Tijuana

L’idea di “muro”, nell’essere umano, assume i connotati di separazione, divisione, chiusura e difesa. I muri fin dall’antichità hanno avuto la funzione di proteggere le comunità dagli assalti di qualche nemico e hanno sempre svolto molto bene il loro compito. L’idea odierna di muro risente invece degli spiacevoli esempi che il passato e il presente ci pongono davanti agli occhi, facendoci subito storcere il naso e dandoci l’impressione di parlare di qualcosa che, ormai, è un concetto superato, una separazione inutile. Questo perché ci troviamo in un universo umano sempre più connesso e sempre più alla portata di tutti, in cui le guerre sono fatte perlopiù dalle intelligence dei paesi, in cui non si sfrutta neanche più il cielo per combattere, ma lo spazio dove agiscono i satelliti. Allora ci si chiede davvero che senso abbia un terrapieno spinato nel salvaguardare la sicurezza di un popolo.

L’uomo però, in quanto uomo, non ci regala soltanto bellissimi atti d’amore, ma anche peculiari e anacronistici esempi di decadenza. Il titolo dell’articolo si rifà al nome del muro più famoso del mondo d’oggi, quello che gli Stati Uniti hanno costruito al confine con il Messico, il muro di Tijuana. Linea di separazione fisica nata per contrastare il contrabbando di droghe pesanti e l’immigrazione clandestina provenienti dal confine sud della “Terra dei Liberi”. La costruzione è iniziata nel 1990 durante la presidenza di George H. W. Bush, in seno alla “Prevenzione attraverso la deterrenza”, adottata dalla polizia di frontiera nei confronti degli illegali che mettevano piede sul suolo statunitense. Il primo tratto di 22 km fu completato nel 1993. Nel 1994, sotto l’egida di Bill Clinton, la barriera fu sviluppata ulteriormente, principalmente come “linea umana di poliziotti”. Questa, composta da lamiere seghettate, filo spinato, illuminazione ad alta intensità, sensori elettronici, copertura militare terrestre, aerea e satellitare, ha causato la morte, tra il 1998 e il 2004, di ben 1.954 persone.

Analizzando l’universo-mondo ci accorgiamo però che l’insieme di lamiere, filo spinato e telecamere di sorveglianza in questione non è affatto un caso unico. Sono presenti sulla Terra molte altre divisioni materiali che si fregiano dell’amaro appellativo di “Muri della Vergogna”. Di seguito alcuni esempi.

Il Muro Marocchino, iniziato nel 1983, separa i territori occupati dal Marocco da quelli sotto il controllo della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi (RASD). Come riportato dal Governo Marocchino il muro ha una ragione strategico-difensiva, mentre secondo la popolazione Sahrawi serve per mantenere il controllo su un territorio particolarmente redditizio e strategico. La parte interna al muro racchiude infatti le miniere di fosfati del Sahara Occidentale e la costa marocchina sull’oceano Atlantico, considerata una delle più pescose al mondo. Un’importante ricchezza è anche quella dei giacimenti petroliferi costieri, sebbene le Nazioni Unite permettano solo la ricerca scientifica e non lo sfruttamento di essi. La piccola zona controllata dalla Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, invece, non ha alcuna importanza economica. I principali obiettivi del muro marocchino hanno perso la loro ragion d’essere nel 1991, quando la RASD scelse la strada della legalità internazionale e dell’azione non violenta. Attualmente lo scontro avviene prevalentemente sul piano politico, nel quale i Saharawi cercano di arrivare ad un “referendum di autodeterminazione” mentre il Marocco ne ostacola la realizzazione al fine di consolidare lo status quo e annettere così il territorio della RASD attualmente sotto il suo controllo.

Le Barriere di separazione di Ceuta e Melilla si trovano, invece, lungo la frontiera tra le due enclavi spagnole e il Marocco. Il loro proposito è quello di ostacolare e impedire l’immigrazione illegale e il contrabbando. Progettate e costruite dalla Spagna alla fine degli anni ’90, sono costituite da filo spinato e muri di cemento armato. Il prezzo, di 30 milioni di euro, è stato pagato quasi interamente dalla Comunità Europea, anch’essa non priva di peccati.

Ulrimo esempio: la Barriera di separazione israeliana in Cisgiordania, iniziata nel 2002, che divide Israele dalla Cisgiordania, conseguenza dell’annessione di fatto a Israele dei territori palestinesi occupati, a cui, per storia e trascorso politico, verrà dedicata un’analisi futura che avrà per oggetto la Palestina.

Come si può notare da questi quattro esempi le ferite del mondo sono tante, troppe, e la nostra generazione sarà chiamata all’arduo compito del dissolverle, memore degli sbagli e dell’inadempienza di chi ci ha preceduto. Fiduciosi in un avvenire privo di queste assurde e insensate opere di divisione che invocano la morte dell’umana misericordia.

La ferita di Cipro

In questi giorni i ministri degli esteri di Grecia, Turchia e Regno Unito si sono trovati a Ginevra per discutere sul tema di una possibile risoluzione pacifica della crisi cipriota. E’ la prima volta che i rappresentati della parte turca e di quella greca dell’isola si scambiano mappe concrete con alcune proposte di scambi territoriali. Cosa che fa ben sperare le Nazioni Unite.

Per capire il perché di tali trattative è necessario fare un balzo nella storia recente dell’isola, precisamente nel 1869, ovvero l’anno dell’inaugurazione del Canale di Suez.

Questo periodo storico vede il concludersi di un conflitto che perdurava da alcuni anni, la Guerra russo-turca, scontro che sancì la vittoria della Russia sull’Impero Ottomano ratificata con il successivo Congresso di Berlino. Nella capitale tedesca si scopri però che gli inglesi e gli ottomani avevano firmato segretamente la Conferenza di Costantinopoli. Tale accordo implicava il passaggio dell’isola mediterranea dall’Impero Ottomano al Regno Unito, il quale, avendo già saldi i possedimenti egiziani, si sarebbe accaparrato il quasi totale controllo dei traffici commerciali passanti per il Canale. In cambio del passaggio di proprietà l’Inghilterra assicurava il suo appoggio militare agli ottomani caso di nuovi conflitti con la Russia.

Cipro si ritrovò così possedimento inglese, fu annessa definitivamente all’Impero Britannico nel 1913, divenendo una vera e propria colonia nel 1925 in seguito alla dissoluzione finale dell’Impero Ottomano. Sotto il dominio inglese si fece sempre più forte la spinta da parte della compagine greca dell’isola verso l’annessione alla Grecia. Nacque così l’Enosis (Unione) un movimento che raccoglieva queste tendenze che erano state duramente represse sotto il dominio ottomano. Essere poterono rifiorire sotto il controllo della Corona che ripristinò parte delle libertà di espressione popolare. Il movimento crebbe a tal punto da influenzare perino gli amministratori inglesi con tanto di comizi pubblici riguardo alla “questione cipriota”.

L’isola del mediterraneo riuscì ad ottenere l’indipendenza dal Regno Unito solo il 16 agosto 1960, ed è qui che iniziarono a manifestarsi in modo tumultuoso le tensioni tra la parte greca e quella turca che non aveva mai visto di buon occhio il governo di Atene. A causa di ciò nella creazione della costituzione si misero in atto una serie di meccanismi in modo da non scontentare nessuno dei due schieramenti. Si stabilì infatti che il vicepresidente e il 30% del parlamento dovevano essere turco-ciprioti. Oltre a ciò la bandiera ufficiale vide il posarsi dell’isola sul bianco con vicini due rami di ulivo, da sempre simbolo di pace, ma nonostante questi accorgimenti la situazione degnerò fino alla frammentazione territoriale.

Infatti a seguito del colpo di stato greco sostenuto dalla Dittatura dei colonnelli, e la successiva volontà dei greco-ciprioti di modificare la costituzione e attuare l’unione con la Grecia, la Turchia, sulla base dei trattati firmati a Zurigo, interpretati unilateralmente, sbarcò su Cipro con l’esercito nella cosiddetta “Operazione Attila”. Occupando gran parte della zona settentrionale dell’Isola istituendo la “Repubblica Turca di Cipro de Nord.

Il primo atto del neonato pseudo-stato fu quello di procedere all’espulsione dei filo-greci dai confini dei territori occupati. A questo si aggiunse un imponente flusso di turchi provenienti dal sud dell’isola e dall’Anatolia, cosa che modificò profondamente la demografia insulare. Per contro si ebbe una vera e propria migrazione della popolazione greca verso i territori che stavano fuori dal controllo della Turchia.

Le Nazioni Unite inviarono tempestivamente contingenti di Caschi Blu, creando così una “zona cuscinetto” tra le truppe turche d’occupazione e i ciprioti-greci, forza militare che è ancora presente sull’isola.

Nonostante i numerosi tentativi di negoziazione, le due parti non sono mai riuscitea trovare un accordo per la creazione di un unico Stato. Dal momento della separazione territoriale la Repubblica di Cipro (abitata da greco-ciprioti) è riconosciuta come unica vera entità nazionale dalle Nazioni Unite. Al contrario la  cosiddetta “Repubblica Turca di Cipro del Nord” (formata da turco-ciprioti) non riconosce la Repubblica di Cipro proclamandosi indipendente, la quale però non è riconosciuta come tale dalle Nazioni Unite, ma soltanto e unicamente dalla Turchia.

Solo negli ultimi anni la situazione si è distesa lasciando spazio a piccoli, ma pur sempre importanti segni di riconciliazione, uno dei quali lo stiamo vedendo in questi giorni a Ginevra.

 

I “Signori del Mondo”

Il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump è entrato a far parte di un circolo molto esclusivo formato da altri due personaggi. Sul primo si è già dibattuto abbastanza, per cui mi concentrerò sugli altri due. Xi Jinping, Presidente della Repubblica popolare cinese (RPC) e Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa. Dobbiamo imparare a conoscerli, o perlomeno conoscere a grandi linee le loro storie. Perché dalle loro decisioni, seppur indirettamente, dipendiamo anche noi abitanti dello stivale.

Xi Jinping

Forse il meno conosciuto dei due fa parte del gruppo dei Taizi, i “principi rossi”. Figli e nipoti di quelli che presero parte alla “Grande Marcia” e di chi fu direttamente coinvolto nella vittoria comunista del 1949. Nasce a Pechino nel 1943, figlio di un combattente comunista di lunga data. Dopo l’incarcerazione del padre (capo del dipartimento di propaganda del PCC) durante la Rivoluzione Culturale Cinese, Xi viene inviato in un gruppo di produzione nello Shanxi dove inizia la sua carriera politica. Nel 1971 entra nella Lega della gioventù comunista cinese, cosa che gli da la possibilità di iscriversi al Partito nel 1974. Dopo una breve esperienza di lavoro nella segreteria della Commissione militare centrale ha la possibilità di diventare presidente della Scuola di partito della città di Fuzhou, capitale della provincia del Fujian. Provincia di cui diventerà prima vice-governatore e poi governatore nel 1999. Il 2002 è l’anno del suo trasferimento nello Zhejiang, regione che, grazie alla capacità politica del nuovo sovrintendente di attirare investimenti stranieri, diventerà una delle zone più virtuose della Cina. Questa indole al tessere relazioni, sia nazionali che internazionali lo porta a Shangai dove prenderà il posto del segretario del Partito Chen Liangyu, risultando un politico fedele alle direttive del Governo Centrale. Nel 2007 si ha la vera svolta per il futuro Presidente, infatti viene eletto membro dell’Ufficio politico del partito e del Comitato Permanente dell’Ufficio politico, quindi nominato primo segretario della Segreteria del Comitato Centrale e ancora presidente della Scuola Centrale. Un anno dopo, sulla scorta dell’apprezzamento del suo operato da parte delle alte sfere del PCC, viene elevato unanimemente dall’Assemblea Popolare Nazionale alla vicepresidenza della Repubblica. Dimostrandosi durante la vicepresidenza degno erede allo scranno presidenziale, il 15 dicembre 2012, durante Il XVIII Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, è eletto prima capo della Commissione Militare Centrale e poi segretario generale del Partito. Trattandosi delle due cariche più importanti appartenute prima al segretario-presidente uscente Hu Jintao il gesto sancisce il passaggio dei poteri dalla vecchia alla nuova leadership. Il 14 marzo 2013 Xi secondo consuetudine è eletto Presidente della Repubblica Popolare Cinese dall’Assemblea Nazionale del Popolo. Dopo l’elezione ha dato nei fatti la conferma di essere uno dei leader più carismatici e accorti del pianeta.

Vladimir Putin 

Nato nel 1952, il 7 ottobre precisamente, vive un’infanzia di povertà in quanto figlio di madre operaia e padre ex-sommergibilista. Le strade di Leningrado e la loro violenza gli faranno da sfondo durante l’infanzia temprandolo. Lui, per sfuggirne, inizia a studiare diritto internazionale e lingua tedesca, laureandosi successivamente presso l’Università di Leningrado. Negli stessi anni si iscrive in una palestra di Judo, arte marziale che diventerà la sua vera passione. L’amore che prova da sempre per la forza e per la disciplina lo fa approdare nel KGB, dove entra nella sezione del controspionaggio. Dopo 10 anni di carriera nel dipartimento estero dei servizi segreti viene spedito a nella Germania dell’Est a Dresda. Questa esperienza che gli permetterà di vivere al di fuori dell’Unione Sovietica e di essere esperto nelle questioni di politica estera. Doti che lo porteranno a diventare il braccio destro di Anatoly Sobchack, l’integerrimo sindaco di Leningrado che restituirà alla città il nome di San Pietroburgo. Ritornato in Russia dopo la caduta del muro di Berlino, Vladimir si interessa di affari azionari, apre ai capitali tedeschi le aziende cittadine e diventa vicesindaco. La sua corsa al municipio però deve fermarsi quando Sobchack perde le elezioni nel 1996. La debacle del collega in realtà si trasforma in un volano per Putin che viene chiamato a Mosca da Anatoly Chubais, giovane politico ed economista che lo raccomanda a Boris Eltsin, all’epoca Presidente della Federazione Russa. La scalata alla vetta della Russia lo porta ad assumere in rapida successione tre cariche molto ambite. La prima è quella di vice di Pavel Borodin, gestore dei beni immobiliari del Cremlino. La seconda è l’essere nominato capo del Servizio Federale di Sicurezza, figlio del dissolto KGB. Mentre la terza e più importante lo consacrerà capo del Consiglio di Sicurezza Presidenziale. Il 9 agosto 1999 Boris Eltsin si ritira dalla presidenza. Vladimir che intanto è diventato primo ministro, dopo una breve campagna elettorale basata perlopiù sul disprezzo verso le altre compagini politiche, viene eletto presidente per la prima volta con il 50% dei voti. Si impegnerà per tutto il primo mandato alla spinosa questione dell’indipendenza cecena, la cui intransigenza sul reprimerla sarà la sua fortuna politica. Questa insieme alla rinnovata propensione ad un governo centrale e moscovita lo consacreranno come guida delle popolazioni convinte della causa russa contra omnes. Nel marzo 2004 viene eletto Presidente per un secondo mandato sull’onda del 71% dei consensi. Quattro anni più tardi il suo fedelissimo Dmitrij Medvedev gli da il cambio come capo della Federazione. Putin torna così alla carica di Primo Ministro. Successivamente, nel mese di marzo del 2012, come previsto da tutti, viene rieletto per la terza volta Capo dello Stato. Dimostrando ancora una volta la saldezza della sua politica e della sua leadership.

1000Miglia incontra Chaimaa Fatihi – SIC 2016

Chaimaa Fatihi è nata nel 1993 in Marocco dove è vissuta fino al compimento dei sei anni.

Dopo essersi trasferita ha frequentato la scuola primaria e secondaria nella cittadina di Castiglione delle Stiviere (MN) ed ora studia Giurisprudenza a Modena.

Il suo interesse negli abiti del sociale la portano a diventare delegata nazionale dell’Associazione Giovani Musulmani d’Italia al Forum Nazionale Giovani. Lei è una cittadina italiana di seconda generazione ed fiera di essere parte della nostra società. Purtroppo nel corso della sua vita ha dovuto fare i conti con gli stupidi pregiudizi contro la sua religione. Questo confronto che le hai vissuto come arricchimento personale, e non come scontro tra culture, l’ha portata a scrive una lettera a la Repubblica sulla scorta della strade del Bataclan di Parigi. Una lettera in cui lei condanna il fondamentalismo, in cui si può sentire tutto il disagio e la rabbia di una giovane ragazza italiana musulmana che vede l’associarsi della sua religione al fenomeno del terrorismo.

L’incontro è stato incentrato sulle sue esperienze, sulla sua interazione con la nostra cultura e sul suo essere una donna in un’altra religione. Il filo conduttore di tutto il discorso è stata la voglia di presentare un Islam che nella sua radice “aslama” si ricollega alla parola “salām” che significa semplicemente Pace.

 

Come hai vissuto in prima persona, da musulmana, il confronto con i non-musulmani?

Fino ad appunto le scuole medie non ho mai avuto questa percezione di confronto con qualcosa di differente. Dalle superiori in poi probabilmente ho iniziato a percepirlo maggiormente. Forse perché avevo maggiore consapevolezza di quella che era una mia identità “plurale”, ma l’ho percepito sempre come un arricchimento. Perché in realtà trovavo tante cose che univano piuttosto di quelle che dividevano. Questo per me è stato assolutamente molto importante, quindi in realtà l’ho vissuto sempre in maniera molto positiva.

Però quali sono delle misure concrete da attuare nei processi di integrazione? Mi riferisco a quelli che sono appena arrivati, per esempio i migranti o appunto quelli che hanno maggiore difficoltà ad abbracciare una nuova cultura.

A me piace sempre parlare più di interazione più che di integrazione, perché togliendo quella “g” in realtà, ovviamente con l’integrazione c’è uno che fa uno sforzo per integrarsi nella società, però nell’interazione c’è uno sforzo da entrambe le parti. Quindi la parte che arriva e che è nuova cerca di sforzarsi per esempio nell’apprendere la lingua italiana e conoscere la cultura del paese. Dall’altra però c’è lo sforzo del paese accogliente in cui la società cerca di capire la cultura dell’altro, capire il paese dal quale arriva questa nuova persona. Come processo di interazione c’è questo sforzo reciproco in cui serve lavorare molto sulla lingua che è l’unico modo per esprimersi, per esprimere i propri pensieri. In secondo luogo è molto importante formare una persona a quello che è la cittadinanza attiva e ai valori civili che viviamo nel quotidiano, perché è molto importante. Spesso le persone provenienti da altri paesi non hanno idea anche di quelle differenze proprio di cittadinanza e quindi dei valori costituzionali che magari loro non hanno e che nel nostro paese possono avere. Faccio per dire, il diritto al pensiero e alla libertà di parola non è così scontato per tutti i paesi, mentre noi per fortuna ce l’abbiamo ed è importante anche riprenderlo.

Ma questa interazione deve essere fatta nelle scuole o fuori dalle scuole?

Io penso che serva in entrambi i contesti, più precisamente nella scuole, perché in esse c’è sempre, talvolta, un po’ più di difficoltà, per esempio nel non fare tutto il programma o non riuscire a fare altre cose. Mentre in realtà forse gli insegnanti dovrebbero anche di oltrepassare solo la mera didattica delle regole grammaticali, della matematica, delle equazioni e cercare di fare più progetti per coinvolgere tutti gli studenti anche ad aprirsi e dialogare insieme, cosa che non è scontata purtroppo oggi. Bisogna anche valorizzare questo aspetto della scuola che non è solo di studenti ma di nuovi cittadini. 

Ed ora un’ultima domanda. Quali sono i metodi e le forme per divulgare la cultura islamica con cognizione di causa e soprattutto in modo pacifico?

Sicuramente è il leggere tanto tanto tanto e cercare di rivolgersi il più possibile ai diretti interessati, perché spesso ne parlano i non mussulmani e i non arabi o comunque non i diretti interessati e terze persone, quando in realtà facendosele spiegare da chi lo vive in prima persona nel quotidiano si potrebbe avere una comunicazione più efficace ed efficiente.

Perché gli attentati in Francia?

Il dolore di una nazione va rispettato, come vanno rispettate le vittime di questi scellerati attacchi alla quotidianità democratica dell’Europa. Però è necessario fare, nelle poche righe a disposizione, almeno degli esempi nella storia recente che hanno portato a questi sanguinosi avvenimenti.

Restando fermo il punto che le parole scritte qui non sono di critica ma semplici elementi di studio e confronto.

Nonostante i continui richiami alla pace tra i popoli proposti dalle organizzazioni umanitarie e dal mondo religioso, la Francia, supportata dall’UE, dagli Stati Uniti e dalla Nato, si è già pronunciata favorevole al vendicarsi nel merito degli attentati di questi anni. Charlie Hebdo e Bataclan, per citarne due, ma la lista sarebbe più lunga.

L’odio ha radici lontane che affondano nel terreno fertile dell’ostilità al colonialismo francese. Passando poi per le emarginazioni delle comunità islamiche nelle popolosissime banlieue, crescendo grazie alle ultime campagne militari messe in atto dalla Francia in Africa e in Medio Oriente.

Partiamo dal dire che i paesi nord e centroafricani covano da sempre sentimenti di rancore maggiori nei confronti della Francia, ancor più che verso gli Stati Uniti.

Il Marocco e la Tunisia, i due maggiori serbatoi di combattenti stranieri nell’Isis, l’Algeria con la sua lunga storia di sangue nella lotta per l’indipendenza, il Mali e in parte anche l’Egitto sono tutte ex colonie francesi. Infatti la maggior parte degli attentatori delle ultime stragi in Francia sono nati in famiglie provenienti da queste zone geografiche. Lo sfruttamento di risorse perpetrato dalla ex potenza coloniale non è mai stato gradito nel Sahel e nell’Africa nera. In aggiunta, l’Arabia Saudita e gli altri paesi del golfo, negli ultimi anni, hanno finanziato la crescita di moschee islamiche radicali e vedono con rabbia Parigi in qualità di capitale dello stato laico, ottenuto col sangue della rivoluzione francese in patria, ma imposto dall’alto nei possedimenti esteri.

La dissoluzione dell’Impero Ottomano e la successiva spartizione dei suoi territori nelle zone di influenza di Francia e Gran Bretagna è stata utilizzata molto nella propaganda del neonato Stato Islamico, che si propone di ridisegnare i confini scossi dalle primavere arabe, e di far saltare gli stati costruiti a tavolino durante l’accordo di Sykes-Picot nel 1916. Accordo segreto che vide i francesi e gli inglesi dividersi le carni della carcassa ottomana.

Le proteste arabe del 2011 hanno permesso a Sarkozy e Hollande di ristrutturare la politica estera francese in chiave militarista e interventista. Le politiche adottate dalla Repubblica portarono alla destituzione di Gheddafi in Libia e a maggiori ingerenze economiche in Siria e in Nord Africa arrivando a finanziare pericolosi gruppi di ribelli contro il regime di Damasco. Questo ha destabilizzato ancora di più la crisi mediorientale spargendo altra benzina sul fuoco del fondamentalismo. In più dopo gli attentati jihadisti in Francia, Hollande si è esposto alla rappresaglia dell’IS intensificando i raid sul territorio iracheno e bombardando anche in Siria.

I cruenti scontri successivi all’attentato del 13 novembre 2015 hanno portato all’imposizione dello stato di emergenza, misura che non ha comunque impedito la strage condotta con spietato cinismo sulla Promenade des Anglais a Nizza. Lo stato di emergenza era già stato utilizzato dalle autorità francesi 1955 durante la guerra in Algeria, con altrettanti scarsi risultati. Senza dimenticare che di episodi di terrore, seppur di minore intensità, la Francia ne aveva già avuti negli anni 90. Questi attacchi nacquero in seno alla nuova crisi algerina che portò all’estromissione dal governo francese degli esponenti islamisti.

A causa dell’importanza di queste politiche interne, non bisogna dimenticare il fronte fondamentalista che sta entro i confini della realtà statale francese. Rispetto all’Italia, le cellule terroristiche hanno migliori coperture e possono contare sull’appoggio delle periferie cittadine, per quanto riguarda il proselitismo di nuovi Jihadisti, i quali non sempre sono di origine islamica. Queste nel corso di decenni di mancata integrazione sono diventate delle città nelle città, fucine di rancore e risentimento. Non a caso la Repubblica Francese spicca come primo serbatoio europeo di Foreign Fighters, oltre 1500.

Molti dei lupi solitari coinvolti nelle aggressioni del 2015 e nel 2016 avevano alle spalle esistenze di disagio. Provenivano quasi tutti dagli arrondissement esterni alla capitale e dalle banlieue di altre città. Queste sono da tempo il nervo scoperto dell’antiterrorismo d’oltralpe, fuori dal controllo delle forze dell’ordine in cui l’attività di monitoraggio è particolarmente difficile. Per tutto ciò il problema del radicalismo islamico di matrice terroristica è lontano dall’essere risolto.

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