Ci sono muri che parlano per la propria storia, per il proprio significato o per l’intento col quale vengono costruiti. Dal Muro di Berlino al Muro del Pianto di Gerusalemme fino ai muri anti-migranti dell’est Europa, ogni muro è simbolo di un’identità nascosta che si cela dietro i costruttori: c’è chi il muro l’ha pensato per dividere una nazione in due aree con influenze politiche differenti, chi l’ha costruito come unione tra Cielo e Terra e infine chi l’ha edificato per dividere e impedire il passaggio di persone.
Questi sono solo i muri più conosciuti, ma sono tanti quelli che passano inosservati e nascondono l’urlo di una generazione che non riesce ad esprimersi se non celando le parti più fragili di sé dietro lo schermo di un cellulare per mostrarsi perfetta sulle foto di ogni social network.
“La vita è ciò che succede mentre stai guardando il tuo smartphone” è una frase che circola in rete da parecchio tempo ed è sempre attuale, ogni giorno di più. La dura verità è che molto spesso si preferisce lo schermo a una relazione interpersonale o si crede possibile il coltivare una conoscenza via internet. Per fortuna, di fronte allo schermo di un cellulare, si nasconde sempre un essere umano con la propria storia e, prima o poi, sarà la coscienza personale a richiamare ogni uomo alla propria vera natura interpersonale.
Tendenzialmente, la necessità di una relazione con un’altra persona si manifesta principalmente nel momento del bisogno, ovvero nel momento in cui si urla o si grida per chiedere aiuto. Un bambino, appena nasce, piange: il grido è l’inizio della vita dell’uomo sulla Terra. Tra un urlo e un grido grande è la differenza; infatti, un urlo non è un grido, perché anche se sottintende e manifesta uno stato di disagio, è privo di un destinatario che sappia accogliere questo urlo. E così, dopo l’effimera leggerezza di un gesto di ribellione fine a se stesso, l’angoscia ritorna nel cuore dell’urlante perché nessuno ha potuto intercettare il suo bisogno. Ben altra cosa invece è gridare. Gridare esprime il desiderio di farsi sentire, ma ha un tu, una controparte che è destinataria del grido, ovvero il verbo gridare richiede la presenza di una relazione con un’altra persona che ascolta. Non importa se esso è un grido di gioia o di dolore, chiaro è che si confida nella persona posta di fronte e nella sua attenzione nei nostri confronti.
Soprattutto in età adolescenziale, molte sono le urla eccentriche che esprimono la necessità di essere riconoscibili, ovvero portano con sé il desiderio di essere visti e sentirsi compresi da qualcun altro, anche se quel qualcun altro non c’è. Urlare, in questo tempo, esprime la necessità di una generazione che ha fatto dei social network la realtà per sentirsi apprezzati, quasi come a voler cercare conferma delle proprie scelte nei “mi piace” espressi dagli altri utenti sulle immagini seducenti che vengono pubblicate. D’altronde, sedurre è diventano un motivo di orgoglio e l’arte del corteggiamento si è trasformata nel dovere dell’attrazione. Portare a sé le altre persone al fine immediato di farle proprie è l’emblema del cinico e del tutto e subito che veleggiano nella società dell’iper-mercato di cui siamo figli. Ogni offerta che ci viene presentata dai venditori è a scadenza, una sorta di ora o mai più, quasi a voler raccontare che non ci sarà altra possibilità se non adesso per cambiare operatore telefonico o per acquistare quel paio di scarpe. E così molto spesso succede che anche le relazioni con le altre persone diventino effimeri incontri pronti a soddisfare qualche piacere o vuoto interiore e, non mostrandosi per quel grande dono che realmente ogni essere umano è, ciascun aspetto personale fragile e vulnerabile viene celato dietro un trucco dettagliato o una personalità del “io posso tutto”, per poi ritrovarsi a urlare soli quando si ritorna a casa.
Cesare Cremonini in Marmellata#25 canta di vivere in una casa buia e desolata dopo la fine di una relazione d’amore, come se lo spazio in cui vive non abbia più senso da quando lei se n’è andata. Per il cantautore non restano che i ricordi di una giovinezza passata che diventa rimpianto perché manca tutto quel che dava compimento alla giornata: da quando Senna non corre più, da quando Baggio non gioca più, da quando mi hai lasciato pure tu… Non è più domenica. Le strofe della canzone non sono altro che delle urla nel vuoto, sono dei pensieri passati che ritornano e che portano il cantante bolognese a immaginare la sua amata dove non c’è. Proprio come lo schermo del cellulare che sembra possa raccontare un mondo diverso, un luogo dove è possibile esprimersi e mostrarsi perfetti quando in realtà basta uno sguardo a tu per tu negli occhi di un’altra persona per riscoprirsi piccoli e indifesi, sempre che si abbia il coraggio di stare negli occhi dell’altro e non scappare.
Questo disagio, dato da un senso non trovato, da una storia di amore finita o dal sentirsi incompresi, porta al male più grande che è tenere per sé il tempo da dare all’amore perché è l’amore l’unica salvezza per farci tornare ad essere umani. Quando il male sembra avere l’ultima parola, quando tutto sembra remare contro, “due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (Italo Calvino, Le città invisibili).
Il primo passo per riconoscere chi o che cosa non sia inferno è riconoscere se stessi, i propri talenti e i propri limiti, evitando di cadere nella fossa infernale del coprire quelle parti di sé che non rendono riconoscibili. Il dono che ogni essere umano possiede per riconoscere se stesso è la propria diversità, ovvero l’originalità di ognuno di far fiorire i propri talenti stando nella propria storia, nel proprio tempo, nei propri difetti fisici e nei propri limiti. Scoprirsi e accettarsi diversi è saper amare in primis se stessi, è scoprire ciò che non è inferno in se stessi acquisendo così il coraggio di poter dialogare e gridare ad un’altra persona la propria vulnerabilità senza la necessità di mostrarsi forti. Anzi, si scopre che nella totale debolezza della propria fragilità si è forti perché si inizia ad amare se stessi e, relazionandosi con gli altri nella propria originalità, ad amare quella giornata che, come ricorda Marmellata#25, non ha più senso. O, per meglio dire, non aveva più senso.
La diversità è un dono che è stato fatto all’essere umano ed è un dono da difendere e da rispettare. Non solo la diversità culturale, ma la diversità singolare di ogni persona che la rende totalmente differente dalle altre 80 miliardi di persone che sono passate sul nostro pianeta. Gridare e relazionarsi con gli altri nella propria originalità, ripartendo dai propri limiti, è uno spazio di libertà che ognuno di noi ha, a prescindere dagli sbagli o dai difetti che porta con sé ed è una libertà da difendere per la dignità di ciascuno.
Il muro dei social network segna un confine terribile tra la dignità umana di essere originali nella concretezza quotidiana e la necessità di apparire perfetti. Questo non significa che i social network siano mala cosa, ma, nel momento in cui si trasformano in scappatoia per riempire la necessità di sentirsi apprezzati, diventano uno strumento che rinnega la propria identità e che porta ad assumere la maschera di se stessi per sentirsi un po’ più amabili, quando in fondo il desiderio è sentirsi un po’ più amati.
Giampy è diverso. La sua diversità è una disabilità grave, ma qualcuno o qualcosa ha trasformato anche questo in bellezza. Riconoscersi disabile e ammettere la propria incapacità motoria di fronte ai propri compagni di scuola è stato per Giampy uno scoglio quasi insormontabile. Di fronte ai compagni che giocavano a nascondino lui non poteva fare altro che rimanere seduto a guardare in disparte e dentro di lui non nascevano che urla di ribellione e non accettazione. Grazie ai genitori e agli amici più stretti, col tempo, Giampy è diventato adulto e ha affrontato se stesso e la propria realtà fisica gridando a un interlocutore. Questo interlocutore è stato così bravo da trasformare questa sua sofferenza in originalità, questo suo disagio in ricchezza da donare agli altri. In fin dei conti anche Cremonini canta di aver trovato la marmellata che rappresenta il sapore dolce della vita e che la sua fidanzata gli nascondeva. Ma proprio qui si nasconde il mistero della vita. Antoine de Saint-Exupery scriveva che “ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c’è un nuovo inizio”.
Proprio questa ora è l’originalità di Giampy: raccontare il sapore dolce della vita nelle scuole nonostante se stesso. Nello stesso modo con cui si rivolge ai giovani studenti, si è rivolto a me durante una passeggiata in una sera estiva: “Perché non provi anche tu a gridare la tua originalità?”.
La relazione con le altre persone pone le basi per un dialogo in cui si può gridare e lasciare parlare ogni parte di sé, non solo quelle che si ritengono migliori. Dialogare accettando il grido rompe il silenzio in cui si rischia di marcire, perché la quiete interiore è l’equilibrio tra un grido che esteriorizza e uno sguardo di meraviglia che interiorizza.
Non c’è equilibrio perpetuo per nessuno o facile da raggiungere, ma dialogare con un amico apre porte che nel pensiero erano completamente sigillate. Dialogare permette di scavalcare muri e il muro che la nostra diversità ci chiama a superare è quello dello schermo. Schermo che riflette e che maschera, schermo che si pone tra una persona e la realtà. Senza schermo ogni essere umano è se stesso senza protezione ma, dopo tutto, la vita ha sempre il miglior copyright.