“Oltre i cento passi” di Giovanni Impastato

IMPASTATO, Oltre i cento passi, Edizioni Piemme, Milano 2017, pp. 203, € 17,50. Illustrazioni di Vauro

Andare oltre i cento passi attraverso la lettura di questo libro significa tante cose: significa assistere ad una rappresentazione di un Peppino Impastato più uomo e meno mito cinematografico; significa scoprire quello che è avvenuto dopo che Peppino è stato ucciso, la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978; significa leggere di toccanti congiunture: perché la storia di impegno di Giovanni e Felicia – fratello e madre di Peppino – ha incrociato tanti mondi, dallo sport alle realtà religiose, dalle scuole ai gruppi musicali; significa, infine, toccare con mano l’immane servizio realizzato dal Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato e dall’associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, grazie a cui «oggi Peppino è un patrimonio nazionale».

Le duecento pagine e i numerosi disegni di Vauro ci consegnano (o riconsegnano) alcuni insegnamenti di Peppino. Perché nel contemplare un mito si sta immobili, ma nel conoscere un uomo si cresce, si impara, ci si mette in movimento.

Lo schiavo

La prima lezione che Peppino e Giovanni ci lasciano ha a che fare con ciò che è famiglia. Ci riescono così bene perché sono nati e cresciuti nel nido caldo della mafia; e così, quando hanno iniziato a ripudiare la criminalità, non hanno dichiarato guerra ad un male straniero, ma ad una colpa covata dentro le affettuose mura domestiche.

«Ecco: Peppino voleva bene a suo padre in un modo diverso, drammatico. Rompeva con lui per liberare anche lui.»

La madre

Celeberrimo il discorso sulla bellezza che Marco Tullio Giordana fa pronunciare a Peppino nel film I cento passi. Non si tratta di un dato veritiero, né realistico; ma mentre scopriamo quali di quelle parole non avrebbero mai potuto stare sulla bocca di Peppino, acquistano vigore quelle in cui il giovane credeva veramente: la natura, seconda meravigliosa madre dopo Felicia, è scrigno di bellezza, materia di rivoluzione.

«Anche oggi occorre mostrare alla gente che vive insieme a noi, ovunque ci troviamo, cos’è la bellezza di un paesaggio […].Le grandi battaglia di civiltà e di democrazia si combattono così e Peppino lo aveva capito bene.»

L’artista

C’è un Peppino che incanta per la luce che emana: quello che tra una lotta e una manifestazione, (e l’organizzazione di un ballo, un carnevale o un cineforum) guarda alla vita con l’animo nostalgico di un poeta. E scrive, consegnandoci altra  bellezza e la consapevolezza che l’arte è uno spazio – l’ennesimo – di verità.

«La biografia di Peppino è la biografia di un giornalista, sì, di un attivista, sì, di un militante, eccome, ma è anche la biografia di un artista.[…] Andatevi a leggere le sue intense poesie: la voce bellissima di una profonda solitudine in cerca d’amore.»                                         

Nato a Cinisi nel 1953, Giovanni Impastato ha corredato la sua inarrestabile attività di memoria e lotta alla mafia con la pubblicazione di Resistere a Mafiopoli nel 2009. Vive quotidianamente la sua missione di testimonianza principalmente nelle scuole; lo abbiamo incontrato e intervistato a SIC 2017: https://www.1000-miglia.eu/intervista-a-giovanni-impastato-se-questa-e-la-mafia-io-le-saro-per-sempre-contro/

 

INTERVISTA A GIOVANNI IMPASTATO «Se questa è la mafia, io le sarò per sempre contro»

A SIC 2017 abbiamo incontrato Giovanni Impastato, fratello di Giuseppe, giornalista, attivista e artista siciliano da tutti ricordato come Peppino. Nato a Cinisi (Palermo) da una famiglia mafiosa, non cessò mai di battersi contro Cosa Nostra, fino all’attentato che, nella notte tra l’8 e il 9 maggio ’78, lo uccise ad appena 30 anni. Da allora il fratello e la mamma non hanno smesso di ricordare, dare voce e forza al suo messaggio. E, come scrive Giovanni nel suo libro presentato a SIC (Oltre i cento passi, Edizione Piemme, Milano 2017), Peppino «ha per sempre ragione, ha per sempre voce in capitolo», perché i mafiosi, che volevano metterlo a tacere, ne hanno invece amplificato in eterno la voce.

Ecco la nostra intervista a Giovanni.

Dopo i dovuti grazie, le confidiamo l’emozione di incontrarla e ammettiamo che il nostro filtro alla vostra storia è quello del film I cento passi. Quanto possiamo considerarlo fedele alla vera storia di Peppino Impastato e della sua famiglia?

Se dovessimo dare un giudizio in percentuale di quanto è veritiero il film, diremmo un 80%. Il film ci ha aiutato tantissimo ed è stato importante per noi: un primo appello per cercare di aprire una saracinesca, che poi ci ha portati lontano. Ma dobbiamo dire una cosa: il film non è la cosa più importante che abbiamo fatto per Peppino. Ci sono cose molto più importanti: il processo con la condanna degli assassini, la commissione antimafia che ha elaborato un relazione sui depistaggi, la possibilità di smontare la montatura che voleva farlo passare per terrorista… Io credo che queste cose siano ancora più importanti del film, che, inoltre, ha avuto l’effetto di mitizzare Peppino, trasformandolo in un eroe o un’icona, e solo su questo vogliamo porre l’attenzione quando diciamo Oltre i cento passi: non è un rinnegare il film (io rispetto la forza comunicativa che ha il cinema), ma ricordare che Peppino non va considerato un mito, ma guardato per quello che lui era concretamente, ovvero un militante politico di grande forza e energia. Dunque: riconoscenza per il film, ma dobbiamo puntualizzare ulteriormente chi era Peppino e quella che è stata la nostra storia.

Cosa significa emanciparsi da una famiglia mafiosa?

Vuol dire operare una rottura. Emanciparsi è un termine corretto, ma solo se si parla di una rottura vera: un’emancipazione non poteva avvenire senza una scelta forte. Non si poteva restare con un piede dentro e uno fuori. Bisogna dare un segnale forte! Non è stata una mancanza di affetto verso nostro padre, ma un non accettare le sue idee e il codice comportamentale a cui, da mafioso, aderiva. È in questo modo che io e Peppino ci siamo emancipati, dando continuità alle nostre scelte.

Qual è il messaggio lasciato ai giovani da Peppino Impastato? E quale quello di Giovanni Impastato?

Diciamo quasi lo stesso. Il messaggio è quello di allontanarsi dall’indifferenza e lavorare sulle piccole cose: guardarci intorno e iniziare a mettere a posto le cose che stanno nel posto sbagliato. Dobbiamo cioè fare attenzione al nostro territorio, sennò rimaniamo monchi, legati alla vita così come ce la fanno apparire. Io sono molto preoccupato perché vedo soprattutto nelle scuole un rigurgito neofascista, un entusiasmo della violenza, della sopraffazione, del razzismo. Ci sono troppi segnali diseducativi! Di fronte a tutto questo, dobbiamo essere coscienti.

Quando intuiamo l’importanza di una storia come quella di Peppino per i giovani, ci chiediamo: che senso ha studiare a scuola i secoli più remoti della storia e non essere educati alla storia recente?

Studiare la storia, in generale, è importante. Ma da quello che mi sembra di capire dalle domande che mi fanno i ragazzi quando vado nelle scuole, credo che i programmi ministeriali siano un po’ indietro. Credo non si studino ad esempio gli anni 60, che sono importantissimi: il movimento studentesco, le lotte operaie, le Brigate Rosse, il sequestro di Moro… Sono anni importanti, e io me ne sto rendendo conto ora che sono passati 40 anni.

 A quarant’anni dalla morte di suo fratello, qual è il ricordo più forte che ha di Peppino?

Il ricordo più bello che ho è di un Peppino scanzonato, che organizzava i concerti, le feste per ragazzi, i carnevali alternativi. Ad uno di questi, in particolare, si era vestito da Clown ed era stato immortalato da una foto. Faceva il clown vero e proprio, ci ho messo un po’ a riconoscerlo! I bambini si staccavano dalle braccia dei genitori per andare da lui. È un ricordo molto bello che ho, che dimostra un Peppino diverso dalle sue battaglie.

 

*La frase del titolo è stata pronunciata da Peppino Impastato quando, all’età di 15 anni, si trovò davanti al luogo dell’attentato dello zio e capomafia Cesare Manzella.

Cecilia Actis, Tommaso Marro, Simona Bianco

“Da questa parte del mare” di Gianmaria Testa

TESTA, Da questa parte del mare, Einaudi, Torino 2016, pp. 102, € 12,00.

 

 A dieci anni dall’uscita del disco omonimo, ha visto la luce il «piccolo e intensissimo libro» di Gianmaria Testa, che fa precedere al testo di molte delle sue canzoni un racconto di natura autobiografica o una rapida riflessione scaturente dai ricordi e dalla ricerca di una vita. Ne nasce una «multibiografia di persone e di luoghi», come si può leggere nella breve quanto commossa introduzione dell’amico Erri De Luca. Soggetto del libro è la nostalgia che abita le migrazioni umane, quel «non dicibile» che è «la quota di umanità che tutti abbiamo in comune».

Da questa parte del mare è stato pubblicato nell’aprile del 2016, a meno di un mese dalla morte del cantautore-scrittore.

 

Ricorda la mia storia, di’ il mio nome

Ci sono Rrock Jakaj, Tinochika detto Tino, Babasunde (ma tutti lo chiamano Abdul, o Abdel). C’è Paola, moglie di Gianmaria, e poi Luigi, Matteo, Nicola: i suoi bambini. C’è Jean-Claude Izzo. Ci sono Erri de Luca, Fabrizio de Andrè, a braccetto con Beppe Fenoglio e Pellizza da Volpedo. E poi c’è un Gianmaria bambino, a fianco alla mamma sulle strade di Torino, o accanto al papà tra i solchi della terra.

Tutti meritano un tassello del libro, che sembra essere stata pensato per non lasciar scappare le loro storie, i loro nomi, «perché un nome è perduto per sempre, se nessuno lo chiama».

 

«Forse qualcuno domani dimenticherà

alla porta di casa il suo nome dimenticherà

perduto alla notte e perduto anche al giorno che arriva

perduto alla notte e al giorno che passa e consuma

perché un nome è perduto per sempre, se nessuno lo chiama.»

 

Se tu mi aspetti

Spesso, della vita degli uomini che ha incontrato, Gianmaria ricorda principalmente il punto in cui questa si è incagliata.È il territorio del non più e non ancora, di uomini che non hanno nessuno che li attenda, né nel luogo di partenza, né in quello di arrivo. È il territorio in cui le storie si fanno labili, sfilacciate, fumose come il ricordo.

 

«Ho viaggiato molto grazie alla musica, sono stato in paesi che mai avrei visto, ma è sempre stato il viaggiare privilegiato di chi è consapevole di essere atteso.»

 

Questo mondo è il mio

Uno degli elementi di indubbia forza del libro risiede nel sentimento di nostalgia che riesce a scatenare nel lettore nostrano: le origini contadine di Gianmaria fanno da sfondo a molti dei brevi capitoli che compongono la raccolta, e sono queste a dare implicitamente profondità alle vicende di uomini con nostalgie diverse dalle sue, ma ugualmente irrisolvibili.

Il lettore si sente a casa tra i canti in piemontese, le strade cuneesi, i seminatori di grano. E, anche se non sa perché, sente che questi assomigliano in qualche modo agli altri uomini che arrivano da lontano.

Forse anche per questo – per questo far sentire più che direDa questa parte del mare si conserva intatto dalla retorica o dal “già sentito”.

 

«Sono arrivati che faceva giorno

uomini e donne all’altipiano

col passo lento, silenzioso, accorto

dei seminatori di grano.»

 

 

Gianmaria Testa, nato nel 1958 a Cavallermaggiore, ha esordito come cantautore ottenendo il primo posto al Festival di Recanati del 1993; da quel momento ha realizzato nove dischi ed è divenuto celebre in tutta Europa, ove i manifesti dei suoi concerti sono stati spesso più celebri ancora che in Italia.

Come scrittore ha pubblicato per Gallucci Editore Ninna nanna dei sogni (2012), Ventimila leghe in fondo al mare (2013), Biancaluna (2014) e Il sentiero delle filastrocche (2015).

“L’arca” di Ester Armanino

E. ARMANINO, L’arca, Einaudi, Torino 2016, pp. 166, € 17,00.

Trama. Nadia è malata e ricoverata in una clinica chiamata Arca; suo marito Mario, sua sorella Teresa e suo cognato Alberto le ruotano attorno con le loro vite, in vari modi intrecciate alla sua; fuori la pioggia non smette di cadere per mesi, e Pietro, figlio seenne di Nadia e Mario, crede di star vivendo insieme ai genitori nell’Arca per antonomasia, quella di Noè, durante il Diluvio Universale.

Sorellanza, figliolanza e altre questioni familiari

Teresa è una sorella maggiore organizzata e attenta, ama il suo lavoro di infermiera nella clinica che si chiama Arca, ha due figli e un marito. Lei somiglia ad Ismene, Nadia è Antigone.

Tra loro si erge un segreto, un non-detto, uno spazio a cui il romanzo a poco a poco restituirà i colori.

Pietro ha sei anni, un pupazzo a forma di drago a cui manca un occhio, un amico coraggioso di nome Matteo e un barattolo dei pensieri, nel quale intrappola i più belli. Il barattolo è stata un’idea di sua mamma, che di lavoro fa l’artista giocando con il proprio corpo nello spazio.

Ora Pietro abbraccia quel corpo, appuntito e emaciato, che lentamente scivola via.

«Ma ora non ho paura ad esserti compagna nella tempesta… Sorella, non negarmi il privilegio di morire insieme a te.»

 

Il nome delle cose

C’è un anziano signore che abita la camera al fondo del corridoio: si chiama Giorgio, ma per Pietro è Noè.

Una notte, dal tetto dell’ospedale, Pietro e Noè guardano le stelle e danno a ciascuna il giusto nome perché «se le cose non le chiami per nome, non ti apparterranno mai».

Il romanzo, apparentemente dominato da nomi mancanti, caduti, sbagliati, ci instilla un dubbio: quale realtà è più vera, quella dei nomi giusti o quella ribattezza da Pietro?

Qualunque sia il nome vero delle cose, conoscerlo significa poterle incontrare davvero, poterle anche amare.

«[…] E sono qui perché quest’uomo conosce il mio nome.»

 

La vita che trema

La vita di Nadia, Mario, Teresa, Alberto e Pietro è colta nel suo vibrare nel profondo delle cose.

Il romanzo è la storia di uomini e donne tremanti sotto gli abiti, sotto la pelle, ancora più giù della carne; tremanti perché il dolore, la malattia, la paura e il coraggio fanno delle loro esistenze qualcosa di pronto a scatenarsi come un temporale sospeso per un filo al cielo.

Tutto resta, però, meravigliosamente sollevato, il romanzo sembra scritto sottovoce, le emozioni e le passioni lo percorrono col passo felpato di chi è al cospetto di un malato.

«Il cane è lì che la fissa e trema come quando aveva tre mesi e lei l’aveva trovato in quel campeggio. Trema come Nadia intrappolata sotto la giacca, come tutta quell’acqua sospesa lassù, l’attimo prima che cada.»

 

 

Ester Armanino ha 35 anni e vive a Genova, dove esercita la professione di architetto. Ha esordito nel 2011 con Einaudi, con il romanzo Storia naturale di una famiglia, vincendo il Premio Edoardo Kihlgren Opera Prima, il premo Viadana Giovani, il Premio Zocca e il Premio per la Cultura Mediterranea – sezione Narrativa giovani. Collabora con «La stampa» e pubblica racconti su antologie e riviste.

 

Storie da grandi

È dalle storie degli altri che impariamo chi siamo, chi vorremmo essere, chi possiamo diventare. Finita l’infanzia, non smettiamo di aver bisogno di racconti meravigliosi, anche se cambia il recipiente a cui attingiamo per trovarne: noi “grandi” indaghiamo quel libro enorme e variopinto che è il mondo.

 

Supereroi.

Cerchiamo esempi, modelli: la forza degli altri edifica la nostra e abbiamo bisogno che ogni storia abbia il suo supereroe. Da bambini conoscevamo quelli tradizionali, da adulti ne incontriamo di nuovi ovunque: ne sono piene le strade, i vagoni dei treni, le biblioteche, i ristoranti. I piccoli atti quotidiani di molti uomini qualunque non sono che un modo di combattere, da supereroi, una battaglia di cui gli altri non sanno nulla. Perché non c’è superpotere che non nasca da una ferita, da un dolore non evitato, bensì attraversato e trasformato.

 

Io sto nel mondo.

C’è un terreno su cui si gioca la nostra partita, un contesto in cui si inserisce la nostra storia. Tentare di conoscerlo è un’avventura meravigliosa!
Tutto ciò che avviene nel mondo ci compete, anche nell’era della complessità e dell’iper-specializzazione. E soprattutto, per quanto piccoli possiamo essere, nulla di ciò che faremo sarà privo di ripercussioni sul mondo; nessuna parola che pronunceremo – anche con voce appena udibile – sarà come non detta.

 

Nel mio tempo, nel mio spazio.

Abbiamo un margine d’azione. Abbiamo l’istante presente, esattamente nel punto del mondo in cui ci troviamo. Troppo poco? Nient’affatto. Sono il tempo che scorre e lo spazio che cambia a permettere all’uomo di portare avanti ciò che fa della sua vita un capolavoro: il progetto.

 

Oltre il mio tempo, oltre il mio spazio.

Che l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si assomiglino è verità spesso dimenticata. Che esista una misteriosa corrispondenza tra l’esorbitante altezza dei Cieli e l’abissale profondità dell’animo umano è ciò da cui occorre partire, ripartire.
Concediamoci il lusso di riconoscerci un valore ulteriore, di sentirci infiniti, più grandi di quel pezzo di spazio e di tempo, in cui pure vogliamo vivere da veri supereroi.

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