Arianna abbandonata e l’amore che fa male

L’isola dell’abbandono, libro di Chiara Gamberale pubblicato nel 2019, si apre con una dedica: “a chi resta”.

E questa fa sorridere una volta che si conclude questo intenso romanzo psicologico che parla prevalentemente della paura di essere abbandonati.

Secondo la versione più accreditata del mito di Teseo e Arianna, si racconta che Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, riuscì a sconfiggere e uccidere il Minotauro solo grazie all’aiuto di Arianna, la figlia del re di Creta, Minosse. La fanciulla, innamorata di Teseo, gli aveva strappato la promessa di portarla via con sé, in cambio di un filo da dipanare lungo il labirinto dove era rinchiuso il Minotauro in modo che l’eroe ne uscisse sano e salvo. Tuttavia Teseo, una volta compiuta l’impresa, non rispettò la promessa e quando giunse con le sue navi sull’isola di Nasso per far rifornimento, abbandonò Arianna sulla spiaggia mentre dormiva. Ad oggi si crede che l’espressione “piantare qualcuno in asso” – nel senso di abbandonare qualcuno – derivi proprio da qui: la formula “in Nasso” si sarebbe trasformata, per semplificazione fonetica, nell’attuale “in asso”. 

Questo mito è il fulcro del romanzo stesso, perché Arianna, la nostra protagonista, verrà davvero abbandonata dal suo grande amore sull’isola greca di Naxos.

Ma procediamo con ordine: Arianna è diventata da poco madre di Emanuele, ed è, per ora, single (o gengle, cioè “genitore single”). Ha scelto di non continuare la sua storia con Damiano, padre di suo figlio e psicoterapeuta molto più vecchio di lei, e decide di scrivere ad Emanuele una lunga lettera in cui gli racconta tutto quello che è successo nella vita di sua madre prima del suo arrivo. Il romanzo non è però, come potrebbe sembrare all’inizio, una riflessione sulla maternità (tema comunque rilevante ma che viene affrontato lateralmente, all’inizio e alla fine della storia) ma è una lunga e profonda analisi di un amore sconfinato e totale, ma letale, dipendente e tossico.

Si torna, quindi, indietro nel tempo e si scopre che Arianna è stata fidanzata per anni con Stefano, un giovane architetto che soffre di una forma abbastanza grave di bipolarismo e che non è in grado di tenere sotto controllo la sua vita. Arianna vive gli alti e bassi del fidanzato come se fossero suoi, gli fa “da madre”, annullando completamente la sua personalità per adeguarsi alla sua. La ragazza è un’illustratrice per bambini e inventa storie che ricalcano effettivamente l’umore del suo fidanzato. Soffre per i continui tradimenti e ricadute di lui ma non riesce a mollare la presa. Stefano, infatti, la convince sempre a restare dicendo che per lui lei è essenziale, che non potrebbe vivere senza di lei e così il peso della malattia e dell’incapacità di stare al mondo di lui diventano anche di lei. Parafrasando una frase del libro: è come se si considerasse una vittima la persona che in realtà fa male proprio a noi. Ma Arianna questo non lo capisce, finché non viene abbandonata. 

In una vacanza sull’isola greca di Naxos, Stefano la pianta definitivamente in asso: fugge di punto in bianco a Londra con una turista incontrata lì sul posto, senza dare spiegazioni. L’abbandono è brutale proprio perché improvviso; Arianna si sente privata di una parte di se stessa e non capisce come il mondo possa sembrare sempre esattamente lo stesso, nonostante tutto il dolore che lei stessa sta patendo. 

Dallo strappo inevitabile che segue all’accaduto, Arianna inizia un lungo percorso di introspezione in se stessa: in questo nuovo viaggio la accompagneranno altri due uomini (uno è un certo Di, che Arianna conosce sempre sull’isola, e l’altro è appunto Damiano) che le faranno capire che il suo attaccarsi morboso ad una persona come Stefano deriva solo dal suo terrore di essere abbandonata, tanto che infatti una delle sue paure più grandi è sempre stata quella di perdere le persone care attorno a lei. Non era capace di vivere una fine, di amarsi in primis e di venire ricambiata come si meritava. 

La nostra Arianna, dunque, non è l’Arianna del mito: non è un’eroina ma è piena di contraddizioni e paure. È una persona molto ansiosa per il figlio e sempre insoddisfatta di se stessa, come donna e come madre. Ci si può identificare facilmente con lei perché soffre, patisce, ama disperatamente qualcuno che non può offrirle nulla e la fa soffrire a sua volta, cade e si dispera ma si aggrappa alla vita con tutta se stessa. E poi, con un figlio e quindi con una nuova vita che fa ricominciare tutto da zero, prova definitivamente a far ordine attraverso la scrittura e a ritrovare, una volta per tutte, la sua identità. 

Si rinasce anche cambiando l’acqua ai fiori

Se si va a cercare su Wikipedia il nome di Valérie Perrin, non si scopre molto della sua vita. Scrittrice, fotografa e sceneggiatrice francese, classe 1967, sposata a sua volta con uno sceneggiatore e regista francese, la Perrin ha scritto due romanzi nella sua vita, che hanno ottenuto entrambi numerosi premi: il primo è stato pubblicato nel 2015, con il titolo italiano Il quaderno dell’amore perduto (bellissimo il titolo in francese: Les Oubliés du dimanche), mentre il secondo è uscito in Francia nel 2018, Changer l’eau des fleurs, in italiano Cambiare l’acqua ai fiori, che ha riscosso un notevole successo nel nostro Paese di recente.
Senza dubbio questa scrittrice sa il fatto suo: il romanzo racconta una storia bellissima, mai monotona, tipicamente francese e malinconica al punto giusto. Sicuramente, l’anima da sceneggiatrice permette alla Perrin di avere un occhio più attento ai dettagli, alle piccole cose, alle descrizioni precise e vivide dei luoghi e dei personaggi del romanzo. Anche perché Violette, la protagonista, è proprio così: una donna che vive per la cura dei dettagli, e che sa gioire per qualsiasi gioia quotidiana. Violette d’altronde fa un lavoro che oggi pare quasi dimenticato, poiché è una guardiana di un piccolo cimitero in Borgogna. La sua vita è scandita da una sequenza di azioni giornaliere, quasi dei riti, che vengono praticati da anni: pulire le tombe, assistere alle sepolture, vendere i fiori e cambiarli sulle lapidi, offrire un caffè o qualcosa di più forte ai parenti e agli amici affranti dei defunti che vengono a trovare conforto nella sua piccola casetta. Violette è sempre gentile e ha sempre una buona parola per tutti; bada al suo piccolo orticello, tiene un registro dove riporta tutte le sepolture che avvengono nel cimitero, con i dettagli della cerimonia funebre. Riporta persino il tipo di legno utilizzato per la bara del defunto di turno.
Eppure, questa apparente vita tranquilla e ripetitiva nasconde dietro di sé molto altro. Infatti, Violette ha un passato tremendamente difficile alle spalle, che pian piano, con grande grazia e forza di volontà, ha saputo lasciar andare. Orfana fin dall’infanzia, Violette è passata da una famiglia affidataria all’altra, senza poter dire di aver mai avuto una vera famiglia. Ha conosciuto giovanissima un ragazzo più grande di lei, Philippe, che l’ha tirata fuori dal circolo degli affidi facendola sua troppo presto, e rendendola madre altrettanto prematuramente. Tuttavia, la gioia di poter accudire una figlia, Léonine, è stata più grande di qualsiasi altro sentimento provato da Violette in tutta la sua vita. I due giovani genitori diventano poi guardiani di un passaggio a livello (lavoro, questo, che oramai non esiste più); in realtà, è Violette che lavora, mentre Philippe esce sempre più spesso a «fare i suoi giri». E così la ragazza vede, giorno dopo giorno, la vita dei pendolari scorrerle davanti, in tutte le sue sfaccettature. Sogna anche lei di avere una vita diversa, più movimentata, piena di sorprese e soddisfazioni. Di lì a poco, invece, Violette sarà costretta a sopportare un vortice di eventi che la getteranno nella più totale disperazione e depressione.

Come ne uscirà? Cambiando l’acqua ai fiori. Accudendo una terra, un orto, quello del cimitero di cui successivamente diventerà guardiana. La vita di Violette diventa allora esemplare: è quella di una donna che ha sofferto tantissimo nella vita, e che però ha saputo rialzarsi, con grande fatica ma nello stesso tempo in silenzio, con estrema eleganza. È ripartita proprio da lì, dallo stretto legame che ci unisce alla terra, da cui veniamo e nella quale ritornano i defunti che la stessa Violette accoglie nel suo piccolo cimitero.

Cambiare l’acqua ai fiori è uno di quei libri per cui dispiace quando si arriva all’ultima pagina. Si sente immediatamente la mancanza di Violette, mancano la sua pacatezza e la sua gentilezza, qualità che ha mantenuto nel tempo nonostante la vita difficile che ha avuto. Senza dubbio, si tratta di uno di quei romanzi che comportano una riflessione successiva: sul valore degli affetti che ci circondano, sulla qualità della vita rispetto al momento della morte (tra l’altro, bellissimo il fatto che ogni capitolo del romanzo inizi con una specie di epitaffio che si potrebbe ritrovare su una tomba), ed infine, sulle innumerevoli possibilità di rinascere sempre e comunque, nella nostra esistenza, aggrappandoci con tutte le nostre forze a ciò che ci rende davvero vivi e presenti a noi stessi.

Quell’Africa misteriosa e il bisogno di salvarsi da soli

Con L’amante silenzioso, romanzo pubblicato in Italia nel 2019, l’autrice spagnola più letta ed apprezzata nel nostro Paese, Clara Sanchez, trasporta il lettore non più nella sua Spagna, ambientazione fissa di gran parte delle sue storie, bensì nell’affascinante Africa dal sole abbagliante. E ci racconta una storia piena di mistero, esotismo e suspence, che tiene il lettore incollato alle pagine fino alla fine.

La protagonista è Isabel, una giovane donna di Madrid che ha perso il fratello a causa delle vessazioni psicologiche compiute da una setta in cui il giovane si era inserito durante una grave depressione. Isabel viene ingaggiata da una famiglia molto benestante spagnola che le propone di condurre una specie di missione di salvataggio in Africa, precisamente a Mombasa, in Kenya, per tentare di far ragionare e riportare a casa il loro figlio, Ezequiel. Infatti, dopo la rottura del fidanzamento con la sua ragazza Marta, il giovane è partito per ritrovare sé stesso e si è inserito nell’Orden Humanitaria a Mombasa, una comunità da cui tuttavia non è più tornato. Dal momento della sua partenza non ha più fatto sapere nulla di sé.

La motivazione che spinge Isabel ad affrontare una missione del genere potrebbe sembrare forse un po’ debole per dare input alla vicenda: il fatto di poter in qualche modo, con questo viaggio, salvare l’anima di suo fratello ed alleviare quel senso di colpa che la attanaglia dalla sua morte. È anche vero, però, che la ragazza probabilmente parte per un atto di altruismo ed egoismo allo stesso tempo: salvando qualcun altro, libera anche sé stessa. «Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno». Così recita il frontespizio del romanzo: bellissima citazione da Lavorare stanca di Cesare Pavese.

E quindi Isabel parte, fingendosi una fotografa di livello internazionale che deve fare un reportage in Africa, travestendosi da clone di Marta, per far sì che in Ezequiel si risvegli qualcosa e che il ragazzo possa rinsavire. Ben presto Isabel scopre che il giovane è diventato un affiliato molto intimo di quella che si può definire in tutti i sensi una setta, a capo della quale incombe Maína, un personaggio che la Sanchez ha saputo rendere estremamente intrigante. Manipolatore e approfittatore, Maína ha saputo creare attorno a sé un circolo di persone disperate come Ezequiel, dei relitti distrutti dalla vita, approdati in Africa in cerca di salvezza. Ha fatto loro il lavaggio del cervello e ora li costringe a vivere secondo le sue regole che comprendono il totale e netto distacco con la vita passata. I ragazzi dell’Orden Humanitaria credono veramente di essere totalmente liberi da qualsiasi vincolo che li possa ancora legare alla vita terrena e metropolitana quando invece sono totalmente succubi di questo loro capo che considerano alla stregua di un dio sceso in terra, un modello esemplare e irraggiungibile. La Sanchez ha delineato con chiarezza il fortissimo condizionamento psicologico che si innesta in questi casi, ben osservato dal punto di vista di un personaggio esterno come Isabel, che pian piano entra a far parte del gruppo. Per questi ragazzi dell’Orden tutta la vita ruota attorno a Maína e l’unica cosa che davvero conta è compiacerlo e seguire le sue regole, ripetute spesso come mantra tra le mura di questa casa-comunità in cui Maína svolge anche pratiche rituali con i suoi adepti.

Man mano che la storia procede, Isabel deve affrontare diverse prove che mettono anche a rischio la sua incolumità, senza sapere che si sta inserendo in qualcosa di molto più nascosto e molto più insidioso che un semplice salvataggio di un ragazzo spagnolo. Ezequiel infatti ad un certo punto viene rapito, probabilmente da alcuni terroristi, ma il suo rapimento sarà solo l’ombra di un progetto ben più vasto che Isabel riuscirà a smascherare grazie anche all’aiuto di un personaggio altrettanto misterioso, Said.

In un paesaggio tipicamente africano, tra hotel di lusso e villaggi poverissimi, in una natura benigna e maligna nello stesso momento ma sempre lussureggiante, si snoda una storia che è costruita dalla Sanchez in modo da essere sempre avvincente, andando a sondare gli oscuri anfratti della manipolazione mentale, senza che il lettore possa comprendere, fino alla fine, quali siano veramente i buoni e quali i cattivi. Tutto è incerto e non ci si può fidare veramente di nessuno: bisogna, ancora una volta, salvarsi da soli.

Il lunghissimo e inquieto sabato di McEwan

Per leggere “Sabato” di Ian McEwan bisogna tornare indietro di diciassette anni, in quel lontano 2003 in cui a Londra il governo Blair stava per appoggiare l’invasione americana dell’Iraq, a seguito dell’attentato dell’11 settembre 2001. Bisogna entrare in quello spirito, in quella dimensione di attesa e di angoscia. Quando si è sull’orlo del precipizio, e si sta a vedere se questa volta il mondo cadrà per mano dell’uomo o meno. E chi forse meglio di noi come siamo adesso, in una situazione così incerta e oscillante, in attesa di un possibile ritorno di un virus letale che devasterebbe di nuovo la vita di chiunque, potrebbe comprendere meglio questo romanzo, che diventa dunque così terribilmente moderno?

“Sabato” si snoda lungo un’unica lunga giornata. Henry Perowne, neurochirurgo londinese di una certa fama, si aspetta di passare un normale sabato di riposo dal lavoro, ma tutto prende una piega diversa quando si sveglia in piena notte in preda ad una strana euforia e vede per puro caso un aereo in fiamme nel cielo di Londra. Questa immagine funesta lo accompagnerà per il resto della giornata. Da quel momento, la sensazione di un’imminente catastrofe che possa devastare non solo la città, ma anche la sua famiglia, pervade Henry fino alla fine. Tuttavia, il protagonista non ha nulla da temere: ha un bel lavoro, una casa lussuosa, una moglie in carriera e dei figli fantastici che lo rendono un padre orgoglioso. Si prospetta per di più una serata festosa, in quanto dopo sei mesi di assenza torna a casa la figlia Daisy, che sta per pubblicare il suo primo libro di poesie. Tutto sembra prevedere una giornata tranquilla: Henry giocherà a squash con il suo collega, come ogni sabato mattina; nel pomeriggio passerà a trovare la madre malata in casa di riposo, poi farà un salto ad ascoltare il figlio, chitarrista di un gruppo blues, ed infine cucinerà la cena, aspettando tutti i parenti, compreso il suocero, per trascorrere la serata assieme. Eppure, la notizia dell’incidente aereo che rimbomba nei telegiornali, oltre a quella del corteo di protesta contro l’appoggio inglese all’invasione americana dell’Iraq che si svolge proprio quella mattina in città, invadono con forza la vita privata del protagonista. Tra l’altro, Henry si comporta in modo ambivalente con le notizie dal mondo esterno: da una parte è avido di sapere assolutamente quale fine abbia fatto l’aereo in fiamme che ha visto durante la notte, e si scalda in una discussione con la figlia Daisy prima di cena riguardo all’imminente guerra; dall’altra, non vuole rimanere schiavo dell’informazione e delle news, e quindi tenta comunque di trascorrere una giornata tranquilla. Ogni sua singola azione, però, viene intervallata da continue e profonde riflessioni che spaziano dai ricordi della sua vita e dei suoi affetti, alle considerazioni sull’attualità e alla presa di coscienza dei suoi stati d’animo.

Non è un caso che il primo grosso intoppo della giornata capiti proprio a causa del corteo cittadino: è il segnale di come gli eventi pubblici entrino prepotentemente nella sfera privata del protagonista, per rivoluzionarla del tutto. Henry infatti ha un incidente con l’auto mentre si sta recando alla solita partita di squash, e pur avendolo risolto per le sue competenze da medico, non si sente per niente tranquillo, anzi, ha paura di una possibile vendetta del tizio poco raccomandabile con cui ha dovuto avere a che fare (vendetta che infatti verrà attuata nella serata).

Senza dubbio, “Sabato” racconta una storia molto lenta, con poca azione e pochi colpi di scena. Con una precisione assoluta anche per argomenti molto settoriali e con un amore spassionato per il dettaglio, McEwan riesce comunque a tenere viva l’attenzione del lettore fino alla fine, e anzi, gli fa sviluppare anche inconsapevolmente una trepidante attesa per la serata del sabato, che d’altronde rappresenta il climax di tutta la narrazione. Sarà in quel momento che il protagonista saprà rimediare al danno fatto in mattinata e, mosso da pietà e compassione, riuscirà a compiere il suo dovere di medico fino in fondo. Per McEwan, Henry Perowne è un simbolo: il simbolo dell’uomo affermato e in carriera del nuovo millennio, che possiede tutto ciò che un essere umano potrebbe desiderare. Nello stesso tempo però ha il terrore, recondito ma non troppo, che tutto gli possa venire improvvisamente tolto per questioni che esulano dal suo diretto controllo, poiché davanti a queste è assolutamente inerme, un semplice spettatore. Eppure, anche se in una sola giornata si sono susseguite diverse peripezie capaci di modificare un’intera esistenza, alla fine ciò che conta è che anche questo sabato si sia concluso: “e alla fine, in caduta lieve: questo giorno è passato”. E il domani può cominciare.

Se Achille è deforme e Ulisse non sa più scrivere

Se si prende voglia di rispolverare un po’ di epicità ma in chiave moderna e comica, non c’è libro migliore di Achille piè veloce, romanzo pubblicato da Stefano Benni nel 2003. Premettendo che chi scrive era totalmente digiuna di opere di Benni, il fatto di aver iniziato a leggere la sua produzione con questo volume è stato un gesto che si è poi rivelato furbo, anche perché Achille piè veloce divenne velocemente un best-seller in Italia, e fu poi tradotto in diverse lingue.

Ulisse Isolani è il protagonista del romanzo: già il suo nome la dice lunga sul tipo di personaggio che pian piano si andrà a conoscere. Lavora nella casa editrice Forge, che è oramai verso il fallimento, e di mestiere legge i dattiloscritti (o «scrittodattili», come li chiama lui) degli scrittori in erba, giovani e meno giovani, che tentano il successo. Ulisse è scrittore anche lui, ma, dopo aver pubblicato un primo romanzo, non è più riuscito a scrivere nulla, perché gli manca sempre l’ispirazione. Ulisse inoltre, esattamente come l’Odisseo omerico, è «polutropos»: dall’ingegno multiforme e versatile. È un uomo del nostro secolo, che sa destreggiarsi in vari problemi della quotidianità grazie alla sua proverbiale abilità oratoria e grazie anche ad un po’ di fortuna. Tuttavia, spesso si addormenta nei luoghi più improbabili della grigia e anonima metropoli in cui vive, che viene però trasformata da Benni in un paesaggio epico, pieno di insidie e avventure. Il protagonista è anche poligamo, proprio come l’eroe dell’Odissea: alterna la sua vita amorosa tra una fidanzata di origini sudamericane che ama profondamente, Pilar, spesso soprannominata Penelope, e un’amante occasionale, la sua provocante collega Circe.
Fin dall’inizio, non appena il lettore si immerge nella prosa avvolgente di Benni, ha la sensazione di leggere un poema epico, ma in chiave molto moderna; ed è forse questo aspetto che rende particolarmente affascinante il volume. Si intuisce d’altronde come sia i personaggi, sia le modalità della narrazione ricordino molto chiaramente lo stile epico, pur con evidenti e spesso comiche differenze. Ad esempio, la vita di Ulisse subisce una svolta quando conosce Achille, il quale però è ben lontano dal suo corrispettivo personaggio epico. Achille, anziché essere «kalòs kai agathòs», ossia bello e valoroso, è brutto e deforme, costretto su una carrozzina elettrica da una malattia contratta alla nascita (tra l’altro la carrozzina, a rigor di logica, è della marca Xanto, nome di uno dei cavalli immortali dell’eroe omerico). Il ragazzo resta rinchiuso in una casa molto grande all’interno di un palazzo antico, in cui abitano anche la madre e il fratello Febo, uomo di successo e pronto ad entrare in politica, che sopporta a fatica la presenza del fratello malato.
Achille riesce ad incuriosire Ulisse con una lettera molto eloquente, e così il protagonista si reca a casa del ragazzo. I due iniziano presto a frequentarsi e ad instaurare un rapporto di amicizia, molto strano, in quanto ovviamente Achille e Ulisse sono estremamente diversi, ma anche molto profondo. Il legame che si crea è dettato soprattutto dalla profonda passione di entrambi per il racconto e la scrittura. Infatti Achille (che non riesce quasi più a parlare a causa della sua malattia, e comunica con l’amico attraverso un computer) inizia a scrivere al posto di Ulisse, e racconta la vita del protagonista, rivisitandola completamente, spesso in modo comico. Il romanzo di Benni prosegue poi alternando gli incontri tra i due, sempre in casa di Achille, e le vicissitudini di Ulisse come uomo moderno nella metropoli, alle prese con il permesso di soggiorno di Pilar e i vari problemi nella casa editrice sull’orlo del fallimento.

Senza svelare nulla della conclusione, il rapporto tra Achille e Ulisse, simbolo di un’amicizia senza pudori e senza barriere, è in continuo climax durante il susseguirsi della storia, e finirà in modo malinconico e delicato, grazie ad un gesto generoso di Achille, che permetterà ad Ulisse di spiegare finalmente le ali verso la felicità e la libertà di scrittura, sempre «con la spada di una matita».

La magia invernale dei racconti svedesi

Non lasciatevi ingannare dal titolo: “La leggenda della rosa di Natale”, raccolta di racconti dell’autrice svedese Selma Lagerlöf, in realtà parla ben poco del periodo natalizio. Tuttavia, come si vedrà di seguito, in tutte le brevi storie di questo volumetto si respira a pieni polmoni un’atmosfera invernale e magica.

La Lagerlöf è stata definita da Marguerite Yourcenar “la più grande scrittrice dell’Ottocento”, ed è stata per molto tempo l’autrice svedese più nota al mondo. Per di più, è stata la prima donna ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura, nel 1909. Maestra elementare, nei suoi romanzi e nelle sue storie lascia sempre trasparire la passione per le tradizioni, le leggende e i miti del suo popolo.

In effetti, i sette racconti della raccolta sono tutti ambientati in Svezia, principalmente nel Vārmland, regione d’origine dell’autrice. Al loro interno compaiono personaggi di qualsiasi rango sociale: pescatori, contadini, preti e monaci, locandieri, mercanti, musicisti, ma anche nobili, sovrani e imperatori. Inoltre, il lettore ritrova in queste pagine alcuni personaggi storicamente esistiti, come l’imperatrice Maria Teresa d’Austria e il re Gustavo III, che regnò in Svezia dal 1771 al 1782 (quest’ultimo venne assassinato in una congiura durante una festa in maschera e da questo avvenimento, tra l’altro, Giuseppe Verdi prenderà ispirazione per una sua celebre opera).

Tuttavia, in tutti i racconti la realtà si mischia con la finzione e con la magia; o, per meglio dire, con il miracolo. Basti pensare al primo racconto, che dà il titolo all’intera raccolta: si parla di una misteriosa foresta che nella notte di ogni vigilia di Natale si trasforma in un rigoglioso e splendente giardino, una specie di Eden. Questa leggenda popolare, o questo mito si potrebbe dire, nasce dall’antica volontà di spiegare come l’elleboro, pianta appunto soprannominata “rosa di Natale”, fiorisca proprio nel periodo natalizio, con tanti piccoli fiori bianchi. Ma il miracolo è anche dato dalla scoperta di una miniera d’argento grande quanto una montagna; scoperta che porterà alla rovina un piccolo paese di umili contadini, i quali decideranno saggiamente di vivere in pace e di non approfittare di quella fonte di ricchezza, e saranno ammirati dal loro re. Oppure, il miracolo è quello dell’immaginazione, che permette di far rivivere l’amato morto in mare nei pensieri e nelle parole della sua novella sposa. Infine il miracolo è il finto tesoro dell’imperatrice, di cui nessuno conosce l’ubicazione, e che così permette a tutta la popolazione di credere che nella miseria più nera quel tesoro (che in realtà consiste in una cassetta di legno con poche monete all’interno) li salverà. In questo modo, continuano a vivere lavorando e in pace.

Tutti questi racconti posso apparire molto semplici, umili e quasi ingenui, ad una prima e veloce lettura: in realtà, nella delicatezza delle sue storie, Selma Lagerlöf inserisce delle morali importanti. Quasi sempre i protagonisti maturano perché gli episodi della vita offrono loro un insegnamento importante: non ritroviamo mai, a conclusione della vicenda, il personaggio uguale identico a come ci è stato presentato all’inizio. L’autrice ci insegna così il valore dell’umiltà, della bontà di cuore, del rispetto per gli altri e della semplicità, la quale spesso risulta la scelta migliore rispetto a tutte le altre. Sono racconti brevi, ma che sanno scaldare il cuore in queste gelide serate invernali.

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