Nudi, come mamma ci ha fatti

Mi ha sempre colpito pensare a che cosa succeda sulla nostra pelle una volta che ci siamo procurati una ferita. Piccole cellule operaie iniziano a preparare il cemento mentre altre si armano di pala e mattoni per andare a chiudere la ferita. Un’immagine un po’ particolare, forse, eppure mi ricorda quando da bambino sognavo di diventare un muratore creando castelli di sabbia in riva al mare o fantasticavo di progettare una casa tutta mia su un albero in giardino. Ero pieno di entusiasmo in quei momenti e così, anche le cellule, si mettono in moto per ricostruire una casa un po’ diversa, ma forse la più importante: la pelle del mio corpo. E lo fanno in modo veloce e preciso: almeno loro, al mio corpo, un po’ ci tengono. Un po’ tanto.

Spesso, se ci guardiamo allo specchio, c’è qualche parte di noi che assolutamente non ci piace e vorremmo avere diversa: ho un sedere troppo grande e sono senza seno per la parte femminile, sono basso e senza muscoli con i denti storti per la parte maschile, giusto per fare qualche esempio. Per non parlare di quella cicatrice che mi porto sul viso o quel segno di bruciatura sulla mano. E quel neo? Proprio lì doveva venirmi?

Un amico frate, molto arzillo e alquanto sconvolgente nei suoi modi di fare assai diretti e rivoluzionari, suggerisce sempre di fare un esercizio su se stessi: mettersi davanti allo specchio nudi, come mamma ci ha fatti, guardarsi negli occhi e poi ammirare tutto il proprio corpo lodandolo per quello che è e per quello che ci permette di vivere. Grazie occhi perché oggi ho potuto vedere la neve, grazie braccia perché oggi mi avete fatto abbracciare mamma, grazie naso grande che mi hai fatto sentire il profumo della lasagna di nonna,… e così via.

Non è affatto un esercizio semplice: richiede tempo e al giorno d’oggi vuoi perdere cinque minuti per questa stupidaggine? Inoltre,ci vuole il coraggio di saper ringraziare, ossia lo sforzo di accettare anche le parti di noi che non ci piacciono e ringraziare pure loro.

Sempre più, molte persone decidono di modificare il proprio aspetto con il mito della chirurgia plastica. Ho incontrato certe signore che a vederle sembrano finte, ma in realtà un po’ lo sono. Non solo dal punto di vista estetico, ma interiormente. Prendere la decisione di non accettare il proprio corpo e volerlo cambiare tendendo al mito della perfezione, oltre che essere un atteggiamento incarnato da Dorian Gray più di cent’anni fa (sappiamo tutti come la storia sia andata a finire), è sinonimo di falsità, di mentire a se stessi. Però, mentire a se stessi, non significa per forza essere delle brutte persone. Forse, molto più semplicemente, è sinonimo di poco amore ricevuto, di tristezza e freddo nel cuore, di qualche zona d’ombra che proprio bisogna nascondere per evitare che qualcuno possa pensare qualcosa di più elevato su noi rispetto al solo commentare la consistenza del seno o il numero di rughe che abbiamo sulla fronte.

Dietro tutto questo, non c’è solo l’apparenza di una pelle liscia e nutrita alla perfezione. Non c’è solo il sogno di una bellezza oggettiva da rincorrere. C’è l’arte di accettarsi per quelli che si è, c’è l’arte di ridere del proprio invecchiare, c’è l’arte di non guardarsi dagli occhi degli altri ma lasciarsi guardare e basta.

“La verità è che ti fa paura,

l’idea di scomparire,

l’idea che tutto quello che a cui ti aggrappi

prima o poi dovrà finire”.

I giorni passano anche per noi giovani e, sovente, rispetto alla generazioni passate, proprio non ce ne accorgiamo: come pensare di avere ventiquattro anni e non considerare minimamente l’idea di essere uomo o donna per davvero, di essere grande e maturo da avere un’età che fino a pochi anni fa era sinonimo di famiglia, di figli e di lavoro stabile per campare.

Tutto questo fa sorridere, perché molti anziani sognano di essere giovani e spesso i giovani non sognano più di essere adulti, ma si abbandonano al non crescere, a quel divertimento che non fa pensare e non ci si rende nemmeno conto di quanti anni si ha.

Mettermi nudo davanti a uno specchio mi ha donato la lacrima che scende quando a guardarmi negli occhi vedo la mia vita, il bene che ho ricevuto dai miei genitori e dagli abbracci della famiglia e le fatiche passate, seppur banali per molti (ma sempre fatiche erano). Guardare la mia pancia mi ha fatto rievocato tutte le torte di compleanno mangiate,l’osservare le mie cicatrici tutte le ferite che mi hanno portato fino a qui.

Ecco, il mio corpo parla di me, di chi sono e dei momenti vissuti. Il mio corpo ha l’arte di curare le ferite profonde da sé, con quelle cellule operaie che tanto mi fanno ancora sognare. Il mio corpo sono anche io e se c’è una cosa che Giampy mi ripete spesso, e sulla quale faccio molta fatica, è rimanere fedeli a se stessi.

Il corpo non l’ho scelto e non c’è libertà più grande di accettare le cose che ci sono state date. Il corpo è come un biglietto da visita, ma dietro c’è molto di più che vale la pena conoscere. Il corpo ha una sua dignità, forse è l’ora di ridare dignità al corpo del prossimo uscendo dalla mentalità che ognuno pensi solo a se stesso e non alla dignità della persona che ha di fronte: chi svende spesso cerca amore vero, non piacere.

E così, anche il corpo di Giampy, rannicchiato e un po’ storto, è un dono immenso da ringraziare per la sua imperfezione perché è il biglietto da visita di una persona libera e che, nonostante tutto, ha il coraggio di ascoltare, di ridere e di farmi ad arrivare a scrivere tutto questo, con il solo sguardo di chi guarda amando, di chi guarda dentro, di chi guarda l’altro in potenza di chi l’altro possa essere.

Arrivare a questa profondità richiede molto tempo, è un allenamento quotidiano, ma l’amore per se stessi e per il proprio corpo ha completamente trasformato Giampy: perdonare le proprie gambe che non gli permettono di camminare e perdonare le proprie mani che non gli permettono di afferrare una fetta di torta non è stato facile. Accettare il proprio corpo e i ricordi a cui rimanda è un primo passo da compiere per restare fedeli alla propria natura, come aprire una serratura a forma di cuore per arrivare al centro della propria anima.

E’ stato un dono grande conoscere una donna che ha svenduto il proprio corpo ed è riuscita a perdonarsi accettando di nuovo la propria sessualità. Perdonare tutto è la libertà della fedeltà a se stessi e poi, come d’incanto, la propria vita sembra rinascere.

Insomma, una delle prime realtà da guardare così com’è per non mentire a se stessi è il proprio corpo. E poi, d’un tratto, ci si riconosce bellissimi nonostante se stessi, nonostante il proprio corpo e magicamente anche tutto quello che ci circonda ci sembra inizi a cambiare e a sembrare più bello.

Provare per credere, per intanto buona visione.

 

Il tesoro nascosto

C’è un’esperienza che prima o poi tocca a tutti ed è l’esperienza del limite. Un limite economico, un limite fisico o un limite comportamentale sono tutti confini che tracciano una separazione tra quanto si vorrebbe e quanto in realtà si può. C’è chi vorrebbe partire per una vacanza domani, ma non se lo può permettere. Chi desidererebbe avere un naso diverso, però è impossibile cambiare quanto madre natura gli ha donato, chi sognerebbe di mangiare una crostata con le proprie mani però ha bisogno dell’aiuto di qualcuno altro per non buttarsela tutta addosso a causa della sua diversità fisica.
Eppure, in sé, l’esperienza del limite è educativa e salvifica: quante volte mamma e papà hanno detto “No!” a qualche idea che si aveva da bambini col solo fine di proteggere il nostro bene?
Certo, può apparire estremo collegare questa esperienza adolescenziale con gli esempi di limite economico o fisico sopra riportati.
D’altra parte, se riportiamo il tutto a livello personale, il nocciolo della questione è lo stesso: saper accettare un “No!”, di qualsiasi natura esso sia, non è mai facile per l’essere umano; un semplice “No!” è un impedimento al raggiungere lo stato desiderato e che illumina la realtà dei fatti, anche quando non si vorrebbe che fossero tali.
Molte volte costa tanta fatica superare il proprio orgoglio ed ammettere la verità con sé e con gli altri. È un cammino impervio, ma vale la pena trovare il tesoro nascosto nel proprio cuore. Infatti, quando lo scoglio dell’orgoglio viene superato, non c’è niente di più liberatorio che mostrare la propria autenticità, o per meglio dire, che essere se stessi.

Giampy, che cos’è per te l’autenticità? 

L’autenticità è qualcosa che riguarda la tua vera essenza, potrei definirla anche come una melodia interiore che ti caratterizza oppure come una sorta di imprinting dell’anima che rappresenta la parte più vera di te. Quando cresciamo cominciamo a definirci, a crearci dei punti di riferimento, a valutare cosa sia giusto o cosa sia sbagliato. Cominciamo ad assorbire una serie di condizionamenti dall’ambiente familiare e sociale intorno a noi che giorno dopo giorno influiscono sull’espressione della nostra autenticità. Però, autenticità non è spontaneità. Non è fare ciò che ci pare e piace in qual si voglia momento. Autenticità è sapere stare nel proprio posto nel mondo essendo se stessi e rispettando gli altri.

In un mondo basato su efficienza e perfezione, come e perché bisognerebbe essere autentici?

Certo, è un compito arduo essere autentici in una cultura che ci impone modelli irraggiungibili che ci mettono a confronto con il dover essere perfetti, adeguati e sempre all’altezza della situazione. Ma essere autentici significa proprio questo, correre il rischio di scegliere di essere veri, anziché apprezzati. Significa uscire dalla nostra zona di sicurezza esprimendo le nostre idee, esternando le nostre opinioni, condividendo le nostre creazioni, pur sapendo che saremmo criticati, attaccati o emarginati per questo.
Perché dietro la nostra maschera c’è una forza costruttiva che non aspetta altro che uscire fuori. E quando entriamo in contatto con essa, accettandola e riconoscendola, troviamo il coraggio di prendere la responsabilità della nostra vita, cominciando a cambiare il nostro mondo e, soprattutto, portando nel mondo la nostra unicità.

Non mi sembra facile essere sempre autentici, soprattutto non mi sembra possibile trovare la propria autenticità e mantenerla per sempre. Si cresce, si cambia, si vivono esperienze forti, ma come si può tornare ogni volta al proprio centro?

L’abbiamo detto prima. Autenticità non è essere perfetti, non è guardare sempre e solo il mezzo bicchiere pieno, ma affrontare anche il bicchiere mezzo vuoto e, quindi, autenticità è anche perdonarsi. L’autenticità richiede, anche e soprattutto, di accettarci incondizionatamente, coltivando il coraggio di essere imperfetti e vulnerabili.
Il contatto con la nostra parte autentica ci guida verso la scelta di esperienze che per noi sono possibili e accettabili e ci allontana da quelle che, al contrario, dobbiamo evitare perché portatrici di disagio e malessere.
Il guardarci dentro, a occhi aperti, cercando di dare un nome a come ci sentiamo, momento per momento, ci permette di compiere delle scelte autentiche. Ci permette di decidere di liberarci di desideri, credenze e illusioni che non ci appartengono. Soprattutto, ci permette di prenderci la responsabilità di non fingere, di non cercare di essere qualcosa che non siamo.
Già, perché l’autenticità non è una qualità che si ha o non si ha. È qualcosa che va costruito attraverso le scelte consapevoli che compiamo ogni giorno.
Per tornare alla propria autenticità basta un po’ di silenzio, tanta umiltà e il coraggio di far parlare i desideri che si portano nel cuore: se senti che nella tua vita manca qualcosa, che le cose non vanno come vorresti, che hai fatto delle scelte che non ti stanno rendendo felice, vuol dire che ti stai allontanando sempre di più dal manifestare la tua autenticità e già ammettendo questo a te stesso stai tornando alla tua autenticità. Ammetterlo al mondo è il ritorno ad essere te stesso.

J-AX, in una canzone grido di liberazione, ripercorre un po’ la ricerca della propria autenticità. Rievoca la necessità di tirare il freno, del voler piacere a tutti a tutti i costi «perché fare roba nuova se la gente già t’adora e alla fine si innamora solo della novità» e dell’orgoglio che impedisce di accettare se stessi per paura di perdere il proprio status quo «che quando hai visto il mondo dalla cima, dopo sei intrappolato al top come un topo».
Dopo questi primi versi di consapevolezza, le parole si perdono per poi articolarsi nella parte peggiore del viaggio, ovvero il tratto che costa più fatica: guardare indietro «ho ascoltato la mia roba come mai ho fatto prima» e dirsi la verità su tutto, anche su quelle cose o su quelle persone su cui si appoggia la quotidianità: «e quello che credevo fosse un mio fratello vero, due bambini che da zero, hanno messo su una gang, l’amicizia che è finita come sempre nella vita, per le donne, la politica, l’orgoglio e il vile cash».
Ed ecco, però, che d’improvviso si rinasce a vita nuova, si rinasce per se stessi e non c’è atto più generoso di questo: riscoprire se stessi e riscoprirsi bisognosi della relazione con l’altro per esprimere tutta la propria umanità. Non una sudditanza, ma un’inutile libertà di accettare e di accettarsi, di amare e lasciarsi amare. Di essere autentici e accogliere l’autenticità altrui.

«Ricominciare da meno di zero 
E finalmente sollevare il velo
E raccontarmi veramente
Non l’immagine vincente che la gente prova a vendere
di sé
»

L’autenticità non è qualcosa da aggiungere a chi sei né riguarda un obiettivo da raggiungere, ma è solo qualcosa da ricordare a se stessi in ogni momento e circostanza. Insomma, l’autenticità è un tesoro nascosto da custodire a cielo aperto.

Perché non provi a gridare anche tu?

 

Ci sono muri che parlano per la propria storia, per il proprio significato o per l’intento col quale vengono costruiti. Dal Muro di Berlino al Muro del Pianto di Gerusalemme fino ai muri anti-migranti dell’est Europa, ogni muro è simbolo di un’identità nascosta che si cela dietro i costruttori: c’è chi il muro l’ha pensato per dividere una nazione in due aree con influenze politiche differenti, chi l’ha costruito come unione tra Cielo e Terra e infine chi l’ha edificato per dividere e impedire il passaggio di persone.
Questi sono solo i muri più conosciuti, ma sono tanti quelli che passano inosservati e nascondono l’urlo di una generazione che non riesce ad esprimersi se non celando le parti più fragili di sé dietro lo schermo di un cellulare per mostrarsi perfetta sulle foto di ogni social network.
“La vita è ciò che succede mentre stai guardando il tuo smartphone” è una frase che circola in rete da parecchio tempo ed è sempre attuale, ogni giorno di più. La dura verità è che molto spesso si preferisce lo schermo a una relazione interpersonale o si crede possibile il coltivare una conoscenza via internet. Per fortuna, di fronte allo schermo di un cellulare, si nasconde sempre un essere umano con la propria storia e, prima o poi, sarà la coscienza personale a richiamare ogni uomo alla propria vera natura interpersonale.
Tendenzialmente, la necessità di una relazione con un’altra persona si manifesta principalmente nel momento del bisogno, ovvero nel momento in cui si urla o si grida per chiedere aiuto. Un bambino, appena nasce, piange: il grido è l’inizio della vita dell’uomo sulla Terra. Tra un urlo e un grido grande è la differenza; infatti, un urlo non è un grido, perché anche se sottintende e manifesta uno stato di disagio, è privo di un destinatario che sappia accogliere questo urlo. E così, dopo l’effimera leggerezza di un gesto di ribellione fine a se stesso, l’angoscia ritorna nel cuore dell’urlante perché nessuno ha potuto intercettare il suo bisogno. Ben altra cosa invece è gridare. Gridare esprime il desiderio di farsi sentire, ma ha un tu, una controparte che è destinataria del grido, ovvero il verbo gridare richiede la presenza di una relazione con un’altra persona che ascolta. Non importa se esso è un grido di gioia o di dolore, chiaro è che si confida nella persona posta di fronte e nella sua attenzione nei nostri confronti.
Soprattutto in età adolescenziale, molte sono le urla eccentriche che esprimono la necessità di essere riconoscibili, ovvero portano con sé il desiderio di essere visti e sentirsi compresi da qualcun altro, anche se quel qualcun altro non c’è. Urlare, in questo tempo, esprime la necessità di una generazione che ha fatto dei social network la realtà per sentirsi apprezzati, quasi come a voler cercare conferma delle proprie scelte nei “mi piace” espressi dagli altri utenti sulle immagini seducenti che vengono pubblicate. D’altronde, sedurre è diventano un motivo di orgoglio e l’arte del corteggiamento si è trasformata nel dovere dell’attrazione. Portare a sé le altre persone al fine immediato di farle proprie è l’emblema del cinico e del tutto e subito che veleggiano nella società dell’iper-mercato di cui siamo figli. Ogni offerta che ci viene presentata dai venditori è a scadenza, una sorta di ora o mai più, quasi a voler raccontare che non ci sarà altra possibilità se non adesso per cambiare operatore telefonico o per acquistare quel paio di scarpe. E così molto spesso succede che anche le relazioni con le altre persone diventino effimeri incontri pronti a soddisfare qualche piacere o vuoto interiore e, non mostrandosi per quel grande dono che realmente ogni essere umano è, ciascun aspetto personale fragile e vulnerabile viene celato dietro un trucco dettagliato o una personalità del “io posso tutto”, per poi ritrovarsi a urlare soli quando si ritorna a casa.
Cesare Cremonini in Marmellata#25 canta di vivere in una casa buia e desolata dopo la fine di una relazione d’amore, come se lo spazio in cui vive non abbia più senso da quando lei se n’è andata. Per il cantautore non restano che i ricordi di una giovinezza passata che diventa rimpianto perché manca tutto quel che dava compimento alla giornata: da quando Senna non corre più, da quando Baggio non gioca più, da quando mi hai lasciato pure tu… Non è più domenica. Le strofe della canzone non sono altro che delle urla nel vuoto, sono dei pensieri passati che ritornano e che portano il cantante bolognese a immaginare la sua amata dove non c’è. Proprio come lo schermo del cellulare che sembra possa raccontare un mondo diverso, un luogo dove è possibile esprimersi e mostrarsi perfetti quando in realtà basta uno sguardo a tu per tu negli occhi di un’altra persona per riscoprirsi piccoli e indifesi, sempre che si abbia il coraggio di stare negli occhi dell’altro e non scappare.
Questo disagio, dato da un senso non trovato, da una storia di amore finita o dal sentirsi incompresi, porta al male più grande che è tenere per sé il tempo da dare all’amore perché è l’amore l’unica salvezza per farci tornare ad essere umani. Quando il male sembra avere l’ultima parola, quando tutto sembra remare contro, “due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (Italo Calvino, Le città invisibili).
Il primo passo per riconoscere chi o che cosa non sia inferno è riconoscere se stessi, i propri talenti e i propri limiti, evitando di cadere nella fossa infernale del coprire quelle parti di sé che non rendono riconoscibili. Il dono che ogni essere umano possiede per riconoscere se stesso è la propria diversità, ovvero l’originalità di ognuno di far fiorire i propri talenti stando nella propria storia, nel proprio tempo, nei propri difetti fisici e nei propri limiti. Scoprirsi e accettarsi diversi è saper amare in primis se stessi, è scoprire ciò che non è inferno in se stessi acquisendo così il coraggio di poter dialogare e gridare ad un’altra persona la propria vulnerabilità senza la necessità di mostrarsi forti. Anzi, si scopre che nella totale debolezza della propria fragilità si è forti perché si inizia ad amare se stessi e, relazionandosi con gli altri nella propria originalità, ad amare quella giornata che, come ricorda Marmellata#25, non ha più senso. O, per meglio dire, non aveva più senso.
La diversità è un dono che è stato fatto all’essere umano ed è un dono da difendere e da rispettare. Non solo la diversità culturale, ma la diversità singolare di ogni persona che la rende totalmente differente dalle altre 80 miliardi di persone che sono passate sul nostro pianeta. Gridare e relazionarsi con gli altri nella propria originalità, ripartendo dai propri limiti, è uno spazio di libertà che ognuno di noi ha, a prescindere dagli sbagli o dai difetti che porta con sé ed è una libertà da difendere per la dignità di ciascuno.
Il muro dei social network segna un confine terribile tra la dignità umana di essere originali nella concretezza quotidiana e la necessità di apparire perfetti. Questo non significa che i social network siano mala cosa, ma, nel momento in cui si trasformano in scappatoia per riempire la necessità di sentirsi apprezzati, diventano uno strumento che rinnega la propria identità e che porta ad assumere la maschera di se stessi per sentirsi un po’ più amabili, quando in fondo il desiderio è sentirsi un po’ più amati.
Giampy è diverso. La sua diversità è una disabilità grave, ma qualcuno o qualcosa ha trasformato anche questo in bellezza. Riconoscersi disabile e ammettere la propria incapacità motoria di fronte ai propri compagni di scuola è stato per Giampy uno scoglio quasi insormontabile. Di fronte ai compagni che giocavano a nascondino lui non poteva fare altro che rimanere seduto a guardare in disparte e dentro di lui non nascevano che urla di ribellione e non accettazione. Grazie ai genitori e agli amici più stretti, col tempo, Giampy è diventato adulto e ha affrontato se stesso e la propria realtà fisica gridando a un interlocutore. Questo interlocutore è stato così bravo da trasformare questa sua sofferenza in originalità, questo suo disagio in ricchezza da donare agli altri. In fin dei conti anche Cremonini canta di aver trovato la marmellata che rappresenta il sapore dolce della vita e che la sua fidanzata gli nascondeva. Ma proprio qui si nasconde il mistero della vita. Antoine de Saint-Exupery scriveva che “ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c’è un nuovo inizio”.
Proprio questa ora è l’originalità di Giampy: raccontare il sapore dolce della vita nelle scuole nonostante se stesso. Nello stesso modo con cui si rivolge ai giovani studenti, si è rivolto a me durante una passeggiata in una sera estiva: “Perché non provi anche tu a gridare la tua originalità?”.
La relazione con le altre persone pone le basi per un dialogo in cui si può gridare e lasciare parlare ogni parte di sé, non solo quelle che si ritengono migliori. Dialogare accettando il grido rompe il silenzio in cui si rischia di marcire, perché la quiete interiore è l’equilibrio tra un grido che esteriorizza e uno sguardo di meraviglia che interiorizza.
Non c’è equilibrio perpetuo per nessuno o facile da raggiungere, ma dialogare con un amico apre porte che nel pensiero erano completamente sigillate. Dialogare permette di scavalcare muri e il muro che la nostra diversità ci chiama a superare è quello dello schermo. Schermo che riflette e che maschera, schermo che si pone tra una persona e la realtà. Senza schermo ogni essere umano è se stesso senza protezione ma, dopo tutto, la vita ha sempre il miglior copyright.

Il dono di essere umani

Giampy ha 47 anni, lavora presso gli uffici amministrativi di un’azienda ospedaliera ed è molto goloso, ma è a dieta perché la sua pancia sta iniziando a prendere una forma sempre più tondeggiante. Abita in una villetta a schiera alle porte di Cuneo e, dopo esserci incontrati un paio di volte, abbiamo deciso di dare vita a questa rubrica.

Ogni merenda trascorsa insieme abbiamo bevuto un caffè e, mentre Giampy si tratteneva dall’avventare qualche biscotto che era in tavola, indispettito dal mio abbuffarmi, abbiamo riso e scherzato, prendendoci più volte in giro quasi a voler smascherare i dettagli più imbarazzanti dell’uno e dell’altro.

Ogni volta mi sorprendevo di più nel vedere il suo volto stropicciarsi sotto gli occhi per le contagiose risate: come può un uomo che convive con un ladro essere così felice? Ciò che mi lasciava ancora più scosso era l’identità del ladro. Questo “bastardo” che ha rubato a Giampy il suo essere sano si chiama Grave Tetrapresi Spastica e si impadronì di lui quando aveva appena 6 mesi; ormai il fisico di Giampy è compromesso e per muoversi ha bisogno di una sedia a rotelle e di amici che la spingano. Eppure, il suo umorismo sottile e la sua capacità di affrontare con leggerezza (che non è menefreghismo) questa non desiderata convivenza mi hanno affascinato perchè in fondo desidero anch’io essere felice e avere la capacità di ridere di me stesso.

Come può un uomo impossibilitato a camminare guardare con gioia e spensieratezza alla propria vita mentre io che sono sano, con una famiglia unita alle spalle e con la possibilità di studiare all’università, ho gli occhi spenti e mogi o persi nel nulla?

Ogni giorno si sentono diverse voci che invocano a una vita piena, semplice e di immediata realizzazione: dalla pubblicità in televisione alle feste notturne in discoteca, tutto sembra parlare di godimento e successo. Sono voci continue, seducenti, che diventano voci nella testa e voci contro il tempo. Sono voci di grande distribuzione, indirizzate a ciascuno, ma sono voci urlate senza nomi.
Tutte queste voci, però, non bastano a se stesse, non durano a lungo e condannano a cercare subito un’altra voce per sopperire al vuoto che lasciano. Non è sufficiente un nuovo cellulare per soddisfare il desiderio di essere accolti, non è la soluzione una serata di sbronza facile per sentirsi più sicuri di sè.
Nel mondo dell’ipermercato, dove tutto si compra e si consuma, manca la tua voce canterebbe Zucchero. La tua voce che aiuta a convivere con le difficoltà quotidiane e che fa gioire per quello che si ha, senza bisogno di riempire vuoti su vuoti con le soluzioni più disparate tese a un continuo sconforto.

Chissà quante voci nella propria vita Giampy ha ascoltato per trovare un senso alla sua paralisi. Chissà quante volte Giampy si è domandato perché quel ladro abbia scelto proprio lui, perché persone che hanno 47 anni possono avere una famiglia e lui non può neanche concedersi una passeggiata in un prato.
Dare una risposta a queste domande è impossibile e non esiste una voce facile che suggerisca una soluzione.
Giampy, nel suo passato, ha seguito molte voci che spostavano l’attenzione su qualcos’altro per qualche momento, ma come queste passavano la paralisi era, e tutt’ora è, ancora lì.
Ci sono certe domande le cui risposte sono inottenibili come esseri umani. E la difficoltà più grande di un essere umano è la convivenza con certe questioni in sospeso che si portano nel cuore.
Un professore di filosofia di Lovagno, all’inizio di ogni corso universitario che teneva, scriveva alla lavagna: “L’uomo è un animale inquieto, se non è inquieto è solo un animale”. Coesistere con alcuni punti interrogativi è natura umana, è un dono per l’essere umano tanto da permettergli di essere più di un animale, ovvero di abitare consapevolmente il proprio tempo e la propria storia a partire dalla propria natura essenziale.

Giampy di fronte alla propria malattia ha passato dei momenti di grande abbattimento e di rabbia estrema. Ha avuto grandi difficoltà ad accettarsi, finchè qualcuno non gli ha sussurrato nell’orecchio “Non è colpa tua e, nonostante tutto, vai bene così”.
Quel “vai bene così” ha salvato Giampy, che è riuscito a trovare una soluzione a tutti i suoi interrogativi in un semplice atteggiamento: stare. Stare chiamando per nome la propria disabilità come una mamma che non smette mai di chiamare per nome il proprio figlio. Stare ammettendo i propri problemi fisici e non cercando di scappare dal proprio corpo rifiutandolo, come una mamma che ha una voce più sottile e meno rumorosa di tante altre, ma che non ha paura di dire sempre la verità anche quando può essere difficile.

Il coraggio di stare nella propria umanità, di dire “Eccomi” ad ogni nuovo giorno, nonostante non potesse scendere da solo dal letto, è stata per Giampy un’ardua conquista, fatta di pianti e di momenti di abbattimento. La forza di non porre la propria paralisi al centro di ogni suo pensiero e azione, ma di rilegarla a una compagna a cui non spetta il ruolo da protagonista, è arrivata anche grazie agli amici, ai familiari e alle persone incontrate durante le strade della vita. D’altronde, per natura l’uomo è un animale socievole e, da solo, in certi momenti, non è per lui facile stare nelle proprie domande. Anzi, è quasi impossibile perchè l’essere umano non è sufficiente a se stesso: ha bisogno di essere amato. Ha bisogno di sapere che vale, che è riconosciuto per i suoi talenti e che nonostante i suoi difetti, fisici o meno, è degno di sentirsi voluto bene.

Uscendo dalla stanza di Giampy, si scorge una piccola stampa che riporta una frase: “Solo i malati guariscono” che è il titolo di un libro di Luigi Maria Epicoco.
Stare in se stessi, nei propri limiti e nelle proprie complessità quotidiane è più che scomodo. Spesso non si riesce e si cerca rifugio altrove, ma l’essere umano non si sente mai a casa fin quando non si riconcilia con il proprio umano, ammettendo la propria umanità con il coraggio di essere umano: non può esserci guarigione per chi non si considera malato perché troppo convinto a convincersi o a convincere di essere perfetto o giusto.

Giampy ormai è guarito, non fisicamente, ma giorno dopo giorno trova il coraggio di essere umano, di essere fragile e vulnerabile, di amare e lasciarsi amare nonostante la Grave Tetrapresi Spastica e grazie a questa sua grande grazia è rinato perché, come scrive ancora Luigi Maria Epicocco, “se non accetti la fragilità del tuo essere vulnerabile non potrai mai sperimentare nemmeno la guarigione. Per questo solo i malati guariscono”.

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