La Murgia e il suo Chirù

In “Chirù”, il suo penultimo romanzo pubblicato nel 2015, Michela Murgia racconta ai lettori, con la sua tipica prosa incisiva e conturbante, una delicata ma allo stesso tempo intensa storia di un rapporto maestra-allievo osservato da tutte le sue angolazioni ed evoluzioni nel tempo.

La relazione che si instaura tra Eleonora, attrice teatrale sarda di grande successo alla soglia dei 40 anni, e Chirù, un giovane diciottenne con uno spiccato talento da violinista, è ambigua fin dall’inizio. Chirù (il cui nome reale non viene mai esplicitato nel romanzo) vede Eleonora per la prima volta durante un suo spettacolo, e le chiede indirettamente se può diventare suo allievo. Che cosa in concreto debba insegnare l’attrice al ragazzo, non è immediatamente chiaro; il lettore lo capisce più avanti nella storia, quando si delineano gli incontri che avvengono tra i due. Allora si comprende che Eleonora, dopo una prima titubanza, prende sotto la sua ala il giovane violinista per introdurlo alla vita adulta in tutti i suoi aspetti: per introdursi in società in modo affabile e opportunista, per comprendere meglio come ruota il mondo. Non si tratta dunque di un tipo di insegnamento convenzionale, ma si può intendere Eleonora come una “maestra di vita” nel senso stretto del termine, poiché affianca il ragazzo anche nella sua vita privata, nelle amicizie e nell’amore.

Eleonora d’altronde accetta la stranezza di questa richiesta indiretta perché lei stessa ha molti fantasmi da dimenticare. Da tempo infatti non ha più accettato altri allievi in quanto l’ultimo, Nin, si è suicidato all’improvviso, ed Eleonora stessa se ne è sempre sentita responsabile. E Chirù, ancora giovane, puro, tutto da plasmare, con gli occhi pieni di vita potenziale e di stupore, affascina l’attrice a tal punto da spingerla in questa nuova avventura. Essa infatti possiede il fascino tipico dell’insegnamento, insito nel potere di modellare l’allievo a proprio piacimento. Una superbia, come la definisce la protagonista, che sicuramente ha tutti i suoi rischi e pericoli.

I capitoli del libro sono classificati come “lezioni”, le quali consistono in partecipare ad una festa prestigiosa, recarsi nella più antica sartoria di Cagliari per imparare a riconoscere i tessuti con cui si vestono le persone che contano veramente, oppure semplicemente intavolare discorsi utili alla formazione dell’alunno. Ma con il passare del tempo, Eleonora inizia inevitabilmente a ragionare sul rapporto che la lega a Chirù: si sente più una vera maestra, un’amante o una madre? Forse deve essere tutte e tre le cose insieme, affinché il ragazzo cresca nel miglior modo possibile. Allo stesso tempo, però, non deve rovinare il delicato equilibrio facendo prevalere una delle tre componenti di questa strana relazione, che tra l’altro non è vista per niente di buon occhio dai genitori di Chirù.

Eleonora inizia a vacillare rispetto alla sua posizione quando, dopo una lunghissima solitudine (“un’infelicità con classe”, la definisce ad un certo punto il suo allievo), intraprende una relazione con il direttore artistico dell’Opera d’arte di Stoccolma, mentre si trova in tournée teatrale proprio in quella città. L’attrice si trova incapace di dire la verità al suo alunno, senza comprenderne bene il motivo. Mente davanti a Chirù sia per proteggerlo dal dolore, dato che oramai è ben chiaro al lettore che anche l’alunno sia innamorato della maestra, sia per paura di perderlo. Inoltre, mente per nascondere a se stessa la reciprocità del sentimento. I due si incontreranno un’ultima volta a Firenze e succederà l’inevitabile, che sancirà definitivamente la chiusura del rapporto. In un flash forward di quattro anni dopo, il lettore potrà poi osservare i due protagonisti in una luce totalmente diversa, e con questa tonalità dolce amara si chiude il romanzo.

Per gran parte dell’opera il tema su cui si riflette di più è senza dubbio l’insegnamento, che è vero insegnamento alla vita. Eleonora accetta un alunno estremamente acerbo, incostante e incerto nelle amicizie e nell’amore, senza ancora un vero progetto di vita (come, d’altronde, è giusto che sia a diciott’anni). Quando il lettore lascia Chirù, tuttavia, lo vede maturato: nonostante il forte sentimento per la sua insegnante, che è passionale e fin esagerato poiché adolescenziale, ora Chirù è però capace di tenere testa all’abile parlantina di Eleonora, e alla fine sembra uscire vincitore da tutta la vicenda. Eleonora stessa cambia durante la narrazione: grazie alle nozioni impartite a Chirù, può riflettere su se stessa, sulla sua famiglia, sulla sua scelta di non sposarsi e di non avere figli. Alla fine, scoprendosi innamorata del suo allievo, è costretta a lasciarlo andare. Tuttavia, lo stesso Chirù le ha permesso di sbloccarsi definitivamente, e di vivere finalmente quello che in realtà, inconsciamente, ha sempre desiderato.

 

 

 

Divorate il cielo, nature lovers

Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega con “La solitudine dei numeri primi”, ha pubblicato l’anno scorso il suo ultimo romanzo, “Divorare il cielo”. Forse meno conosciuto di altre sue opere, come quella appena citata o come “Il nero e l’argento”, tuttavia anch’esso risulta altrettanto intenso e appassionante, acquistando forza e potenza lentamente, nello scorrere delle pagine.

La storia, abbastanza complessa, si sviluppa sotto il punto di vista di Teresa Gasparro, una giovane ragazza torinese di nascita ma originaria, da parte della famiglia paterna, di Speziale, un paesino isolato nelle campagne in provincia di Brindisi. Lì Teresa ritorna ogni estate per le vacanze, e Speziale viene così caricato di tutte quelle emozioni e sensazioni che solo i posti di vacanza possono assumere nella coscienza dei bambini: la casa della nonna paterna sembra trovarsi in un’altra dimensione rispetto alla lontana Torino. Un luogo inesplorato, in cui dominano felicità e libertà pura, e dove tutto sembra possibile. Compaiono fin da subito sulla scena i vicini di casa di Teresa: Bern, Tommaso e Nicola, tre ragazzi “fratelli” (ma non di sangue, in quanto Bern è solo cugino di Nicola, e Tommaso, ragazzo albino, è stato adottato) che vivono nella masseria accanto. I genitori, Cesare e Floriana, sono due personaggi molto particolari, una sorta di hippie moderni estremamente credenti nella religione cattolica, i quali non fanno frequentare la scuola ai figli, ma li educano loro stessi. Teresa resta immediatamente colpita da Bern, e tra i due sboccia un grande amore adolescenziale. L’idillio tuttavia si rompe ben presto, a causa di un grave incidente, e Teresa decide di non recarsi per alcuni anni a Speziale.

Quando vi ritorna, a ventitré anni, per il funerale della nonna, tutto è cambiato: Cesare e Floriana hanno abbandonato la masseria, che ora è in mano a cinque giovani ragazzi, ossia Bern, Tommaso, la sua fidanzata Corinne, Danco e Giuliana. Nel momento in cui rivede Bern al funerale, Teresa è pervasa da una forza interiore inarrestabile che la fa rinunciare alla vita universitaria di Torino e la fa fermare a Speziale, alla masseria, per diversi anni. E lì i sei ragazzi, che diventano presto intimi come fratelli, fondano una specie di comunità ambientalista: vivono con la corrente elettrica razionata e con l’acqua non filtrata, ma soprattutto sopravvivono grazie ai prodotti della terra, nella logica dell’agricoltura del “non-fare”. Infatti, fondano la food forest, una zona accanto alla cascina in cui la natura regna incontrastata, senza alcun tipo di intervento da parte dell’uomo.

Proprio per quanto riguarda la natura, in “Divorare il cielo” è sostanzialmente considerata come un personaggio vero e proprio, ed è sempre descritta dettagliatamente. Nonostante il clima arido della Puglia, nella masseria la natura è rigogliosa, brulicante di vita, ma anche imprevedibile e distruttrice, come ad esempio quando i virus intaccano le piante e compromettono i raccolti. Tutti gli episodi della lunga storia sono, in qualche modo, collegati alla natura. Senza svelare troppo della trama, si può ricordare il momento chiave, decisamente tragico, della battaglia condotta da Danco e il gruppo di ambientalisti per salvare un intero terreno di ulivi, destinato a diventare un campo da golf per un resort di lusso. Il gesto estremo di Bern, che per protesta rimane per giorni su uno degli ulivi da abbattere e si rifiuta di scendere (ed è qui esplicito il rimando a Cosimo Piovasco di Rondò, il “barone rampante” di Italo Calvino) è metafora della resistenza della natura stessa davanti alle atrocità dell’uomo. Tuttavia, alla fine la natura soccombe inevitabilmente, come soccombe Bern, che è costretto a scendere dall’albero.

All’interno del romanzo stesso c’è poi un lungo flash-forward, un salto temporale in avanti. Il lettore viene infatti a conoscenza di gran parte della storia grazie alla narrazione dei fatti svolta da Tommaso, il quale, la sera della vigilia di Natale di molti anni dopo, racconta a Teresa tutto ciò che si è persa in diversi momenti della sua vita.

“Divorare il cielo” è un libro intenso, molto passionale, anche se procede con lentezza. Si potranno riconoscere nei personaggi della vicenda tutti coloro che sentono il loro destino già segnato, e lottano con ostinazione quasi commovente per quello in cui credono, fino alla fine. Si riconosceranno coloro che hanno amato la stessa persona per tutta la vita, a partire dal momento in cui l’hanno guardata per la prima volta negli occhi, come è successo a Teresa con Bern. E infine, “Divorare il cielo” è un vero manuale da leggere per tutti coloro che, soprattutto al giorno d’oggi, vogliono amare, ascoltare, rispettare questo bene inestimabile che è la natura e tutto ciò che la riguarda.

Fiori femministi

Donne che comprano fiori, della scrittrice spagnola Vanessa Montfort, può essere senza dubbio considerato un romanzo di formazione, ma di formazione adulta.

Nel cuore pulsante di Madrid, precisamente nel barrio de las Letras, c’è un negozio di fiori molto particolare, che sorge sui resti di un antico cimitero ed è gestito da una donna eccentrica di nome Olivia. Il Giardino dell’Angelo non è tuttavia solo questo, ma è anche un’oasi per tutte le anime perdute, che errano vagabonde nelle loro stesse vite, in cerca di un segno, di uno stravolgimento. In questo ambiente approda Marina, la protagonista della vicenda: un’anima perduta a tutti gli effetti. Una donna quarantenne che ha da poco perso il marito, morto a causa di una malattia, e che non riesce a ricominciare a vivere, ma si trascina in un’esistenza fatta di nostalgia e mancanza. Finora ha trascorso “una vita intera da copilota”, come sostiene lei, sempre accanto al suo uomo, e senza mai agire veramente. Marina fin da subito viene presa sotto l’ala protettrice di Olivia, che la assume come sua aiutante in negozio.

A partire da questo momento, Marina inizia il suo processo di rinascita, che viene rappresentato attraverso l’immagine, costante in tutta la vicenda, della crisalide. Proprio come dovrà fare Marina, anche la crisalide dovrà rompersi, dovrà diventare altro, per rinascere come farfalla ed intraprendere una nuova esistenza. Ma la protagonista non è sola in questo viaggio, perché, oltre ad Olivia, è accompagnata da altre quattro donne, clienti del Giardino dell’Angelo: sono proprio loro le donne che comprano fiori. Si chiamano Aurora, Casandra, Victoria e Galatea, ed ognuna di loro compra fiori per un motivo ben preciso, corrispondente alla propria storia: Aurora è una pittrice e dunque compra fiori per prenderli come modelli; Casandra, donna in carriera, li compra e poi se li fa arrivare in ufficio fingendo di avere uno stuolo di ammiratori che in realtà non ha; Victoria, madre e moglie multitasking, li acquista per il suo amante segreto; e infine Galatea, guru della moda, li espone nel suo showroom di abiti firmati. Marina ben presto instaura un legame con tutte queste donne, che si rivela fin da subito estremamente forte e vitale: ognuna di loro ascolta i problemi dell’altra e la sprona a reagire proponendo consigli, quasi in una specie di circolo femminista, ristretto e moderno. A capo del gruppo c’è Olivia, la più anziana ma anche la più saggia, che rivela poco della sua vita privata ma che non ha peli sulla lingua e pronuncia sentenze efficaci, smuovendo così dal torpore e dall’indecisione le sue compagne.

Contemporaneamente alle diverse storie delle sei donne, l’autrice incastona tra i capitoli un diario di bordo di Marina, la quale parla qui al presente perché ha deciso finalmente di mantenere la promessa che aveva fatto a suo marito quando era ancora in vita: attraversare lo stretto di Gibilterra con la sua barca, il Peter Pan, e disperdere le sue ceneri in mare. Ma tutta la permanenza di Marina al Giardino dell’Angelo come commessa serve proprio a far sì che, da sola, riesca ad intraprendere un viaggio che le era sempre sembrato impossibile. Tutte le altre donne la aiutano, in modi diversi, a sbocciare come una crisalide (o come un fiore): a rialzare la testa e prendere finalmente in mano la vita, da pilota della nave, senza stare più all’ombra di qualcun altro. E aiutando Marina si sostengono a vicenda, imparano a reagire, a cercare in primis la loro felicità, non quella del marito, dei figli, del fidanzato, dei genitori. Anche loro riescono a cambiare, in meglio.

Donne che comprano fiori è un romanzo che riscatta la figura della donna, non più madre e moglie devota e sempre silenziosa che vive all’ombra del marito, ma guerriera che, con le sue compagne, lotta per la sua affermazione e la sua felicità. Inoltre, come già detto all’inizio, si tratta di un romanzo di formazione per adulti: infonde speranza a tutte quelle persone che attraversano un momento di crisi; coloro che hanno perso qualcuno di caro, o che devono prendere decisioni difficili, come il riuscire a troncare una relazione oramai arrivata al capolinea. La morale che trasmette l’intera vicenda è che ognuno di noi è più forte di quanto possa credere, e può sempre prendersi la sua rivincita sulla vita. Certo, non è costretto a compiere il viaggio da solo: potrà avere degli accompagnatori fondamentali durante il suo cammino, ma poi sarà lui, lui solo, a veleggiare verso il traguardo.

 

Quando si resta da soli

“Da soli” è il titolo dell’ultimo libro di Cristina Comencini (Einaudi, 2018). Scrittrice, ma anche regista e drammaturga, la Comencini racconta questa storia a quattro con assoluta maestria e grande limpidezza. Marta e Andrea, Laura e Piero: due coppie di fidanzati, poi sposi, poi genitori. Due coppie di amici che iniziano la loro storia sul pontile di una nave, quando, ancora venticinquenni, inseguono il futuro e pensano di avere tutta la vita davanti. E poi il matrimonio, e i figli. All’improvviso, quasi in contemporanea, le loro storie finiscono: Marta lascia Andrea, da un giorno all’altro, apparentemente senza motivo; e Piero lascia Laura, dopo una lunga fase di separati in casa.

Il lettore incontra i personaggi proprio qui, nel momento cruciale: quello dei primi mesi di separazione, dopo una vita insieme. In sequenza, la Comencini tesse abilmente la trama dei quattro punti di vista dei protagonisti, ognuno dei quali vive in modo differente questa dolorosa fase. Così, Marta e Andrea, Laura e Piero si trasformano in modelli, prototipi di reazioni possibili dopo una separazione così difficile: Marta è quella che non si sente più libera, che ha bisogno di stare da sola e di cambiare, e quindi lascia Andrea, il modello dell’uomo sentimentale e ancorato ai valori della famiglia. Andrea accetta con difficoltà la decisione inaspettata della moglie, e fatica tremendamente a ricostruire una vita senza di lei, perché in ogni luogo, in ogni momento della vita quotidiana gli torna in mente qualcosa di Marta. Invece, nell’altra coppia è Piero che lascia Laura. Piero è l’incarnazione dell’uomo egocentrico, che non si sente abbastanza amato ma che, allo stesso tempo, tradisce la moglie da anni senza alcun senso di colpa. Laura invece, nonostante sia a conoscenza dei tradimenti di Piero, reagisce malamente alla rottura, in quanto è la tipica donna che ha bisogno costantemente di una persona accanto, con cui condividere ogni aspetto della sua esistenza. Ciascun personaggio, dunque, affronta a modo suo il fantasma, pauroso e incombente, della solitudine in età adulta.

Altre figure ruotano attorno ai quattro, come satelliti: nuovi amanti, figli, amici, che riescono anche a chiarire certe idee ai protagonisti. Tuttavia, il fulcro della vicenda è fissato su diversi temi: il primo e forse più lampante è quello del peso dei ricordi, bellissimo ma lancinante. Per tutti e quattro, ma soprattutto per Andrea e Laura (i “mollati”), i ricordi sono difficilissimi da eliminare dalla mente, perché sono troppo numerosi e troppo intensi. In qualsiasi momento della vita di ogni giorno, possono comparire all’improvviso e distruggere il piccolo nuovo universo che i protagonisti stanno faticosamente costruendo.

Gli altri due temi, sicuramente centrali, sono la famiglia e il matrimonio. L’abilità della Comencini, dando voce alle due coppie, è quella di insinuare un dubbio nel lettore, che come un tarlo lo perseguita per gran parte della lettura: la possibilità, ancora al giorno d’oggi, di credere nell’autenticità del matrimonio e nella possibilità di costruire una famiglia che duri a lungo. Verso metà del romanzo, è il personaggio di Andrea che sembra dissipare ogni incertezza. Lui, marito fedele, comprende che deve mentire ai figli per tranquillizzarli, e dire loro che si è ricostruito una vita accanto ad un’altra donna, di cui è “follemente innamorato”. Arriva a sostenere suo malgrado che, ai giorni nostri, “non c’è niente di più incongruo ed antimoderno che amare una sola persona per tutta la vita”.

“Da soli” è un libro maturo, chiaro e duro nelle sue verità. È anche retrospettivo e poco consolatorio, perché si concentra soprattutto sulla vita oramai passata, e meno verso il futuro. Inoltre, “Da soli” porta inevitabilmente il lettore a riflettere: sui temi elencati prima, e anche sui rapporti umani in generale. Una volta conclusa l’ultima pagina, rimangono in testa alcune martellanti domande, che si pongono gli stessi protagonisti e a cui non si offre una risposta finale: perché la solitudine fa così male? L’essere umano ha davvero bisogno di qualcuno accanto nel corso dell’intera sua vita? E soprattutto: si può amare una sola persona, per sempre?

Andare oltre

A volte ci si perde. Si dimentica ciò per cui si gioiva. Si dimentica ciò che ci faceva sentire vivi. Si vaga. Vagabondando però capita sott’occhio un libro, un’immagine, un disco, qualcosa che ricordi il sentiero perduto. Scintille in grado di riaccendere un fuoco spento. Così mi è finito fra le mani questo libro.

Per ripararmi dal freddo di un pomeriggio d’ottobre mi sono cacciato in biblioteca. Vago annoiato tra gli scaffali quando la vecchia copertina verde di un libro fuori posto mi colpisce. Mi guardo attorno per vedere che non ci sia nessuno a reclamarlo e lo prendo in mano. Ha un titolo criptico: Presenze. L’autore mi è sconosciuto: Jerzy Kosinski. Mi incuriosisce. Lo apro.

La trama mi spiazza: Chance è un uomo che ha passato tutta la sua vita a coltivare il proprio giardino, senza mai uscire dalla propria casa e quasi senza contatti col mondo esterno. Alla morte del suo benefattore però è costretto ad andarsene ed è spinto verso un mondo che fino ad allora aveva visto solo in televisione. Qui iniziano le avventure che lo porteranno fino ad essere considerato un grande uomo d’affari e una fine mente politica. Tutto grazie alla sua totale ignoranza, quella di un uomo che avrebbe tutte le carte in regola per diventare un disadattato e che invece si ritrova a essere creduto consigliere del Presidente.

Conquistato, decido di portare via con me quello che sembra un tesoro abbandonato.

Arrivato a casa mi immergo subito nella lettura: ne vengo assolutamente rapito.

Innanzitutto perché il libro è scorrevole, maledettamente divertente e breve, adatto ad essere letto tutto d’un fiato. Sopratutto però mi ritrovo da subito in un mondo familiare, ma al tempo stesso assurdo. Riesco perfettamente ad immedesimarmi. Perchè questo romanzo è una strabiliante caricatura dell’America e, in fin dei conti, in parte anche del nostro paese (vista l’influenza che lo zio Sam ha avuto sull’Italia). Così, come in tutte le caricature, vengono esaltati ironicamente limiti e difetti.

Ad esempio si nota facilmente come vengano sottolineati il ruolo e l’impatto dei mass media sulla politica e più in generale sulla società. Nel racconto la TV è il modello per ogni azione del protagonista e anche il veicolo per la trasmissione di ogni idea politica. Invade la vita di ogni cittadino e ha effetti che sono comprensibilmente dannosi. È la descrizione della nostra era, in cui i mezzi di comunicazione di massa condizionano e quasi manovrano le persone.

Mi ha colpito però un altro concetto di questo libro. Ogni personaggio è così assorbito da sé e dalla propria visione del mondo che Chance diventa un’icona. È un uomo totalmente vuoto in cui ciascuno proietta i propri principi, le proprie idee, trasformandolo di volta in volta in un proprio eroe o nemico. Anche l’aperta ammissione della sua ignoranza viene interpretata come un segno di perspicacia e raffinatezza. È una realtà in cui non c’è comunicazione, solo un narcisistico monologo. Un dipinto che purtroppo a volte sembra concretizzarsi.

C’è però un qualcosa di questa storia che non è così pessimistico e che ha inciso su di me: viene raccontato cosa può succedere quando usciamo dal nostro giardino rimanendo aperti al destino. Le possibilità sono infinite. In un attimo ci si può ritrovare uomo di successo, proprio come Chance.

Questo è la scintilla che ha riacceso il fuoco. Da un po’ di tempo mi stavo chiudendo lentamente in me. Stavo costruendo dei muri di scuse e di routine. Poi un giorno mi è capitato per le mani un piccolo libro ingiallito e ho capito.

Il mondo non è certamente un posto perfetto, ma non posso chiudermi fra le mura del mio giardino. Fuori ci sono troppi fiori da raccogliere.

Quando De Carlo e il suo “Treno di panna” fecero sognare l’Italia

L’Italia negli anni Settanta ha vissuto una delle fasi più nere della sua storia: gli anni di piombo costituirono un periodo di aspri scontri politici e di attentati improvvisi tra la gente comune, che generarono un terrore generale e di lunga durata: “non si era mai del tutto felici, anche innamorati, mai veramente lontani, anche nuotando al mare, mai interamente concentrati, anche studiando”. Così ricorda quegli anni Gianni Riotta, che scrive la prefazione di Treno di panna, romanzo d’esordio di Andrea De Carlo. E Treno di panna, uscito nel 1981 (ma già pubblicato in inglese con il titolo di Creamy train), all’epoca sorprese totalmente il pubblico italiano: una storia così diversa, così piena di speranza, così luminosa rispetto al buio di quella che Franco Fortini chiamò “la falsa guerra civile”.

Il romanzo racconta di Giovanni, un giovane italiano venticinquenne che decide di partire per Los Angeles apparentemente per andare a trovare i suoi due amici, Ron e Tracy. In realtà, il ragazzo resta in America e dopo diverse vicissitudini trova lavoro prima come cameriere di un ristorante italiano, fidanzandosi con la cassiera Jill, e poi come insegnante madrelingua in due scuole private della città. Presto la famosa e giovane attrice Marsha Mellows diventa una sua allieva, e Giovanni se ne innamora follemente. È proprio la passione per la sua studentessa che scuote finalmente il protagonista da quel torpore che il lettore percepisce fin dall’inizio della vicenda: Giovanni infatti si limita a fare il minimo indispensabile per sopravvivere in città, vivendo come ospite prima a casa dei due amici e poi a casa di Jill e cercando lavori di fortuna tramite curricula inventati.

Per di più, il ragazzo sembra osservare la realtà di Los Angeles dall’esterno, senza viverci veramente dentro: tramite i suoi occhi, il lettore vede una città brulicante e piena di aspettative verso il futuro, affamata di successo e notorietà. Lo stesso De Carlo ha trascorso un certo periodo della sua vita a Los Angeles insegnando italiano, proprio come Giovanni, e ciò gli ha permesso senza dubbio di tracciare un quadro dettagliato della metropoli. Accanto allo sguardo disincantato del ragazzo emerge paradossalmente e allo stesso tempo uno sguardo minuzioso: infatti il protagonista ha la passione per la fotografia, e girovaga per Los Angeles fotografando dettagli apparentemente insignificanti: “il dettaglio di un’automobile, il particolare di un abito, il frammento di un gesto frettoloso”. Si tratta dello stesso occhio del primo De Carlo, che Calvino aveva precocemente notato, parlando della sua “acutezza dello sguardo”.

Come l’incipit della storia, il finale descrive un panorama notturno di Los Angeles, un turbinio di luci nel “lago nero” della notte. È un finale aperto, denso di possibilità future: si legge tra le righe il brivido positivo e tutto giovanile dell’incertezza del futuro.

Ci si potrebbe giustamente domandare: perché Treno di panna? Che relazione ha il titolo del romanzo con tutta la vicenda? Si tratta del titolo inventato del film che Marsha Mellows aveva girato a Venezia nel 1971, durante il quale aveva conosciuto il suo attuale marito, l’attore Arnold Bocks. Il film lega allora Giovanni con Marsha per diversi motivi: l’attrice utilizza un quadernetto per le lezioni di italiano che aveva comprato proprio durante quel viaggio in Italia, ma non solo. Dice ad un certo punto il protagonista: “la vera cosa strana era che Treno di panna era il primo film di Marsha Mellows che avevo visto in vita mia. A pensarci mi riusciva abbastanza difficile respirare”. Nel libro non si esplicita mai veramente la vicenda che veniva raccontata nel film, ma metaforicamente si potrebbe pensare che “treno di panna” stia ad indicare proprio l’atteggiamento generale della città di Los Angeles: la determinazione e la speranza paragonate ad un solido treno che corre veloce, in una dimensione tuttavia sempre sognante, dolce come la panna. E proprio questo approccio alla vita, che alla fine viene adoperato anche dal protagonista, influenzò enormemente i letterati italiani di quegli anni, tanto che Gianni Riotta scrive: “era il mondo della nostra maturità, il futuro. Salimmo sul treno di panna, guardammo il tramonto della guerra fredda e lo sbriciolarsi dei suoi muri assassini e diventammo adulti”.

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