trucchi, proponimi dei sogni
Sti cazzi poi dei soldi a quelli ci pensiamo quando siamo grandi

La Vita Veramente è un esordio genuino quanto autorevole, dalla sorprendente sincerità.

Fidatevi, non ve ne pentirete.

 

 

 

 

 

Akemi

Patagonia, 8-9 settembre 2018

Nuda è la steppa. Candide venature di neve solcano gli scuri pendii collinari. I guanachi rivolgono sguardi afflitti dagli ostacoli alla sopravvivenza. Brilla ancora nell’occhio della mente il penetrante riflesso dei raggi rossi dell’alba sul granito. La vertiginosa parete e il profilo tagliente del Cuernos Principal non cedono spazio all’elaborazione di pensieri nuovi mentre il mio corpo stremato scivola silenziosamente via sul sedile di un autobus solitario immerso nella cruda asprezza di un paesaggio immenso, scolpito dai venti, limato dai ghiacci e baciato da un sole esangue.

In poche ore sono nuovamente a Puerto Natales, variopinta cittadina cilena sulle sponde della baia Last Hope Sound. Era stata resa celebre dal Milodonte, animale preistorico di cui furono rinvenuti alcuni resti in una caverna nei pressi dell’abitato. Ne venni a conoscenza leggendo “In Patagonia” di Bruce Chatwin, per il quale il Milodonte rappresentò un pretesto per intraprendere quell’assurdo viaggio da cui trassi ispirazione.

Decido di proseguire oltre. Ho sete di esperienze, chilometri da percorrere, luoghi da scoprire. Salgo su una piccola corriera e mi ritrovo così alla frontiera argentina. Poi il mio pollice s’alza in su, proteso verso la carreggiata nella fredda aria di una sera settembrina finchè vengo caricato su un minivan Ford. Le ruote battono l’asfalto umido ed ombroso in una serie di dolci curve declinanti fino ad un distributore di benzina di Rio Turbio, desolata e fatiscente cittadina di frontiera dove ho intenzione di passare la notte.

Prendo parte al teatro di ombre generato dalla luce gialla dei lampioni nel buio di una realtà dimenticata dal mondo, ma viva. Il dinamismo e la vitalità dell’atmosfera sono taciti testimoni di come queste persone siano state temprate dalle difficoltà riuscendo a trarne tenacia e fermezza a proprio beneficio. Il nostro spirito di adattamento è per questo straordinario e ci migliora in quanto persone, se solo gli si concedono le circostanze per poterci plasmare.

Trovare una sistemazione per la notte si rivela essere una sfida ardua. Giungo alla porta dell’unico albergo indicatomi, dove un uomo in stivali di pelle e ricoperto di segatura mi offre una stanza, nonostante l’attività sia al momento chiusa. Tiro un sospiro di sollievo e mi ritengo fortunato per l’intreccio di imprevedibili eventi che in questa lunga giornata mi hanno portato un altro passo avanti nel mio accidentale viaggio.

Mi sveglio con l’audace prospettiva di percorrere centinaia di chilometri in autostop. Sottolineo audace perché é domenica mattina e la città é deserta, così diversa alla luce del sole. La madre del proprietario dell’albergo, dopo avermi inaspettatamente preparato la colazione, mi suggerisce un’alternativa per proseguire e solo dopo un po’, per ostacoli linguistici, comprendo ciò che vuol darmi ad intendere.

Persuaso dai suoi consigli, cerco la fermata degli autobus e, dopo averla raggiunta, acquisto il biglietto per El Calafate, con un cambio previsto a La Esperanza, pugno di costruzioni erette nel punto di biforcazione dell’unica strada che, rettilinea e solitaria, si srotola sul manto ocra della steppa da Rio Gallegos, sulla costa argentina, alle Ande. Il viaggio durerà circa cinque ore ma non ne faccio un dramma. Un europeo, qua, si accorge ben presto della necessità di dover reinterpretare completamente la propria concezione di quel che é distante: le centinaia di metri diventano chilometri e i chilometri diventano decine o centinaia di chilometri.

Mi si avvicina presto un uomo spigliato che incalza un discorso in un inglese ammirevole, assoluta rarità per quel che é stato finora. Ariel, così si chiama, ha accompagnato sua moglie Lorena e sua figlia Akemi, di pochi anni, alla stazione di Rio Turbio per il loro rientro a Buenos Aires. Loro infatti vivono nella capitale e lui, per ragioni lavorative, a Puerto Natales. Più di duemilacinquecento chilometri li separano, ma sono incredibilmente affiatati. Si rivelano immediatamente essere persone di una qualità rara, estremamente piacevoli ed umili. I loro sguardi e i loro sorrisi mi arrivano diritti alle corde più delicate e sensibili dell’anima, facendomi sentire a casa.

Colmiamo piacevolmente l’attesa del bus parlando a lungo di tutto quel che ci passa per la mente, percependo le ore come fossero minuti. Poi domando l’origine del nome Akemi; mi dicono che é giapponese e significa “il miglior fiore”. Allora mi si inarca in viso un sorriso e penso che anche da quell’arida e remota terra che é la Patagonia possono nascere fiori meravigliosi.

L’attesa é terminata, é dunque ora di ripartire. Dopo alcune decine di chilometri, percorrendo la leggendaria Ruta 40 che solca integralmente l’Argentina da nord all’estremo sud decorrendo parallelamente al confine cileno, scorgo ad ovest, all’orizzonte, il Macizo del Paine, che i miei occhi ormai ben hanno appreso a riconoscere. Volgo così il mio ultimo e riconoscente saluto a quella terra che così disinvoltamente mi ha accolto e stravolto di emozioni.

Foto e testo a cura di Federico Landra

 

Roadtrip to Patagonia with Federico Landra

L’appuntamento è al bar per una chiacchierata e un caffè al sapore di Patagonia. Arrivo un attimo in ritardo e Federico è fuori ad aspettarmi. Dopo esserci salutati, entriamo e ordiniamo qualcosa di caldo. Attorno a me, lentamente, il brusio della gente si trasforma per far spazio, nella mia mente, a un lontano odore di America Latina.

Classe ’95, Federico studia Medicina e Chirurgia all’Università di Torino. Ci siamo conosciuti circa un anno fa e fin da subito ha saputo colpirmi la sua passione per l’avventura e i viaggi. A settembre 2018 ha deciso di intraprendere un viaggio in solitaria, della durata di un mese, in Patagonia. Colpita dalla sua scelta e dalle foto da lui pubblicate sul profilo Instagram, ho deciso di saperne qualcosa di più e, spinta dalla mia curiosità e sete di conoscenza, gli ho proposto un’intervista. Questo il suo racconto: godetevi il viaggio.

Da cosa è nata questa tua scelta di esplorare la Patagonia? Si può dire che sia nata dal desiderio di intraprendere un viaggio singolare, all’avventura, lontano dalla concezione contemporanea predominante del viaggio. Mi sono lasciato ispirare dal libro In Patagonia di Bruce Chatwin, non solo per quanto riguarda la meta ma anche e soprattutto nel modo di vivere il viaggio. Le immagini che la Patagonia evocava nella mia mente, quali di terra remota ed estrema, che ha affascinato frotte di esploratori di tutti i tempi, hanno poi fatto il resto affinché abbia scelto come destinazione.

Avevi un programma di percorso preciso o ti sei affidato al “vivo al giorno per giorno”? Per volontà e necessità ho vissuto giorno per giorno. Ho sempre detestato programmare i viaggi, nonostante il più delle volte sia inevitabile. Avendo avuto a disposizione un mese per questo viaggio me ne sono tenuto il più alla larga possibile. Avere un programma da seguire mi pesa enormemente, limita la mia libertà di esplorare, talvolta con il deleterio risultato di smorzare il mio entusiasmo.

Quali sono state le mappe principali? Mi sono spostato procedendo da sud verso nord, passando da Punta Arenas, Puerto Natales, Torres del Paine, El Calafate, El Chalten per arrivare infine alla Penisola di Valdes. Ma c’è ancora molto altro da vedere e da esplorare.

La realtà ha riflesso le tue aspettative o queste sono state completamente ribaltate? In parte le mie aspettative sono state confermate, riguardo alla natura dei paesaggi; in parte ribaltate, in quanto mi sono imbattuto in alcuni luoghi tristemente stravolti dalla logica del turismo di massa.

Chi o che cosa ha saputo colpire maggiormente la tua attenzione o ha saputo stupirti? Così come Darwin rimase profondamente segnato dalla vista del deserto della Patagonia, io sono rimasto ammaliato dallo splendore dei paesaggi che questa regione ha da offrire in tutta la loro varietà.

Descrivi il tuo viaggio in tre parole. Forgiante, rivelatorio, fondamentale.

Da viaggiatore e scopritore quale sei, che cosa significa per te Viaggiare? Viaggiare per me, utilizzando le parole di Montaigne, é «un utile esercizio; la mente è stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute. […] L’abitudine e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose. L’uomo è naturalmente curioso». Stando a degli studi elettroencefalografici effettuati su alcuni viaggiatori da parte di neurologi americani, cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni stimola i ritmi cerebrali e contribuisce ad un senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sè e reazioni violente. Il viaggio poi, come dice Chatwin, dev’essere avventuroso e la cosa migliore è camminare. Robert Louis Stevenson afferma che è fondamentale «sentire più da vicino le necessità e gli intralci del vivere; scendere da questo letto di piume della civiltà e trovare sotto i piedi il granito del globo, sparso di selci taglienti». Per cui le asperità sono vitali ed è proprio grazie a queste che evolutivamente siamo diventati ciò che siamo, sia sul livello sociologico che individuale.

[Foto a cura di Federico Landra]

Un grazie immenso a Federico che mi ha contaminato con il suo racconto al gusto di avventura. Il mio caffè è stato un viaggio alla scoperta di una nuova terra e di una natura selvaggia e affascinante.

Il sale della Terra

«Parla con calma, in una lingua mista, in cui entrano l’inglese, il francese, qualche parola italiana, e i suoi occhi azzurri ti fissano, incorniciati da folte sopracciglia bianche, per controllare che tu abbia capito tutto: 

“Questa è la mia fotografia: rispettare e mostrare una storia. Non sono stato spinto dalla voglia di fare belle foto o di diventare famoso ma da un senso di responsabilità. Io scrivo con la macchina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita. Non penso troppo alla luce o alla composizione, il mio stile è dentro di me e quella luce è quella del Brasile, quella che porto dentro di me da quando sono nato”».
(testo tratto da A occhi aperti, M. Calabresi)

 

 

Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l’itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell’artista, è un’esperienza estetica esemplare e potente, un’opera sullo splendore del mondo e sull’irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario è un oggetto fuori formato, una preghiera che dialoga con la carne, la natura e Dio.
Viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato ventisei paesi e concentrato il mondo in immagini bianche e nere di una semplicità sublime e una sobrietà brutale. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal figlio, l’artista si racconta attraverso i reportage che hanno omaggiato la bellezza del pianeta e gli orrori che hanno oltraggiato quella dell’uomo. 

Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado ha raccontato l’avidità di milioni di ricercatori d’oro brasiliani sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, ha denunciato i genocidi africani, ha immortalato i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente, ha testimoniato i mestieri e il mondo industriale dismesso, ha perso la fede per gli uomini davanti ai cadaveri accatastati in Rwanda e ‘ricomposti’ nella perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Un lavoro scritto con la luce e da ammirare in silenzio.
Salgado racconta le storie della parte più nascosta del mondo e della società. Spogliate dalla distrazione del colore, le sue fotografie testimoniano la conoscenza precisa dei luoghi e la relazione di vicinanza che l’artista intrattiene con gli altri: un mezzo, prima che un oggetto d’arte, per informare, provocare, emozionare. Foto che arrivano dentro alle cose perché nascono dall’osservazione, dalla testimonianza umana, da un fenomeno naturale.
Nella narrazione si susseguono scatti che penetrano le foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea, attraversano i ghiacciai dell’Antartide e i deserti dell’Africa, scalano le montagne dell’America, del Cile e della Siberia. Un viaggio epico quello di Salgado che testimonia l’uomo e la natura, che non smette di percorrere il mondo e ci permette di confrontarci fotograficamente con le questioni del territorio, la maniera dell’uomo di creare o distruggere, le storie di sopraffazione scritte dall’economia, l’effetto delle nostre azioni sulla natura, intesa sempre come bene comune. 

Perché, dopotutto, la domanda che pone la fotografia di Salgado è sempre dove?, e determinare il luogo è comprendere il senso della narrazione dell’altro.

«Avevo già capito una cosa di questo Sebastião Salgado: gli importava davvero della gente. Dopo tutto questa umanità è il sale della terra». 

 

 

TEDx – Sebastiao Salgado

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