Intevista a Fabio Geda e Marco Magnone – SIC 2016

Berlin è una saga d’avventura scritta da Fabio Geda e Marco Magnone, che narra le vicende di alcuni giovani della Berlino Ovest degli anni ’70, abbandonati ad una condizione di totale isolamento in un mondo senza adulti, sterminati da un virus che ucciderà gli stessi bambini e ragazzi una volta compiuti i 16 anni.

Tre dei sette libri che compongono la saga sono già in commercio e hanno ottenuto enorme consenso tra giovani e adulti.

Abbiamo incontrato i due autori a Scrittorincittà e non abbiamo saputo fare a meno di cercare di scoprire qualcosa in più di questo nuovo fenomeno editoriale.

http://oubliettemagazine.com/wp-content/uploads/Berlin.-I-fuochi-di-Tegel.jpgNella foto, la copertina del primo episodio sella saga.

 "È la prima esperienza 
 di scrittura per ragazzi
per entrambi".

Cosa significa per Fabio Geda e Marco Magnone scrivere un libro per ragazzi? Quali sono gli accorgimenti necessari? La risposta del pubblico giovanissimo è stata quella che vi aspettavate?

Fabio. È la prima esperienza di scrittura per ragazzi per entrambi, dunque siamo partiti dalla scelta della fascia d’età a cui rivolgerci. Fra i sette e i sedici anni le competenze dei ragazzi come lettori, la loro curiosità rispetto al mondo, il loro rapporto con l’oggetto-libro si modificano molto. Ad esempio, scrivere per un bambino di otto anni prevede che si sappia quale tipo di ironia, quale comicità possa piacergli, cosa possa fargli paura e cosa no. Sono sincero: io e Marco non eravamo sicurissimi di quale sarebbe stato il nostro pubblico, quindi abbiamo letto molti libri per ragazzi e abbiamo cercato di trovarvi una nostra strada.

Sono molte le variabili che compongono il fatto che un libro piaccia o non piaccia a dei ragazzi: c’è lo sguardo sul mondo, anzitutto, ma anche la scrittura, la struttura e il montaggio della storia… Noi, ad oggi, sappiamo che la storia piace molto, ma abbiamo anche capito che la struttura può essere troppo complessa per i nostri lettori più piccoli; allo stesso tempo però il basso livello di violenza e erotismo di questi libri ci mette più in contatto con i lettori delle Scuole Medie, che con gli adolescenti più grandi. Insomma, abbiamo scoperto che la nostra saga piace molto ai ragazzi della seconda e della terza Media, e poi agli adulti, che riescono a cogliere gli elementi storici e poetici che i più piccoli difficilmente individuano.

" ⌊...⌋ quando sono tornato in Italia
ho portato con me un bagaglio
di sentimenti e passioni per una città
che mi ha travolto e ha continuato a nutrirmi per anni."

Avete dichiarato che Berlin è nato anche da una ripetuta lettura del Signore delle mosche di WIlliam Golding e che, nel vostro caso, non è stato necessario inventare un’“isola” nella quale ambientare la vicenda, poiché la Berlino Ovest degli anni ’70 poteva rappresentarne una realmente esistita: come vi siete documentati e preparati per raccontare una storia complessa come quella quotidiana di una Berlino divisa dal muro?

Marco. Nel momento in cui abbiamo scelto di ambientare la storia a Berlino (su proposta di Fabio), poiché luogo adatto a rimettere in circolo l’archetipo letterario del mondo senza adulti, mi sono chiesto come fare a rendere credibile la descrizione della capitale tedesca e non farne una Torino o una Milano a cui attaccare sopra solo un’etichetta con scritto Berlino.

Ci siamo mossi su più livelli. Io ho vissuto, studiato e lavorato a Berlino per due anni e quando sono tornato in Italia ho portato con me un bagaglio di sentimenti e passioni per una città che mi ha travolto e ha continuato a nutrirmi per anni. È una questione estetica (Berlino ha un fascino notturno che poche altre città hanno), che nasce però in realtà dalla sua storia, dal fatto che è stata distrutta, divisa, ricostruita e ogni volta è ripartita da capo.

Ci siamo poi aiutati con ricerche sul campo: almeno una volta all’anno torniamo a Berlino e proviamo qualunque esperienza fisica dei nostri personaggi; ad esempio, cronometriamo i loro spostamenti da un luogo all’altro di cui parliamo o confrontiamo i luoghi attuali con foto degli anni ’70. Insomma, compiamo dei sopralluoghi. Tutto ciò può dare credibilità fisica e spaziale.

Per quel che riguarda i dati storici, cerchiamo di inserirli come ancore o ramponi per dare corpo alla piccola storia dei nostri personaggi. Rispetto alla cultura del tempo ci aiutiamo con le altre storie.

Quando i nostri ragazzi supereranno il muro conosceranno giovani cresciuti a Est, allora il punto sarà raccontare con credibilità la vicenda di questi cugini cresciuti in modo così diverso. Abbiamo cercato di essere molto rispettosi di una storia non nostra. Quando una casa editrice tedesca ha comprato i diritti del libro e ci ha assicurato che la nostra storia è credibile e racconta vere storie di tedeschi, ci siamo tranquillizzati.

 

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Nella foto, la copertina del secondo episodio.

"⌊...⌋ abbiamo cercato di porre l’attenzione anche su temi esistenziali."

Come vi collocate nei confronti dell’archetipo di Golding o Faraci (Oltre la soglia)?

Fabio. Abbiamo cercato una nostra strada, passando dalla solita distopia a un’ucronia (ndr. genere della narrativa fantastica ambientato nel passato e basato sul presupposto che la Storia abbia seguito corsi diversi da quelli reali) e ambientando il romanzo non in America, ma in Europa. Inoltre, abbiamo cercato di porre l’attenzione anche su temi esistenziali, non soltanto su quelli “fisici”, come l’esigenza di procacciarci il cibo, il rapporto con l’ambiente o il conflitto con un antagonista violento.

Marco. Aggiungerei che una differenza importante rispetto all’archetipo del Signore delle mosche è forse l’assenza di una tesi. Golding scriveva che gli uomini sono portati a fare il male come le api il miele, e questo si riflette nelle sue vicende. Noi mettiamo in circolo questa possibilità, perfettamente riflessa da alcuni gruppi, ma altri si oppongono. Vedremo quale delle due forze prevarrà.

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"Nella libertà di scegliere cosa
prendere da un libro risiede la
grande democraticità della letteratura."

I bambini di cui raccontate sono destinati a morire, la loro stessa vita pare una condanna. Perché? Si tratta soltanto di una scelta utile all’economia del racconto o c’è anche dell’altro?

Fabio. Proprio nella condizione della morte certa dei bambini si colloca una riflessione sul rapporto tra qualità e quantità della vita. A dei giovani che vivono in una contemporaneità che ci induce a dare molta importanza alla durata della vita, alla durevolezza di bellezza e gioventù, si mostra la condotta di ragazzini che sanno di poter vivere al massimo qualche anno (I vostri giovani lettori possono davvero cogliere una questione così profonda?  Credo che ogni lettore colga quello che vuole e può da ogni sua lettura, questa è la grande democraticità della letteratura; con i laboratori che spesso realizziamo cerchiamo comunque di mettere in luce questo aspetto agli occhi dei giovani lettori).

Marco. Inoltre, questa è la situazione di partenza. Sarà la storia a dare le dovute risposte sulla possibile esistenza di un antidoto o sulla possibilità di riscattare questa condizione di scadenza immediata.

 

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Nella foto, la copertina del terzo episodio.

"La saga di avventura non è certo stata inventata dagli Americani!"

Berlin è una saga d’avventura, genere ad oggi più propriamente americano che europeo. Credete avrà un futuro nel nostro continente?

Fabio. Dovrebbe avere un futuro: non si capisce perché non si dovrebbe cercare una via europea alla saga d’avventura, per ragazzi e non solo. Credo certamente che sia proprio l’approccio alle storie ad essere culturalmente diverso, e sicuramente il romanzo di avventura è più connaturato al Nord America, meno all’Europa, vicino piuttosto al romanzo di formazione o a quello esistenziale. Credo però anche che sia arrivato il momento di superare questa classificazione.

Marco. Abbiamo capito ormai che la roboanza tipica con cui gli Americani costruiscono le loro storie, anche con un certo grado di conflitto alla Hunger games, funziona e si lega a grandi pubblici, grandi investimenti, per mezzo di blockbuster che partono dal libro e creano dei film. Benché non siano saghe, anche gli universi della Marvel o della DC comics, con la loro esplosione di supereroi che passano dai fumetti al cinema a netflix, ci mostrano che questa tipologia di storie funziona. Tuttavia, questa tipologia di narrazione non è certo stata inventata dagli americani: già l’immaginario greco e nordico prendeva la forma della saga, componendosi di storie orali che poi si sono codificate nei miti giunti fino a noi; c’erano già diverse storie che si intrecciavano l’una con l’altra all’interno di orizzonti definiti, c’era già il conflitto, c’era la possibilità di identificarsi con i personaggi. Non è un caso che gli Americani abbiano inventato i supereroi, in mancanza di un mito fondativo in cui identificasi. Voglio dire, come la palla è passata da un lato all’altro dell’Atlantico, non vedo perché non dovrebbe rientrare a far parte del nostro patrimonio. L’importante è non cadere nell’imitazione americana, ma trovare nel genere una nostra strada.

Quel giornalismo onestissimo

«Sogno un giornalismo moderno, indipendente da tutti, onestissimo nel più rigido e assoluto senso della parola». Parole, queste, che restano nella storia della cultura e dell’informazione e che, mai come oggi, costringono a una dolorosa riflessione. Parole pronunciate agli albori del secolo scorso da Alfredo Frassati, fondatore de La Stampa.

Ad oggi, il giornalismo e l’informazione in Italia si presentano come un unicum nella cultura europea, con caratteristiche a tutti gli effetti sui generis. Lungi dall’essere questo un vanto, purtroppo: la specificità dell’ informazione in Italia si presenta piuttosto come la tendenza al distacco da quella che è la finalità prima dell’informare, ovvero far conoscere dati veri relativi ad un fatto di cui il lettore non è testimone diretto. L’Estero ci guarda con sospetto, i meno sospettosi sono probabilmente gli Italiani.

Michele Loporcaro (Cattive Notizie, Feltrinelli), linguista italiano emigrato in Svizzera, ha cercato di analizzare il modo di fare notizia imperante in Italia; la teoria che ne scaturisce è estremamente interessante ed ha il grande valore di fomentare la coscienza critica del lettore, anche qualora questo non ne condividesse i termini.

Ciò che, secondo Loporcaro, caratterizza il giornalismo italiano è la miscelanza divagante di informazione e intrattentimento. Alla divulgazione di informazioni neutrali e oggettive, il cui fine ultimo é la testimonianza (modo di fare giornalismo che Loporcaro connota come progressista), il giornalismo nostrano avrebbe preferito una sorta di “racconto mitico”, il cui fine ultimo sarebbe scatenare la partecipazione emotiva del lettore, anziché la sua vena razionale e critica (e questo è, agli occhi del linguista, un modo altamente reazionario di informare). Creare un “racconto mitico” partendo da una serie di dati oggettivi, implica un lavoro di narrativizzazione che spesso fa appello alle componenti ancestrali-emozionali del pensiero umano: morte, sangue, amore, sesso. La notizia dunque al lettore si presenta come un coacervo di provocazioni emozionali, che poco spazio lasciano alla sua capacità razionale.

Ovviamente, il confine tra un’infomazione “colorata” di stereotipi emotivi e una reale manipolazione del dato reale è labile. Emozionare il fruitore del giornale/telegiornale/blog/libro può avere il grande vantaggio di distrarlo dal dato informativo reale. Alla base di questo meccanismo vi sono regole linguistiche e retoriche piuttosto banali, quali l’uso di ossimoro e antifrasi – si veda la tendenza a dire una cosa e il suo opposto in sequenza immediata, per annientarne il reale valore informativo – o della metafora, ad esempio calcistica, alla base del discorso politico e non solo (“siamo giunti ai calci di rigore”, in riferimento all’approvazione di una legge), o ancora allusioni a film o libri alla portata di tutti (“quattro cadaveri in cerca d’autore”, in riferimento a un caso di cronaca nera).

Il giornalismo italiano tende poi a una progressiva semplificazione. Che sia questo un valido esempio di democratizzazione della cultura e dell’informazione? Non proprio, poiché semplicità non equivale a chiarezza e, spesso, dietro forme all’apparenza semplici, si celano messaggi complessi e profondi, da cui il lettore deve essere tenuto, per così dire, alla larga.  “L’importante è una sola cosa, che non trapeli nulla mai di men che rassicurante”, diceva Pasolini nella sua celeberrima accusa alla televisione.

Distrazione, vivacizzazione, alleggerimento della portata informativa, metodi attrattivi e di captazione dell’attenzione. Basti pensare alla tendenza dei telegiornali ad affiancare notizie importanti a informazioni molto meno rilevanti, quali quelle di gossip, senza soluzione di continuità.

L’addomesticazione dei fatti complessi, infine, presenta dei caratteri piuttosto inquietanti. Essa infatti si realizza non solo attraverso la semplificazione dell’informazione di cui detto sopra, ma, molto spesso, il metodo migliore per allontanare un lettore/osservatore dalla reale partecipazione al fatto consiste nell’assuefarlo a brutte notizie o immagini violente, così da provocae il lui un senso di indifferenza.

Sarà per questo che in un’intervista rilasciata a Mario Llorca, e fruibile su youtube, Erri de Luca ha dato questo consiglio: “Quello che posso consigliare è di diffidare di qualunque versione ufficiale, di contestare e di mettere sotto analisi le parole di qualsiasi versione ufficiale. Quando dicono che fanno delle spedizioni di pace con dei soldati, beh quelle non sono spedizioni di pace: le spedizioni di pace si fanno con gli infermieri, non con i soldati. Se uno si fa imbeccare queste bugie, queste informazioni deformate dal Potere ufficiale (…) è più debole.”

Ma attenzione: eccezioni non mancano al modo, tutt’altro che oggettivo, di fare giornalismo di cui detto finora. I difensori di quel giornalismo onestissimo in cui credeva Frassati sono certamente più numerosi di quanto il sistema negli ultimi anni ci abbia consentito di vedere. Ma, soprattutto, il numero di reali “informatori” è forse destinato a crescere, anche grazie al web e ai nuovi mezzi di comunicazione.

In ogni caso sono i fruitori a fare la differenza: se consapevoli dei meccanismi che la regolano, sapranno certamente fare un uso cosciente e positivo di ciò che l’informazione italiana può ancora dare.

Simona Bianco

Orhan Pamuk, scrivo perché

Lunedì 30 novembre Orhan Pamuk, Premio Nobel turco per la Letteratura nel 2006, era al Teatro Carignano di Torino a presentare la sua ultima opera, “La stranezza che ho nella testa”. Ha divertito, entusiasmato, acceso una platea giovane e multietnica. Molti con il suo libro in mano, tanti con una penna e un foglio per appuntarsi qualche sua parola, tutti consapevoli che Pamuk sta facendo la Storia, la Storia delle Idee, regalandoci le sue, così fresche, schiette e sincere.

Alla domanda “perché scrivi?”, in un’intervista, Orhan ha risposto con queste parole, da leggere tutte d’un fiato e a voce alta:

Scrivo perché ne ho voglia.
Scrivo perché non posso fare un lavoro normale come gli altri.
Scrivo perché dei libri come i miei siano scritti e io li possa leggere.
Scrivo perché ce l’ho con voi tutti, contro il mondo.
Scrivo perché mi piace stare chiuso in una stanza tutto il giorno.
Scrivo perché non posso sopportare la realtà se non trasformandola.
Scrivo perché il mondo intero sappia che genere di vita io, gli altri, noi tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia.
Scrivo perché amo l’odore della carta e dell’inchiostro.
Scrivo perché credo più di tutto nella letteratura, nell’arte del romanzo.
Scrivo per abitudine, per passione.
Scrivo perché ho paura di essere dimenticato.
Scrivo perché apprezzo la fama e l’interesse che ne derivano. Scrivo per star solo.
Scrivo nella speranza di capire perché ce l’ho così tanto con voi tutti, con il mondo intero.
Scrivo perché mi piace essere letto.
Scrivo, dicendomi, che bisogna finire questo romanzo, questa pagina, che ho cominciato.
Scrivo, dicendomi, che è quello che tutti si aspettano da me.
Scrivo perché come un bambino credo nell’immortalità delle biblioteche e nella posizione che vi mantengono i miei libri.
Scrivo perché la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello ed esaltante.
Scrivo perché è piacevole tradurre in parole tutta questa bellezza e la ricchezza della vita.
Scrivo non per raccontare una storia bensì per costruirla.
Scrivo per sfuggire al sentimento di non potere raggiungere un luogo verso cui si aspira, come nei sogni.
Scrivo perché non riesco ad essere felice qualsiasi cosa faccia.
Scrivo per essere felice.

Flebo di fiabe

 Favola da fattoria

C’era una volta in Nonsocheluogo una grande fattoria abitata da un vecchio, un gatto ed un numero tanto elevato di galline che sarebbe bastato un incendio per sfamare l’ intero sabato del villaggio di Giacomo.

Il luogo si sarebbe dovuto chiamare gallinaio dato che non vi erano altri animali ma, poiché al vecchio non piaceva essere chiamato al paese con un nome contenente l’ immagine di quelle bestiole a lui antipatiche, si faceva chiamare fattore e la sua casa fattoria.

Essendo Colui che ci narrò tal novella amico del gallinaio, chiamò lui fattore ed essendo per la storia un dato irrilevante, parve a noi indifferente chiamare un gallinaio fattoria.

Anche se, par ingiusto ometter tale particolare, al paese il vecchiolo chiamavano fattore delle galline e la sua dimora fattoria delle galline.

Ma questo non sembra infastidirlo molto.

Quell’ uomo a forza di stare solo si era ammalato, ma non essendoci medico a Nonsocheluogo si era dovuto inventar il suo malanno.

Disse infatti un giorno a Colui, che narrò a noi, di patire di Zia acuta.

Fossimo degli psicoterapeuti potremo forse incolpar quel lutto della sorella del padre che lo colpì quando egli ancora era chiamato figlio e nipote, ma noi questo non siamo quindi ci limiteremo a riportare ciò che non trovammo sui libri di medicina: la Zia consiste nel credere di soffrire di ogni patologia finente per la sillaba zia.

Egli fu colto per convinzione dalla calvizia, dall’ avarizia, dalla balbuzia, dall’ idiozia, dalla scaramanzia, dalla sporcizia nei giorni dispari e dalla pulizia nei giorni pari ed il lavoro in giorni alterni di sporcarsi a fondo e nel ripulirsi a nuovo gli diede una grande stanchezza che lo portò all’ inerzia e questa alla pigrizia.

Quest’ ultima era una pessima dote per un uomo che aveva sposato il mestiere di custode di animali.

E dir che per una sola vocale egli sarebbe potuto essere affetto dalla costanza. Come è strana la favola, centinaia di lettere eppure ne sarebbe bastata una perché non venisse scritta e noi avremo potuto dormire questa notte.

L’ uomo se ne stava tutto il giorno a pulirsi e risporcarsi, balbettando parole idioti e ignorando completamente i lamenti delle sue bestiole.

Se solo avesse ascoltato quel co co minaccioso avrebbe capito che l’ ombra della protesta era vicina.

Le galline ogni giorno si radunavano attorno al grande contenitore del mangime sculettando come un esercito di signore con la borsa al braccio e gridavano al loro diritto di essere accudite, gridavano all’ ingiustizia.

Ma l’ ingiustizia faceva parte della malattia e così il vecchio non intervenne.

La protesta si limitava ad un forte co co o al massimo a metter 2 tuorli nello stesso guscio, erano galline che altro potevano fare?

Un giorno mentre il fattore era al paese per comprar del sapone, il gatto si accovacciò sopra il grande contenitore e miagolando si rivolse alle manifestanti:<Anch’ io son schiavo di quella malattia che colpisce il vecchio e tutte voi, son nero e per scaramanzia il padrone non mi si avvicina>.

Si mise a capo della protesta e convinse le galline ad un azione esemplare:<Insieme, facendovi forza l’ un l’ altra potete buttar a terra il gran contenitore, servitevi e diventate grasse come di vostro diritto>.

Elle allora, che mai avevano pensato tanto, si misero a spingere forte, becco contro sedere, sedere contro becco ed in un gran tonfo il mangime si rovesciò nel cortile.

Con co co di gioia si misero a banchettare allegramente riempedosi del sapor di vittoria.

La sera, quando il padrone tornò alla fattoria vide il contenitore rovesciato, spinto dall’ avarizia di dover comprare altro mangime, vinse la pigrizia, lo sollevò e lo richiuse.

Il giorno seguente ancora si formò il gran corteo e fu di nuovo il gatto a proporre l’ azione.

Le gallinelle infatti già avevano scordato la loro forza quando univano il becco al culo della compagna.

Erano galline ed hanno la testa troppo piccola per ricordare un potere tanto grande.

I giorni di rivolta ed i banchetti di vittoria si susseguirono fino a quando la fiaba si divise.

Colui non ricordava la conclusione più esatta allora le serviamo entrambe, a voi scegliere la più digeribile.

Secondo la prima versione le galline ingrassarono fin a diventare un boccone troppo appetibile anche per un gatto rivoluzionario che ad una ad una le mangiò stando ben attento a non ricordare loro che egli era ben più piccolo che un contenitore di mangime.

La seconda versione vuol invece premiare l’ arguzia del padrone, il quale essendo per patologia affetto alla diplomazia convocò a dispetto della scaramanzia il gatto concedendogli un pasto abbondante giornaliero se avesse abbandonato le galline al loro sfacelo.

Egli accettò ed in poco tempo le piumate volarono tutte in cielo tanto furono leggere.

La morale è la realtà:

Chi ha la forza di rovesciare l’ ingiustizia non si ricorda che già cento volte si è sfamato usando la tecnica becco culo, culo becco;

Diffida da chi ti guida se non mangia con te;

Il padrone non è altro che un vecchio idiota governato da una malattia chiamata Zia.

La Zia è una malattia oscura che si nasconde nei cuori di chi sale la scala che scende ai vertici del potere e guida chi, ammirato dal mondo intero, si sporca la coscienza per ripulirla con l’ innocenza di chi guarda muto o al massimo chioccia appena.

 

Qui si conclude la favola ma la luna è troppo piccola e lontana questa notte che, come il vecchio si è inventato la malattia, noi ci inventiamo la cura a tanto malumore, la morale è la realtà, ma è il sogno che annaffia lo sbocciar di questa conclusione.

Già in una qualche stalla, in mezzo ad una paglia che profuma di cambiamento, un piccolo pulcino nei suoi primi passi cinguetta giulivo: culo becco, becco culo, la faccia sporca di merda e il cuore puro.

E chissà che si riesca a non crocifiggerlo o a sparargli mentre sussurra di essere solo un pulcino prima che il mangime sia nel becco di tutti.

Samuele Ellena

OCCHI

Aveva sempre creduto che gli occhi non potessero scegliere, che fossero fatti per posarsi sul mondo e assorbire tutto ciò che si trovassero di fronte. Ora invece capiva che gli occhi degli uomini avevano un potere strano, nuovo, un potere brutalmente selettivo: potevano ignorare, saltare i pezzi di mondo che non gradivano, scartare i punti più stonati. E lui era un pezzo stonato.
Tacchi, cani al guinzaglio, scarpe sportive, qualche gamba di donna in gonna, buste della spesa dall’aspetto pesante, fogli svolazzanti dalle tasche di passanti fino al pavimento lucido dei portici. Questo lui lo vedeva bene, lo osservava ogni giorno, da tre mesi ormai. Era ancora parte del mondo, anche se lo conosceva ormai soltanto dalla cintola in giù. Aveva perso in altezza, si era adattato a quella del suo umido cartone, ma non in gradi di vista. Osservava. Del resto, che avrebbe dovuto fare?
Poi un giorno si accorse di vedere male, ma credette si trattasse solo della nebbia di alcune mattine torinesi, e, appoggiata la testa al muro, si lasciò andare al sonno. Presto la vista peggiorò e per giorni non vide che macchie color pastello passeggiargli dinanzi e, per non sentire troppo il peso del tempo, si divertiva a distinguere le sottili gambe femminili da quelle degli eleganti uomini che le accompagnavano. Quando smise di vedere del tutto si toccò le palpebre e si accorse che restavano ormai sempre semiaperte, ma di fronte era un grigio annebbiato.
Capì che tutta la sua storia si giocava in questo, in un depotenziamento degli occhi. Lui si opacizzava agli occhi degli altri e questi di dissolvevano nelle sue pupille annebbiate. Era un gioco di indifferenze, una promessa di cancellazione. Lo stavano cancellando dal mondo in cui le persone si vedono, si scrutano, si sorridono con lo sguardo, si spiano, si guardano negli occhi o vi celano cattivi pensieri. Lo avevano privato di tutte le dimensioni del vedere, fino a ridurlo alla cecità. Chi si accorge di non esser visto, di sfuggire agli occhi delle persone, perde di consistenza in se stesso, si sente privato dello statuto dell’esistenza, e chi non esiste, non può nemmeno vedere.

Si dissolse del tutto in una notte di primavera. Nessuno se ne accorse.

Simona Bianco

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