INTERVISTA a Laura Boella

“Essere una donna vuol dire dare significato

e valore alla propria esistenza in quanto

esistenza di una donna.”

 

Parlare di filosofia nel 2018 potrebbe sembrare noioso, non in linea con i nostri tempi, soprattutto agli occhi dei più giovani. Non è così: la filosofia non passerà mai di moda poiché pensare, riflettere e prendere coscienza della realtà, fa parte di noi stessi. Forse vi starete chiedendo: Filosofia e Cuneo, che legame c’è? Ebbene, non tutti i filosofi sono connazionali di Platone e Socrate! Laura Boella ne è un valido esempio: nata a Cuneo, ha frequentato il liceo classico e si è laureata in Giurisprudenza. La passione per la filosofia, specie riguardo all’etica e alla morale, l’ha accompagnata nel suo percorso di studi e di insegnamento e le ha permesso di diventare una filosofa di oggi, dando voce al pensiero come solo questa magnifica materia sa fare. Diamo la parola a Laura Boella, ringrazandola per averci concesso questa intervista!

  1. Chi è Laura Boella? Come si definisce una filosofa del suo livello?

Mi definisco una persona che, scrivendo e insegnando, cerca di mettere in forma di parole (scritte e parlate) che cosa significhi vivere, pensare, agire nel mondo attuale.

  1. Perchè ha scelto di dedicarsi alla filosofia, soprattutto all’ambito dell’etica e della morale, distaccandosi dai suoi studi in giurisprudenza?

Mi sono iscritta  a Giurisprudenza perché non volevo seguire le tracce dei miei genitori (mio padre professore di latino e greco e mia madre insegnante di filosofia. Erano gli anni intorno al ’68: il diritto, che amo ancora adesso, mi sembrava un modo concreto per impegnarmi. Poi il ’68 a Pisa mi ha fatto capire che c’erano pensatori rivoluzionari (Walter Benjamin, Gyorgy Lukacs, Ernst Bloch), legati alle vicende del marxismo, e insieme protagonisti di grandi “rivoluzioni” del pensiero. Così mi sono laureata in Filosofia del diritto (sul giovane Lukacs) e ho continuato a occuparmi di filosofia.

  1. Come spiegherebbe il significato di morale e che differenza c’è con l’etica?

La distinzione di etica e morale varia molto a seconda degli autori. Mi limito a metterla in questi termini: la morale riguarda la questione del ragionamento e del giudizio morale (distinzione di bene e di male, criteri di una condotta di vita buona) ; l ‘etica riguarda invece il rapporto tra la coscienza morale e la società, le istituzioni, le concezioni, storicamente variabili, di virtù e di obbligo morale.

  1. Nel mondo di oggi, sempre più frenetico , egoista e talvolta indifferente, come si può ancora parlare di valori, di empatia, di bontà e di giustizia?

Nel mondo attuale vige il pluralismo (non il relativismo) dei valori e delle forme di vita. Gli individui, a meno che non abbiano una fede religiosa da cui deriva una morale, non hanno più codici stabili di riferimento. Parlare di bontà, empatia, giustizia vuol dire fare appello non a norme o regole di condotta, ma a modi di essere e di stare in relazione con gli altri che possono ispirare la vita delle persone.

  1. Quali sono i filosofi da cui ha tratto ispirazione e quale l’ha interessata maggiormente?

Da un lato, Ernst Bloch (il filosofo della speranza), Walter Benjamin, dall’altro, Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein. Hannah Arendt è stata forse la più importante.

 

  1. Parliamo di lei. Le piace la sua vita?

Alla mia età, sarebbe dir troppo che mi piace la mia vita. Se guardo indietro, mi sembra di aver vissuto molto intensamente, di aver fatto molti errori, ma in un certo senso di essere rimasta fedele a me stessa, alle mie passioni (non solo filosofiche).

  1. Cosa sognava da ragazza?

Sognavo di diventare attrice, ma non credo che ne avessi il talento.

  1. E’ credente?

No.

  1. Sappiamo che ha frequentato il Liceo classico “Pellico” di Cuneo: che ricordi ha di quegli anni? Come reputa quella scuola?

Ho dei ricordi molto belli, anche se, per vari motivi, a differenza di molti miei compagni di classe, non ho mai avuto una “compagnia” (cioè un gruppo) ed ero piuttosto solitaria. Non dimenticherò però mai che tra compagni di liceo si scopriva la musica, si andava in montagna, si leggevano riviste politiche.

  1. Quando e come si è avvicinata alla scrittura? Cosa rappresenta per lei?

Innanzitutto scrivere è stato un “compito” accademico. Pubblicare un saggio o un libro era necessario per partecipare ai concorsi. Dal momento in cui non ho più avuto concorsi da vincere, scrivere è diventato il modo di comunicare (non ai miei colleghi che perlopiù non leggono) alle persone più diverse ciò che penso su argomenti come l’empatia, che mi sembra fondamentale per la vita di relazione, oppure la mia interpretazione di figure femminili (Etty Hillesum, Ingeborg Bachmann e altre).

  1. Nella sua brillante carriera si è spesso occupata dello studio del pensiero femminile, perchè?

Si è trattato di una svolta decisiva, avvenuta intorno al 1987, quando è stata pubblicata in italiano l’opera di Hannah Arendt, La vita della mente. Credo di essere stata la prima ad aver fatto un corso su Arendt in Italia, seguito da corsi su Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein. Allora era in corso la scoperta del pensiero femminile del ‘900: si tratta di una “tradizione nascosta”, accademicamente non riconosciuta. Adesso le cose sono cambiate: Arendt, Weil e altre pensatrici sono quasi dei “classici”. Io continuo però  a insistere sul carattere “eretico” del loro pensiero. Quetso è per me il valore del pensiero femminile.

  1. Crede che la donna in qualche modo stia raggiungendo quella parità tanto sognata ma spesso e volentieri ostacolata?

Credo che la parità di diritti, per quanto importante, non porti automaticamente alla libertà femminile, che è la convinzione che, essere una donna, vuol dire dare significato e valore alla propria esistenza in quanto esistenza di una donna (e non di un essere che insegue modelli maschili).

  1. Violenza sulle donne e femminicidi: esagerazione o verità?

Direi realtà (anche se la parola femminicidio non mi piace, è violenta) che riguarda l’incapacità degli uomini di reggere la libertà femminile. Questa è una delle contraddizioni più forti del nostro tempo.

  1. Spostiamo la nostra attenzione sulla sua città natale: Cuneo. Cosa ne pensa della città?

Cuneo è bellissima, ma, essendo andata a Pisa a 18 anni, tranne qualche amico, non conosco più nessuno, le facce mi sono estranee.

  1. Ha nostalgia della zona, ora che vive a Milano?

Fortunatamente ho ereditato dai miei genitori un piccolo appartamento a Entracque, dove passo tutta l’estate e anche d’inverno le vacanze e il fine settimana. Ho potuto così riscoprire le Marittime, le montagne della mia giovinezza. Dato che cammino da sola, purtroppo non mi azzardo più a salire il Gelas, la Maledia o l’Argentera, ma vado al Pagari o al Remondino e guardo le meravigliose cime delle Marittime da lontano.

  1. Dal punto di vista etico, come descriverebbe Cuneo, o meglio, la mentalità dei cuneesi?

Non bisogna generalizzare, ma ho l’impressione che vivere in una città di provincia, per quanto vivace come Cuneo, non permetta di stare al passo con le sfide, spesso dolorose, di una metropoli come Milano. Una vita più sicura e tranquilla tiene lontani dalle contraddizioni del nostro tempo. Per me è un imperativo etico stare, per quanto è possibile, al centro delle contraddizioni.

Intervista a Marco Olmo: “È dura imparare a perdere ma bisogna riuscirci”

Correre per vivere o vivere per correre ? Ecco una domanda che sorge spontaneo chiedere a Marco Olmo. L’ Ultramaratoneta instancabile è uno dei più corridori più longevi e in gamba di sempre che nonostante i suoi successi in giro per il mondo, le gare vinte, i trofei meritati… conserva quell’umiltà tipica della gente di montagna. Marco ama la vita tranquilla di Robilante che in qualche modo rispecchia la sua personalità pacata e modesta. Ma è la corsa il suo vero amore. Chilometri e chilometri senza mai fermarsi e un passo alla volta verso una sola destinazione: la vita!

Come e quando è iniziata la sua carriera atletica?

Ho iniziato ad allenarmi 36 anni fa. Prima correvo ma avevo altre preoccupazioni, dovevo guadagnarmi da vivere.

Cosa ami di più della corsa?

Mi piace correre e questo mi ha dato notorietà: diciamo che è stata una sorta di rivendicazione dai tempi miseri della mia gioventù.

 La definiscono ultramaratoneta, perché?

Ultramaratoneta perché faccio gare lunghe, oltre ai km delle maratone, in montagna, nel deserto: le ultramaratone possono essere a tappe o non-stop di 160 km.

Qual è il suo segreto per la resistenza?

È un dono di natura ma serve anche sapersi gestire: bisogna conservare “la macchina” fino alla fine e la mia ha funzionato sempre bene.

Quali gare sono state maggiormente significative?

Per parecchi anni ho corso le gare locali e una tra le più significative è stata una gara tra i rifugi ad Artesina nel 1985 dove ho vinto insieme a Dario Viale. Un’altra importante è la gara del 1996: la Marathon des Sables che mi ha fatto conoscere in giro. Ne ho fatte tante fino ad arrivare alla non-stop in Libia e tra la Valle della Morte o ancora l’Ultra Trail du Mont Blanc…

Ci parli di lei. Come è stata la sua infanzia?

L’infanzia dei montanari della zona alle prese con il lavoro di campagna e la miseria. Allora servivano pochi soldi, non c’era la televisione, non avevamo né lo smartphone né la macchina quindi le spese erano poche e facevamo il baratto. Non ho proprio un bel ricordo: la miseria non porta felicità, la ricchezza neanche ma la miseria peggio.

Che scuola ha frequentato?

Ho un attestato di quinta e poi ho fatto una sesta ma non è valida. Le scuole medie non c’erano ancora e a volte mi manca non sapere determinate cose come l’inglese.

Che lavoro ha svolto o svolge tuttora?

Da giovane ho lavorato in campagna o come boscaiolo, ho spalato neve. Poi ho fatto il camionista per otto anni e infine ho lavorato nelle cave. Adesso sono in pensione.

Quale è stato il suo più grande sogno?

I sogni sono vari in base all’età: da giovane sognavo di vincere al totocalcio ma non ho mai giocato. Non c’era un sogno preciso per noi che eravamo in montagna poiché si faceva tutto ciò che si poteva e si riusciva. Dai 33 anni il mio sogno è stato quello di vincere le gare di corsa.

Sappiamo che è vegetariano. Perché questa scelta?

L’ho scelto ormai 31 anni fa prima per motivi di salute (ero sempre stanco), così mi sono rivolto ad un medico-dietologo che aveva scelto il vegetarianesimo e io seguendolo sono migliorato. Da lì è diventata una scelta di vita che credo sia giusta.

Qual è il suo pasto tipo?

Da alcuni mesi sto testando un pane che si chiama Primus pane ed è un pane più proteico della carne fatto con grani antichi e legumi. Mangio molto pane, patate, pasta preferibilmente biologica. Inoltre ho scoperto che i vegetariani non possono mangiare il formaggio (il caglio ha origine dallo stomaco dei vitelli appena nati) ma si può produrlo anche con il caglio vegetale fatto di cardi azzurri e aceto fermentati. L’ho assaggiato: è buonissimo e costa molto meno.

È d’accordo con la frase: “Noi siamo quel che mangiamo”?

Sì: se mangi intossicato, sei intossicato e se sei carnivoro, sei molto più aggressivo rispetto ad un erbivoro! Anche il digiuno serve per depurarsi.

Parliamo di Cuneo. Vorrebbe viverci? Se sì, perché?

Cuneo non è male (se non devi parcheggiare!). Puoi uscire per correre o passeggiare anche quando piove perché ci sono i portici, c’è il Viale, il Parco fluviale… Cuneo è una città bella e piccola anche se preferisco vivere qui a Robilante.

Cosa le piace e cosa non le piace della nostra provincia?

Anche la Provincia non è male: dovessi andare via da qui non troverei nessun altro posto dove starei così bene. Forse è fin troppo grande ma siamo un’isola felice: la provincia di Cuneo è vivibile e ha tutto.

Definisca Robilante, il suo paese, in tre aggettivi.

Tranquillo. Abbastanza bello. Facilmente accessibile.

Pensi che i risultati nel mondo dello sport derivino dal talento oppure dall’allenamento costante?

Ci vogliono tutti e due: devi fare un mix.

Come si potrebbe convincere i giovani ad una vita sana (alimentazione ed esercizio) e avvicinarli allo sport?

Ci sono molti giovani che praticano sport, loro hanno la possibilità di scegliere ma forse non lo fanno perché sono troppo forzati dai genitori. Devono invece iniziare a praticarlo come un gioco senza pretendere chissà quali risultati, senza tener conto di ciò che ci impongono i media (cioè valgono solo il primo e il secondo posto): lo sport è per tutti e lo si deve fare per partecipare, per educazione, per imparare a vivere con gli altri e imparare a perdere soprattutto. È dura imparare a perdere ma bisogna riuscirci.

Quali differenze riscontra tra i giovani di oggi e quelli di ieri?

Quella di oggi è un’altra epoca. Forse i giovani ora sono più coccolati, hanno maggiori opportunità che i giovani di una volta non avevano e ben venga! Ai mie tempi non si aveva tutto come si ha oggi e anche fare sport non era visto come passatempo, poi è arrivato il benessere ed è cambiato il mondo. A noi dicevano: “Non star a correre che ti viene fame!”.

Barba Brisiu: << La cosa più seria che esiste è essere bambini >>

Siete sicuri che per scolpire serve lo scalpello? Dopo aver conosciuto Barba Brisiu la risposta è no, o almeno, non se si ha passione, immaginazione e grinta! Barba Brisiu è l’uomo dei monti, l’artista del legno più apprezzato nella zona e non solo, ma soprattutto è lo scultore….con la motosega. Una dimostrazione concreta e davvero originale di come un artista possa esprimersi attraverso tutto ciò che lo circonda, non importa se si va controcorrente, anzi, è proprio questo il bello dello “scultore motorizzato ” Barba brisiu

1) Come mai il nome “Barba Brisiu”?                                                                                                                                                  Questo nome deriva dal fatto che sono zio di tanti nipoti: “barba” in piemontese vuol dire zio e poi “Brisu” è il diminutivo piemontese di Fabrizio. Così mi hanno sempre chiamato i miei nipoti e allora è rimasto il mio nomignolo. Inoltre ho anche la barba e spesso in giro pensano che il mio nome derivi proprio da questo.

2) Da dove nasce la passione per la scultura?                                                                                                                              Sin da bambino ho sempre avuto la voglia di creare: costruivo anche con il dash e il pongo mentre giocavo. Poi crescendo sembrava che perdessi tempo con le mie costruzioni, non avevo la possibilità economica di seguire corsi di scultura e nemmeno di comprarmi gli scalpelli…Finché mia  madre mi regalò una motosega per potare gli alberi e io la usai per scolpire, scoprendo che non era una mia invenzione ma esisteva già questa tecnica.

3) Qual è stata la sua prima opera?                                                                                                                                              La prima scultura l’ho fatta proprio grazie a quella motosega, a Beguda, trasformando un albero tranciato dal vento in un “custode del bosco”: uno gnomo stilizzato che all’epoca mi sembrava un’opera fantastica. Oggi non c’è più perchè si era deteriorato ma ne ho tenuto un pezzo che conservo a casa.

4) Quanto tempo impiega per “dare vita al legno”?                                                                                                                    Non c’è un tempo calcolabile: dipende molto dall’ambiente, dal pezzo di legno, dall’ispirazione. Con la motosega si fa velocissimo e ci impiego decisamente meno degli scultori tradizionali.

5) Ci descriva brevemente i passaggi.                                                                                                                                          Per prima cosa sento quali sono i desideri della persona che mi commissiona il lavoro, anche se non mi costringono mai, e mi lasciano la possibilità di interagire con il pezzo di legno. Una volta capito questo cerco di studiare l’ambiente in cui verrà messa la scultura, ciò aiuta ad ispirarmi. Dopodichè c’è una sorta di comunicazione con il legno: come se parlasse e mi suggerisse cosa fare, mi spiega i suoi pregi e i suoi difetti. Così posso iniziare il lavoro: comincio immaginando le proporzioni e mi aiuto molto con la collaborazione del legno. Tutto è un susseguirsi di creazioni spontanee nate sul momento, ecco perchè non c’è mai una scultura uguale ad un’altra.

6) Cosa vuole trasmettere con la sua arte?                                                                                                                              Quello che mi piace e mi rende orgoglioso è il fatto che trasmetto la voglia di essere bambini sempre che è la cosa più seria. Questo perchè i bambini trovano sempre il modo di risolvere tutto senza farsi tanti scrupoli e problemi. Faccio sempre questo esempio: c’è una platea di gente e nel mezzo un bambino e un adulto, si chiede a entrambi di disegnare su un foglio bianco un lupo. L’adulto comincia a disegnare un lupo bravo ma poi si ferma e pensa: “Non lo posso fare bravo perchè magari qui è pieno di allevatori che non credono che il lupo sia bravo, anzi…”, così prova a disegnarlo cattivo ma prima pensa: “Ma ci sono sicuramente anche gli animalisti qui intorno che mi possono dire qualcosa!”. Dopo mezz’ora il foglio resta bianco. Al contrario il bambino ha già disegnato il lupo alla sua maniera e perciò tutti lo applaudono. Quello che voglio trasmettere è proprio la voglia di essere bimbi e anche far capire che nella nostra zona c’è tanta gente in gamba con molte capacità ma che spesso incontra sul suo cammino un muro. Purtroppo c’è questa mentalità sbagliata che non agevola la voglia di fare dei giovani ma se si trasmette la tenacia e si va contro corrente, si arriva ovunque nella vita. Il mio lavoro è come un gioco per me, però mi pagano per giocare e questo perché ci ho provato. Bisogna buttarsi: se uno non ci prova non succederà mai niente.

7) Ci parli di lei. Ha sempre solo fatto lo scultore?                                                                                                                      No, tutt’altro! Ho iniziato come geometra, poi mio padre si era ammalato e avevo dovuto prendere il suo posto da fabbro per sette anni in Liguria, dove aveva una società. Però non mi piaceva, sentivo il richiamo delle montagne e infatti sono tornato, mi sono sposato e ho ripreso l’attività di geometra. Nel frattempo sono anche stato operaio alla Pirinoli dato che quel lavoro da cantiere mi stava un po’ stretto. Così ho fatto l’operaio per dieci anni in un’azienda edile occupandomi di ingegneria naturalistica. Poi un anno e mezzo fa non ce l’ho più fatta e me ne sono andato, stanco di quel mondo di lavoro dove ci si guadagna da vivere stando seduti e compilando carte. Dunque ho scelto di rendere la mia passione per la scultura un vero e proprio lavoro e devo dire che funziona davvero molto bene.

Perché ha scelto di vivere a Tetto Aradolo a 1000 metri di quota?                                                                                              Anche qui è stata una concomitanza di eventi. C’è sempre stata l’idea di andare in un posto che mi rispecchiasse e appena ne ho avuto la possibilità, l’ho colta al volo. Lassù siamo proprio fuori dal mondo: quando apriamo le finestre di casa vediamo le due vallate, Gesso e Stura, oppure i caprioli e mi sento davvero a casa.

 E’ credente?                                                                                                                                                                             Sono credente…ruffiano! Nel senso che lo sono quando ne ho bisogno anche se so che non è una cosa giusta. Penso che essere credente non sia così semplice: per esserlo davvero bisogna avere moltissima fiducia ma sono troppi i contrasti, troppi dubbi, troppe ingiustizie… Sono certo che c’è qualcuno lassù che mi aiuta nel momento del bisogno, so che non posso dargli delle colpe che non può avere, però la questione della fede è seria e mi danno fastidio quelle persone che fingono di essere credenti quando conviene loro (come chi vuole a tutti i costi proteggere il crocifisso nelle scuole, ma che poi non lo guardano mai). Uno deve essere convinto di quel che crede. Inoltre credo che la vita sia tanto grigia, né bianca, né nera: non esiste il vero bene e il vero male, ma un insieme di sfumature.

Ha figli? Se sì, ha trasmesso loro la sua passione?                                                                                                                     Ho tre figlie: 19, 16 e 13 anni, le più belle sculture che ho fatto! A mia figlia di 16 anni ho trasmesso la passione della scultura, alla figlia più piccola ho trasmesso la tecnica e la passione per il legno ma non la poesia dello scolpire e la più grande fa Agraria. Quindi penso di aver suggerito loro l’interesse per il nostro territorio e del nostro modo di vivere. Certo, sono moderne e vivono come i giovani (chitarra elettrica, moto…), comunque la passione c’è sicuramente e viene interpretata da loro in maniera differente.

8) Spostiamo l’attenzione sulla città di Cuneo. Cosa ne pensa della città? Ci dica quali sono secondo lei i pregi e i difetti.            La città vera e propria non la conosco bene ma solo marginalmente, non avendoci mai vissuto. Più che altro sono curioso: non so come sia la vita qui, so solo che tutte le comodità che ci sono rendono gli abitanti un po’ troppo ben abituati. Vedo la città con gli occhi da “muntagnin” (montanaro) e l’unica cosa che vorrei è il rispetto da parte di tutti, cittadini e non. Credo che la città non abbia una sua identità perché sono i cittadini che la creano. Infine posso dire che Cuneo mi sembra una città abbastanza ordinata e ho tanto rispetto del sindaco: lui sì che vede oltre e ha una marcia in più!

Lei pensa che ci siano dei giovani nella zona interessati alla sua arte e che desiderino impararla, nonostante la loro vita sempre più tecnologica e virtuale?                                                                                                                                    Sicuramente ci sono e alcuni sono già attivi. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la questione della tecnologia è proprio ciò che mi avvantaggia nel far capire che il mio metodo di scolpire è abbastanza irrazionale. Nel mio lavoro tutto è il contrario di tutto, a volte mi trovo ad utilizzare bombolette spray come i giovani e per questo i ragazzi ne sono attirati: si rendono conto che con qualsiasi strumento possono esprimersi.

9) Cosa ne pensa della digitalizzazione di oggi?                                                                                                                            A me piace tantissimo. Io paragono Internet ad un martello: se il martello viene adoperato per piantare un chiodo, allora è lo strumento che ci vuole; se viene adoperato per fare del male, diventa un’arma. Dunque dipende da chi lo usa e da come lo usa. Internet è quello che mi ha dato visibilità perchè si può comunicare con il mondo in un istante, mentre una volta era tutto più complicato.

Davide Arneodo: «Non c’è via di fuga alla musica»

 

Davide non è un musicista qualunque, è un musicista con la “M” maiuscola: violinista, compositore, musicista folk e occitano, poi membro dei Marlene Kuntz, innovatore, curioso di cimentarsi con nuovi stili e generi, ma anche fondatore di band e persino solista. Sempre alla ricerca dell’autenticità del suono, attraverso una lunga carriera con non poche difficoltà e molte soddisfazioni, ha basato la sua vita sulla musica.
Il suo sguardo trasmette fiducia e tenacia, le sue parole toccano il profondo e si percepisce subito lo spirito artistico di un grande uomo. Non si può restare indifferenti di fronte ad una personalità così intrigante e melanconica e, forse, proprio questa sua caratteristica gli ha permesso di diventare così amato nel mondo della musica.

1) Come e quando ti sei avvicinato alla musica?

Ho iniziato prestissimo, intorno ai dieci anni. Giocavo in casa con il violino di mio padre insieme ai soldatini e ai pupazzi fino a quando lui mi ha iscritto al conservatorio, ho fatto il concorso e sono arrivato primo. Da lì è iniziato un percorso e nessuno mi ha mai forzato ad imparare a suonare, anzi, mi hanno lasciato libero di scegliere e di capire che la musica era una passione. Mi sono impegnato molto, ho studiato, ho scelto di vivere di musica e infatti a 20 anni ero già un professionista.

2) Perché dal violino sei passato al rock e alla musica elettronica? Quale genere ti rappresenta maggiormente?

In realtà il mio percorso è più complesso, graduale e variegato: ho iniziato con la musica classica, attorno ai 15 anni mi sono avvicinato al genere folk e occitano fondando dei gruppi con successo, tanto che abbiamo pubblicato un album e intrapreso un tour in Europa. Dal folk sono passato al rock con gli “Instrumental Quartet” e ho capito che per me la creatività era più importante della dedizione. Inoltre ho studiato per quattro anni il tabla indiano, ho fatto anche jazz per poi passare alla carriera da solista. Così mi sono fatto conoscere come compositore anche grazie ai “Vov”, un gruppo con Marta Mattalia, che ci ha portati a collaborare con vari artisti. Contemporaneamente mi sono arrivate altre proposte importanti, per esempio da L’Aura e poi dai Marlene Kuntz.
Sono sempre stato il più giovane e se da una parte era stimolante, dall’altra mi sono sempre dovuto confrontare con “i grandi” e ho imparato ad apprezzare di più il lato creativo che mi caratterizza. Comunque la mia direzione è stata l’elettronica, per la sua modernità e per l’affinità con il mio essere.

3) Parlaci della tua infanzia a Cuneo. Che scuola hai frequentato?

Ho frequentato il liceo classico e poi mi sono laureato in violino al conservatorio. 

La tua famiglia vive tuttora a Cuneo? Cosa ne pensano della tua carriera?
Sì, loro vivono qui. Mi hanno sempre supportato, non tanto sul lato economico, ma proprio psicologicamente e continuano a farlo. Per me è molto importante avere persone vicine che credono in ciò che faccio e che sono orgogliosi di me.

4) Come hai conosciuto i Marlene Kuntz e come sei entrato in contatto con loro?

A Cuneo c’è uno studio, il Modulo studio, dove ero andato per farmi fare un sito. Il ragazzo che faceva le grafiche era il blackliner dei Marlene e dato che una cosa tira l’altra, senza che me lo aspettassi, ho avuto la fortuna di farmi conoscere da loro e poi da Maroccolo (produttore discografico dei Marlene). Così il gruppo ha iniziato a studiarmi durante le tournée per ben tre anni e sono piaciuto a loro soprattutto per la mia attitudine spericolata sul palco.

 5) La collaborazione con una band così importante ti ha cambiato la vita?

Direi di sì, completamente: ero già prima un professionista a 18-19 anni con L’Aura, ma lo facevo per gioco. Quando ho iniziato, attorno ai 22 anni con i Marlene Kuntz avevo già esperienza e un buon numero di concerti alle spalle. Quello che loro mi hanno fatto capire è che la musica può essere un lavoro e quindi questo cambia la tua attitudine, amplia le tue possibilità, diventi parte di un qualcosa: la musica diventa la tua vita.

Suonerai ancora con loro?
Mai dire mai. Ho 34 anni e ho capito che non si può mai sapere cosa capiterà in futuro. Avevo fatto la scelta di rifiutare la loro proposta di una collaborazione dopo che i Marlene avevano mantenuto la loro idea di essere filologici ed erano tornati ai membri originali, cioè quattro: ci eravamo presi un periodo di riflessione. Poi circa un mese fa Rai radio 1 ha voluto omaggiare i vent’anni di “Ok computer” dei Radiohead e ha chiamato varie band italiane, tra cui i Marlene Kuntz e loro mi hanno ricontattato per produrre una cover che è piaciuta molto. Quindi, grazie a questo successo, la band mi ha nuovamente proposto di lavorare insieme ma io ho rifiutato perché sento il bisogno di concentrarmi al 100% sulla mia musica. Però non posso prevedere cosa succederà, vedremo…

 6) Come hai scoperto la passione per gli strumenti “alternativi” come il Mandobird?

Fa parte del mio essere: fin da bambino ho sempre avuto l’attrazione per il diverso e estraneo alla massa. Infatti, già il fatto di aver portato il violino nella musica rock, fa capire la mia idea di innovazione musicale. Io voglio cercare il suono vero, non quello uniformato e attraverso il Mandobird, che è un mandolino elettrico, ci sono riuscito. Però il bello sta nell’ambito completamente differente in cui suono questi strumenti: il Mandobird, il Moog, persino i Talba indiani vengono adattati alla musica elettronica. Inoltre ho sempre voluto concentrarmi sul concetto del suono e non sull’esibizione, andando così al di là del tradizionale e questi strumenti mi sono serviti per la mia ricerca sonora.

 7) I Marlene Kuntz non sono gli unici con cui hai suonato… Come è nata l’idea dei Vov? E di Perdurabo?

Credo che sia stato per il mio talento e perché destavo interesse. Mi hanno iniziato a cercare sin da quando avevo 18 anni, prima i New Trolls e poi i Pfm (due gruppi epici). Da parte mia sentivo l’esigenza di essere me stesso ed è per questo che ho fondato i Vov con Marta Mattalia. Oggi posso dire di essere riuscito nel mio scopo, dopo quattro anni nei quali ho mantenuto la riservatezza: Perdurabo sono io, è il mio nome, non è un progetto, non è una band e nemmeno una collaborazione. Non ho più costrizioni, non dipendo più dagli altri perché sono libero.

 Perché Perdurabo?
È un termine latino che significa “durerò fino alla fine”, ma anche il nome del padre dell’esoterismo moderno. A me non interessa tanto il lato oscuro di questa filosofia, bensì la concezione della libertà nel creare e di durare fino alla fine con la forza di affrontare ogni sfida che la vita ci pone davanti. Infine posso dire che Perdurabo è il mio mantra e il mio augurio che mi ripeto ogni mattina!

 8) Leggendo i testi e ascoltando alcune delle tue canzoni («La rossa tristezza», «La realtà della pioggia»…) si percepisce una nota di malinconia, come mai?

Più che altro direi di melanconia, è diverso. Fa parte del mio essere: mi è sempre interessato il lato nascosto delle cose e delle persone, quello malinconico e celato da un sorriso. Diciamoci la verità: Cuneo non aiuta ad essere allegri e l’attitudine dei cuneesi è proprio malinconica e melanconica e poi (ridendo) a Cuneo non c’è nient’altro da fare se non quello a cui ti piace dedicarti!
Da quelle mie prime canzoni non sono cambiato molto, forse ho aggiunto potenza e consapevolezza.

 9) Ritorniamo sul personale. Come ti descriveresti?

Difficile. Inizio con il dire che la mia musica è fuori dai canoni e indescrivibile (come è riportato sulla mia etichetta), proprio come la mia personalità. Mi piace molto il cambio di visione della musica che sta avvenendo oggi, dove si trova una canzone in base allo stato d’animo e questo perché io do molto peso all’emotività di ognuno. Penso che ogni persona abbia diverse facce e dunque è difficile descriverla, però posso affermare di essere osservativo, melancolico (mi piace l’aspetto poetico della vita), curioso, tenace…

 Che progetti hai per il futuro?
Portare la mia musica a tutti, proprio tutti.

Cosa sognavi di fare da grande?
Mentre suonavo la mia tastiera sognavo di essere dinanzi al pubblico su un palco. Volevo suonare e l’ho fatto e lo continuo a fare.

Cosa ami di più della musica?
La potenza che ha in sé e che non puoi evitare. Infatti la musica ti può dare molto, ma anche essere fastidiosa: non si può restare indifferenti perché lei ti entra dentro, non hai via di fuga. Per questo la amo.

A chi t’ispiri e quale canzone ti rappresenta meglio?
È difficile siccome la mia carriera è ampia. Il mio primo idolo è stato Paganini: ho suonato il suo violino, sono andato nella sua casa di campagna, ho cercato tra i vari archivi l’indirizzo e posso dire che in quello che sono oggi c’è tanto di lui… Lo stesso ho fatto con Yann Tiersen andando sull’isola in cui vive. Dunque il mio approccio è sempre stato fisico: dovevo conoscere la vita dei miei idoli e ciò mi ha influenzato molto. Per quanto riguarda la canzone direi “Ok computer” e “No surprises” dei Radiohead.

Dove vivi adesso e perché sei andato via da Cuneo?
Vivo a Berlino, bellissima città ma anche molto dispersiva che comunque offre molte possibilità ai giovani a differenza di Cuneo.

 10) A proposito di Cuneo. Chi ti ha aiutato durante il tuo percorso musicale?

La prima persona che ha creduto in me, dopo mio padre, è stato il mio insegnante di solfeggio, Aldo Sacco, che ha subito capito il mio talento. Un’altra persona che vorrei ringraziare è Paolo Beltrando, tecnico e musicista grazie al quale sono stato presentato ai Marlene. Lui mi ha fatto da tramite e ha avuto fiducia in me.

Ti piace la città? Cosa cambieresti?
Tutto ah ah ah! Potenzialmente è una città totale: buon cibo, natura strepitosa che ci invidiano ecc. Però c’è quel modo di essere cuneesi, come se bastasse il microcosmo attorno, come esistesse solo la propria vita e nient’altro. Fondamentalmente il cuneese sta bene economicamente ma non emotivamente: il suo microcosmo da protettivo diventa asfittico ed è difficile uscire da questa bolla. Quindi quello che io cambierei in Cuneo non è la città ma le persone. Faccio un esempio: quando ero adolescente il Nuvolari era molto in voga (è proprio lì che ho conosciuto L’Aura), in piazza Galimberti si organizzavano concerti davvero interessanti (persino uno con Patty Smith!). Oggi tutto questo non esiste più e per i giovani il massimo è andare dal dj del paese e farsi sparare la schiuma in faccia, allora mi chiedo: che tipo di messaggio stiamo trasmettendo ai giovani? Date loro qualcosa di stimolante e creativo! Non sono contro il cambiamento, sono contro l’impoverimento culturale, poiché la musica deve educare e a Cuneo manca questa idea.
Infine posso dire che sto assistendo ad una contaminazione culturale anche nella nostra città e almeno di una cosa a Cuneo sono felice.

Pensi sia più facile la vita di un musicista in Italia o all’estero?
È difficile ovunque. In Italia c’è una creatività unica, ma purtroppo manca la cultura musicale e il gusto. La mia esperienza all’estero mi ha insegnato che altrove (Londra, Berlino…) esiste un atteggiamento più serio nei confronti dei musicisti: non vengono sminuiti, anzi, vengono incentivati. Nel nostro Paese vige in cosiddetto “nonnismo” per cui i giovani vengono sottovalutati se non criticati e se non hai la forza di continuare ad inseguire il tuo sogno, ti arrendi, dai retta al giudizio altrui, non vivi come vorresti.

 11) Sappiamo che ti sei anche dedicato al teatro. Cosa rappresenta per te?

Il teatro è una parte importante della mia carriera. Sinceramente all’inizio non mi interessava, lo trovavo macchinoso e finto. Poi un anno, quando suonavo con i Marlene, abbiamo pensato ad una sorta di reading dove noi suonavamo contemporaneamente alla lettura di qualche scritto. Così siamo venuti in contatto con Tiziano Scarpa e abbiamo collaborato con lui creando “Lo show dei tuoi sogni”: uno spettacolo piaciuto persino al Festival delle letterature di Roma, uno dei più importanti d’Italia. Lì abbiamo conosciuto Fabrizio Arcuri, uno dei registi italiani di teatro contemporaneo della accademia degli artefatti, e ci ha proposto di far diventare lo show un vero e proprio spettacolo teatrale. Grazie a questo ho iniziato a vedere il teatro in modo diverso e ho capito che la mia musica aveva affinità con quel tipo di produzione: non ero solo più musicista, ma anche attore e recitavo in scena ecco perché mi piace il teatro sperimentale, fuori dalla norma. Dopodiché ho portato in scena la mia prima opera teatrale a Berlino e anche Hansel e Gretel in tutta Italia.
Il teatro è diventato una sorta di parentesi sensibile del mio modo di fare musica: teatro e musica devono interagire tra loro. Adesso sto per scrivere un’opera di Cechov e la cosa che mi piace di più è che ho carta bianca, come mi ha insegnato Arcuri, e posso essere musicista ma anche attore: è davvero molto stimolante.

12) Che messaggio vorresti dare ai giovani cuneesi e non?

Bencosme. «Non penso a partecipare, penso a vincere!»

Trovare un solo aggettivo per descrivere Josè non è affatto semplice. Frizzante, deciso e loquace, dallo sguardo vincente e un’umiltà disarmante.

Josè Bencosme è un ragazzo di 25 anni, nato in Repubblica Domenicana ed emigrato a Borgo San Dalmazzo. Appassionatosi all’atletica grazie alle gare scolastiche e specializzato nei 400 metri ad ostacoli, oggi gareggia a livello mondiale. Vince, perde ma mai si arrende, sicuro delle proprie capacità e determinato verso un futuro di grandi successi. Ecco, è lui Bencosme e noi di 1000miglia lo abbiamo incontrato…sul campo di atletica di Cuneo!

Lo ringraziamo ancora una volta per la disponibilità e la cortesia che ha reso possibile questa meravigliosa intervista.

1)Come hai iniziato a praticare l’atletica?

Tutto è iniziato dieci anni fa con la scuola, grazie al mio professore di ginnastica che ha visto buone capacità e si è accorto delle mie doti. Infatti vincevo varie gare scolastiche. Mi è piaciuto subito l’ambiente, un po’ meno la corsa, dato che preferivo gli sport di squadra. Poi mi sono innamorato del mio gruppo di gara e ho continuato. Così dopo dieci anni sono qui e amo ciò che faccio.

2)Qual’è il tuo più bel ricordo delle prime gare?

Sicuramente l’episodio che mi è successo durante i mondiali del 2005 a Bressanone: ero arrivato sul campo di atletica 10 minuti prima dell’inizio della gara. Vado a cambiarmi ma, appena apro il mio zaino, non trovo il mio body, così vado in panico… la gara sta per iniziare e gli organizzatori mi trovano un paio di pantaloni taglia s da donna: che ridere! Ah ah ah! Dopo tutta quell’ansia!!!

E poi? Quando torno in camera…Trovo tutta la mia roba pronta che avevo dimenticato!!!

3)Avresti mai pensato di ottenere risultati così straordinari alla tua età?

Assolutamente no. E’ partito tutto come un gioco e non come un lavoro. Quando sono entrato a far parte della Guardia di Finanza mai e poi mai avrei pensato di diventare come sono adesso. Devo molto all’allenatore che ha creduto in me.

4)Parlaci della tua infanzia. Perchè sei emigrato in Italia?

Fino agli undici anni ho vissuto a Santo Domingo con mia nonna perchè mia madre era già in Italia per lavoro. Lei voleva che tutta la mia famiglia andasse con lei. Ricordo che mia nonna ad un certo punto volle che anch’io partissi con lei: ero uno spirito libero, stavo sempre in giro e non riusciva a gestirmi! Alla fine io e le mie sorelle siamo partiti con nostra madre e siamo venuti ad abitare Borgo San Dalmazzo, dove ho frequentato le scuole medie.

5)Pensi che se fossi rimasto là, oggi non saresti l’atleta che sei diventato? 

Penso di sì, perché ho scoperto questo sport proprio a Cuneo e penso che se fossi rimasto a Santo Domingo avrei praticato soprattutto il basket e il baseball, che sono gli sport che facevo sin dalla prima infanzia. Però il destino è strano, chissà!

6)Cosa pensi dell’attuale fenomeno migratorio?

Sinceramente penso che sia necessario lavorare alla radice per capire qual è il problema e poi controllarlo. Ci sono tanti migranti ed è fondamentale conoscere il motivo che spinge tanta gente ad andarsene. Nel mio caso – sono emigrato anche io – ho la mia vita qui: amici, fidanzata, sport…Invece ad esempio i miei genitori soffrono abbastanza la lontananza.

7)Sei mai stato discriminato per la tua origine?

Assolutamente no. Sono arrivato in Italia e non sapevo parlare l’italiano, a scuola ho avuto la fortuna di incontrare una compagna di classe spagnola e piano piano ho imparato. Devo dire che ho trovato un’accoglienza più che calorosa da parte di tutti, ne sono davvero felice!

Per quanto riguarda lo sport, nemmeno una volta: spesso ero il più bravo e mi volevano sempre in squadra! Beh, tranne nel calcio, dove ero un po’ scarso!

8)Parliamo della tua città: Borgo San Dalmazzo. Come ti sei trovato? Cosa vorresti cambiare? E di Cuneo?

Mi trovo molto bene. Anche ora che mi sono trasferito a San Defendente, mi piace tornare a Borgo e non cambierei nulla. Anche Cuneo mi piace. Sì, è vero che manca qualche attrazione per i giovani ma a parte questo la trovo una città bella. Apprezzo molto l’Illuminata e ogni volta non vedo l’ora di tornarci, specialmente quando sono a Livorno o a Roma per l’allenamento invernale. Penso che casa sia sempre casa!

9)La città di Cuneo ti ha aiutato nel tuo percorso? Chi?

La persona che mi ha aiutato di più è stato Luigi, il tecnico, che mi aiuta tuttora sia nella carriera, sia per la mia crescita. Cuneo mi ha sempre dato la possibilità di utilizzare il campo di atletica anche durante le festività e ne sono grato.

10)Parlaci di te. E’ vero che ti chiamano Negi?Perchè?

Sì, è vero. A Santo Domingo mio padre mi iniziò a chiamare così ma non so il perchè. Là mi conoscono solo come “Negi”! Mentre qui lo usiamo solo in famiglia, tra amici mi chiamano Benco.

11)Che progetti hai per il futuro?

Innanzitutto voglio portare avanti la mia passione per l’atletica. Poi ho iniziato, grazie alla mia fidanzata che mi ha convinto, gli studi in Economia Aziendale all’università e spero di finire nell’arco di tre o quattro anni.

12)A che modello ti ispiri?

Come idolo sportivo, sicuramente Edwin Moses che è il più bravo ostacolista. Personalmente non mi ispiro a nessuno: io sono unico, a modo mio, con i miei pregi e i miei difetti.

13)Sei credente?

Sì, credo in Dio sin da piccolo. Purtroppo i giovani si stanno allontanando dalla chiesa. Secondo me credere non vuol dire solo andare in chiesa perchè si può pregare ovunque e in qualsiasi momento.

14)Siamo curiosi di sapere come ti alleni e se segui qualche dieta.

In inverno, da ottobre a febbraio, l’allenamento consiste soprattutto in esercizi aerobici per la resistenza e per rendere il corpo efficiente. In estate, lavoro più sulla velocità e spingo il corpo a sforzi elevati, talvolta traumatici e spesso provocano infortuni. Dieta? Non seguo una dieta: mangio di tutto e non sono troppo salutista. Cerco di moderare ma se mi invitano a mangiare un hamburger, non rifiuto sicuramente! Nei periodi di gara mangio molte proteine e molte verdure, diciamo che ci sto più attento. In inverno mi permetto tutto.

15)Che messaggio vorresti dare ai giovani cuneesi e non?

 

 

 

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