Niente di vero, solo un mucchio di ricordi rivisitati

Veronica Raimo mi ha incuriosito con la copertina: una bambina con un viso contorto come se avesse appena morso qualcosa di aspro. Non ho letto la trama, ho subito sentito che dovevo leggerlo. In realtà conoscevo già un pochino lo stile dell’autrice dalla raccolta di poesie Le Bambinacce scritta assieme a Marco Rossari: una provocazione divertente che racconta l’incertezza, l’amore, l’autolesionismo e altri tabù culturali. 

Niente di vero è una tragicommedia scritta come se si stesse raccontando la propria vita a quell’amica di sempre o come quello sfogo improvviso con un tizio in un bar che sai di non incontrare mai più. Un fiume di pensieri che nasce dalla consapevolezza del venire al mondo in una famiglia che non hai scelto ma ci sei capitato e che per accettarla la subisci. Una scrittura esilarante e schietta che racconta i disagi, i fallimenti e le storture della vita con il sottofondo di una risata amara. La protagonista Veronica, chiamata Verika dalla madre, Oca dal padre (soprannome nato dalla storpiatura del nome da bambina) e Vero dagli amici si racconta con un tono beffardo in un percorso di crescita intriso di diverse visioni del mondo che portano poi alla sua di visione. Da piccola voleva fare la rockstar perennemente in tour mondiale ma non le era permesso fare cose spericolate. La sua infanzia è stata dominata dalla noia, da giornate tutte uguali passate tra le mura di casa, sapevamo annoiarci come nessun altro”. Il lettore viene immerso in quei giorni passati a spiare dalla finestra della cameretta gli altri bambini giocare nel cortile del palazzo. Veronica si riscatterà da grande con una vita randagia passata nelle case degli altri a vivere le loro vite per brevi periodi.

Al mucchio dei ricordi d’infanzia si aggiungono poi i genitori iperprotettivi: il padre che costruisce muri fino a far diventare la casa un alveare claustrofobico, la madre iperapprensiva che telefona sempre a tutti per sapere dov’è, il fratello che si prende tutte le attenzioni, perché è più bravo a fare tutto. Percepiamo tra le righe quel senso di soffocamento che si sente quando i genitori ci tengono troppo stretti per paura che ci succeda qualcosa. Riflette anche sulla rappresentazione dell’amore che sono stati i suoi: un rapporto visto come modello per il fratello ma un modello di tutto ciò non avrebbe mai voluto per Veronica, cioè due persone che non si rendevano felici ma sono rimaste insieme fino alla fine. 

Non mancano le prime relazioni d’amore: Bra, con cui vedeva la fine prima ancora che iniziasse. Loris, una relazione intrapresa per la sola praticità di scappare di casa. La prima volta che ha visto un uomo nudo, viscidamente spiazzante. Quel diventare donna senza aver mai ricevuto un’educazione sessuale è brutalmente simile alla realtà di tante giovani ragazze di oggi. L’inquietante mitologia intorno alle mestruazioni e lo scandalo dell’andare dal ginecologo in famiglia portano Veronica a fidarsi unicamente della madre della sua migliore amica, che diventa così la ginecologa segreta e l’adulta con cui si può parlare di sesso. Poi c’è l’amore maturo accompagnato da test di gravidanza, l’inferno di abortire e l’amara scoperta del cimitero dei feti.

La Raimo va anche a toccare quei piccoli dolori quotidiani che sono fastidiosissimi, come la stitichezza di cui ne descrive il senso di impotenza e solitudine: “i momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso”. Nonno Peppino che capiva quel dolore così intimo e le stava vicino raccontandole degli aneddoti. E poi quel l’insonnia invincibile accompagnata da crisi esistenziali notturne: perché la vita? perché scrivere? si chiede nel continuo rigirarsi nel letto. Infine, molto toccante è la profonda descrizione dell’affrontare il dolore di una persona cara che soffre. La limpidezza con cui vengono descritte le giornate passate accanto al suo letto, dal provare a trovare un argomento di cui parlare allo stare semplicemente lì in silenzio. “Non volevo avere ricordi di quel corpo. Per me mio padre non c’era più.” Il tempo che passa e porta a non pensare più costantemente alla sua figura,  fino a che tutto il dolore viene racchiuso in ricordi lontani. 

Un libro che ci fa domandare: chi ci conosce davvero? I nostri genitori sanno chi siamo? Troveremo prima o poi il coraggio di diventare le persone che fingiamo di essere? Anche se l’autrice dichiara che non c’è niente di vero, sembra esserci tutto di vero. Veronica Raimo sembra tradurre nero su bianco tutte le paranoie mentali che ci facciamo. Ci racconta del diventare grandi e della vita, senza mezze misure. Con quel pizzico dello spirito dissacrante di Fleabag che trasforma sesso e disastri familiari in una commedia provocatoria è impossibile chiudere il libro prima della fine.

 

La vita intima

La mia prima lettura dell’anno è stata un regalo di un’amica, La vita intima di Niccolò Ammaniti. Quando l’ho finito mi sembrava di non aver letto niente, come se fosse stata una gran perdita di tempo. Ho avuto la fugace sensazione di non riuscire più a intravedere le immagini che le parole possono trasmettere. Non riuscivo a trovare le parole giuste per esprimere cosa mi ha lasciato questa nuova lettura. Così ho chiuso il libro e l’ho abbandonato per diverse settimane. Tornando a casa un giorno l’ho visto sul comodino e mi sono detta “Ali non puoi non dargli un’altra possibilità, ci deve essere qualcosa”. Ho iniziato a sfogliarlo e a scrivere, poi ho cancellato tutto. Mi sembrava tutto banale, superfluo, già detto e ridetto. Ma ho provato comunque ad andare fino in fondo perché una persona una volta mi ha detto “ un libro non può non trasmettere niente, c’è sempre una magia casuale tra le parole. Basta saper guardare in profondità”.

Questa è la storia di Maria Cristina Palma, la moglie del Presidente del Consiglio. E’ una donna privilegiata, ricca e bellissima. La donna più bella del mondo. Ha una figlia, Irene. Ma prima di questa vita Maria Cristina ne ha passate tante e anche se al momento sembra avere una vita perfetta il dolore e il passato ritornano di botto con la forza bruta di un uragano. Un incontro con una fiamma del passato basta per far crollare tutte le sue certezze. 

Ammaniti ci fa vivere nella quotidianità della protagonista e ci fa entrare nella sua mente, tra i suoi pensieri. Nell’arco di sette giorni ci regala un’avventura bizzarra, a tratti  un pò deludente. Tra paragrafi di descrizioni scricchiolanti e situazioni ambigue possiamo scorgere degli spunti riflessivi interessanti: tematiche attuali sulla nostra società e altre estremamente personali. Si parla di dolori fisici e dolori dell’anima, quelli che faticano a svanire. Ci mostra la resilienza di una donna che si porta tanti dolori dietro cercando di nasconderli e nascondersi il più possibile. Si parla del peso del passato e della memoria, un raccoglitore pieno di cose fragili. Si parla di amicizia e d’amore. Luciano e Maria Cristina: grandi amici per lei, un amore unidirezionale per lui. Nicola Sarti e Maria Cristina: una storiella estiva adolescenziale che porta il peso di una perdita in comune. Andrea Cerri e Maria Cristina: un amore frizzante spento dalla depressione di lui, che lo rendeva come un vampiro. 

La perdita, affrontata da Maria Cristina come qualcosa da evitare e dimenticare. Si parla dei ricordi amari dell’adolescenza, di quelle frasi che ti rimangono tatuate sulla pelle e diventano una voce critica con cui dialogare nei momenti aspri dell’esistenza. Si parla del rapporto con la bellezza: come dimostrare di essere intelligente e profonda per non essere trattata come una scema? Si parla di genitori: un rapporto durato troppo poco, una madre che aveva visto solo da lontano, come sul televisore. Si parla di verità: meglio vivere nella paura di essere scoperti o uscire allo scoperto?

Insomma vengono toccati tanti temi con la punta delle dita, spunti abbozzati ma non approfonditi. Leggendo, la nostra mente viene sballottata da un tema all’altro in modo brusco con intervalli di dialoghi causali e teneri. Come quello sull’autostrada con un camionista che offre un passaggio a Maria Cristina, non la riconosce e alla fine le chiede: “posso darle un bacio?”. Oppure come il dialogo con Luciano dove le dichiara di essere innamorato di lei da sempre ma lei non se n’è mai accorta.

La frase che riassume il viaggio che è stato questo libro è quella con cui vi voglio lasciare….

“Nel vento e nel gelo Maria Cristina si lascia condurre, le palpebre chiuse come se non dovesse aprirle mai più, prostrata dallo strazio e costernata dalla improvvisa, lampante, cognizione di non capire un cazzo, mai, di non saper riconoscere le persone, di essere solo un tappo di sughero sballottolato dalle onde” 

Le ricchezze di Stefano Benni: amore, natura e letteratura

Un romanzo d’altri tempi, quello scritto da Stefano Benni nel 2012 e intitolato Di tutte le ricchezze

Come è d’altri tempi il protagonista, un certo Martin B., professore universitario settantenne in pensione, ancora molto stimato nel suo ambiente, che ha mollato tutto e tutti per ritirarsi nella solitudine della vecchiaia in una casa isolata al di fuori del piccolo paese di Borgoconio, sull’Appennino.

Martin è l’unico studioso dell’opera di Domenico Rispoli, detto Il Catena, un poeta naïf morto in manicomio, che ha scritto numerose poesie leggibili all’inizio di ogni capitolo del romanzo, intervallate alla narrazione vera e propria; questi componimenti rivelano la sua pazzia, ma allo stesso tempo la sua profonda genialità.

Tuttavia, il professore non è completamente solo: con lui c’è il suo fedele compagno Ombra, un grosso cane nero, e poi ci sono tutti gli animali del bosco (il gufo, la capra, la volpe, il tasso) con cui il professore intrattiene discussioni filosofiche a fine giornata. Le telefonate di Umberto, suo figlio che abita lontano, e le visite di alcuni amici, sia recenti sia di vecchia data, riescono ad allietare le piatte giornate del protagonista.

La rottura di questo equilibrio iniziale avviene quando, nella casa azzurra di fronte a quella del professore, disabitata da tempo, arriva una giovane coppia proveniente dalla città: lui è un pittore e un gallerista, lei una ballerina e attrice. Entrambi sono fuggiti dal caos della metropoli per ritrovare l’ispirazione. Presto il professore li conosce e li soprannomina Il Torvo e La Principessa del grano (per via dei capelli biondi della giovane donna, che ricordano a Martin un antico amore perduto).

La vita del protagonista viene dunque scombussolata in vari modi, dal momento che i tre personaggi diventano sempre più intimi, fino a quando emergeranno ricordi dolorosi del passato, litigi e inevitabili separazioni, che porteranno Martin a riflettere sul suo presente, ma soprattutto sulle scelte del suo passato.

Questo è senza dubbio un romanzo che parla della solitudine, e nello specifico quella di un anziano che, per diversi motivi, ha scelto di vivere da solo. Questa condizione viene messa in mostra con una luce tutt’altro che negativa, anche se si evidenziano le varie ombre che inevitabilmente compaiono di giorno in giorno. Nello stesso tempo, la ventata di novità e giovinezza portata dalla coppia metropolitana riempie e arricchisce la vita del professore, facendogli rivivere sentimenti non più provati da tempo. 

È anche un romanzo che parla di letteratura: frequenti sono i riferimenti letterari (ad esempio, ci sono alcuni rimandi a Le notti bianche di Dostoevskij), e  il volume stesso è una sorta di mélange tra prosa, poesia e teatro, dal momento che oltre alla storia compaiono le meravigliose poesie del Catena e alcune scene vengono raccontate dall’autore sotto forma di copione teatrale.

Dunque solitudine, letteratura, e amore, tantissimo amore: per la natura e i suoi animali, per la cultura, e per la bellezza delle piccole cose della vita, anche nella vecchiaia. 

La sfortunata Stella Fortuna: quando erano gli italiani ad emigrare in America

Negli ultimi anni sul mercato editoriale hanno avuto e stanno avendo particolare successo alcune saghe familiari; si pensi ad esempio ai libri dell’italiana Stefania Auci, che spicca per la celebre Saga dei Florio. Sono saghe che raccontano di generazioni e generazioni di una famiglia, spesso povera, che cresce e matura nel tempo. Leggendo questi volumi si sente l’eco di alcuni grandi classici del passato, forse de I Viceré di De Roberto (anche se in quel caso si trattava di una famiglia nobile), ma anche dei libri di Isabel Allende.

Proprio il realismo magico della Allende si ritrova nelle pagine del romanzo d’esordio di Juliet Grames, che si situa in questo filone: Storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte, pubblicato in Italia da HarperCollins. La scrittrice è italo-americana, vive in Connecticut e si è documentata con precisione recandosi di persona in Calabria, a Ievoli, prima di narrare la bellissima epopea della famiglia Fortuna.

Ma procediamo con calma: l’arco cronologico della vicenda è alquanto ampio, perché va dai primi anni del secolo scorso fin quasi ai giorni nostri. La prima parte del romanzo è ambientata nella Calabria del primo Novecento, e in particolare in un paese sperduto in cima alle colline di nome Ievoli, dove i compaesani sono poverissimi, si conoscono tutti e si sposano tra cugini. 

La protagonista è una famiglia, quella dei Fortuna, creata da Assunta e Antonio, detto Tonnon e poi Tony. Dal loro matrimonio per niente felice nasceranno comunque quattro figli, due femmine e due maschi: Maria Stella detta Stella, Concettina detta Cettina, Giuseppe e Luigi. Antonio abbandona molto presto la famiglia per andare a cercare fortuna in America, lasciando Assunta da sola con quattro figli piccoli, senza nessun aiuto economico. 

Stella e Concettina sono le vere eroine di questa storia, dato che l’autrice esamina nel dettaglio il loro percorso di crescita, dalla più tenera infanzia alla vecchiaia. Il legame affettuoso tra le due sorelle si mantiene forte e solido per gran parte della loro vita: hanno pochissima differenza di età, sono due ragazze bellissime, gran lavoratrici e invidiate da tutta Ievoli, oltre che fortemente corteggiate. Stella tuttavia è particolarmente sfortunata, forse preda del malocchio, perché fin dall’infanzia è sopravvissuta a numerosi incidenti che l’hanno quasi uccisa (da qui il titolo del romanzo). 

La Grames si sofferma molto nel delineare la condizione della donna nella società del Sud Italia di quel periodo: senza voce in capitolo su ciò che riguarda la sua vita, viene data in sposa giovanissima con un matrimonio di pura convenienza ed è costretta a fare figli esaudendo tutti i desideri del marito-padrone. 

Tutto cambia quando, a ridosso dell’entrata in guerra dell’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, la famiglia Fortuna raggiunge Antonio in America, precisamente ad Hartford, nel Connecticut. L’America è tanto diversa da Ievoli, e i Fortuna vivranno anni estremamente difficili; poverissimi, ridotti a fare lavori faticosi e sottopagati, diventano “stranieri ostili” nel momento in cui anche gli Stati Uniti entrano in guerra. È impossibile non pensare all’evidente somiglianza dei Fortuna e dei loro simili con gli immigrati di oggi, che giungono in Italia nella stessa loro condizione ad inizio del secolo scorso. In America le sorelle Fortuna saranno alle prese con usi e costumi completamente nuovi, con più libertà e frivolezze, tra corteggiamenti, matrimoni, lavoro e figli.

Estremamente interessante è il modo con cui l’autrice tratteggia la personalità di Stella, che è totalmente opposta a quella delle ragazze e donne della sua età: Stella appare agli occhi degli altri come un’aberrazione, come una ragazza troppo cocciuta che andrebbe domata, ma in realtà rappresenta la donna indipendente, che non vuole sposarsi né avere figli, che vuole andare a vivere da sola, lontana dalla sua famiglia, per costruirsi la sua vita. La protagonista rappresenta un barlume di modernità in una società ancora estremamente ottusa, radicata negli ideali antichi dell’Italia del Sud, portati anche oltreoceano. 

Riuscirà Stella a imporre la sua personalità e la sua intraprendenza o dovrà, ancora una volta e per sempre, sottomettersi alla sua famiglia?

Storia di Stella Fortuna è un libro brillante, una sorta di grande documentario romanzato, che narra la storia di una famiglia più unita che mai, nonostante tutti i dissapori e i litigi. E alla fine si resta commossi, come spesso accade quando si concludono quelle grandi epopee che raccontano il trascorrere del tempo, il quale, lento e inesorabile, solca le linee degli alberi genealogici.

 

Arianna abbandonata e l’amore che fa male

L’isola dell’abbandono, libro di Chiara Gamberale pubblicato nel 2019, si apre con una dedica: “a chi resta”.

E questa fa sorridere una volta che si conclude questo intenso romanzo psicologico che parla prevalentemente della paura di essere abbandonati.

Secondo la versione più accreditata del mito di Teseo e Arianna, si racconta che Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, riuscì a sconfiggere e uccidere il Minotauro solo grazie all’aiuto di Arianna, la figlia del re di Creta, Minosse. La fanciulla, innamorata di Teseo, gli aveva strappato la promessa di portarla via con sé, in cambio di un filo da dipanare lungo il labirinto dove era rinchiuso il Minotauro in modo che l’eroe ne uscisse sano e salvo. Tuttavia Teseo, una volta compiuta l’impresa, non rispettò la promessa e quando giunse con le sue navi sull’isola di Nasso per far rifornimento, abbandonò Arianna sulla spiaggia mentre dormiva. Ad oggi si crede che l’espressione “piantare qualcuno in asso” – nel senso di abbandonare qualcuno – derivi proprio da qui: la formula “in Nasso” si sarebbe trasformata, per semplificazione fonetica, nell’attuale “in asso”. 

Questo mito è il fulcro del romanzo stesso, perché Arianna, la nostra protagonista, verrà davvero abbandonata dal suo grande amore sull’isola greca di Naxos.

Ma procediamo con ordine: Arianna è diventata da poco madre di Emanuele, ed è, per ora, single (o gengle, cioè “genitore single”). Ha scelto di non continuare la sua storia con Damiano, padre di suo figlio e psicoterapeuta molto più vecchio di lei, e decide di scrivere ad Emanuele una lunga lettera in cui gli racconta tutto quello che è successo nella vita di sua madre prima del suo arrivo. Il romanzo non è però, come potrebbe sembrare all’inizio, una riflessione sulla maternità (tema comunque rilevante ma che viene affrontato lateralmente, all’inizio e alla fine della storia) ma è una lunga e profonda analisi di un amore sconfinato e totale, ma letale, dipendente e tossico.

Si torna, quindi, indietro nel tempo e si scopre che Arianna è stata fidanzata per anni con Stefano, un giovane architetto che soffre di una forma abbastanza grave di bipolarismo e che non è in grado di tenere sotto controllo la sua vita. Arianna vive gli alti e bassi del fidanzato come se fossero suoi, gli fa “da madre”, annullando completamente la sua personalità per adeguarsi alla sua. La ragazza è un’illustratrice per bambini e inventa storie che ricalcano effettivamente l’umore del suo fidanzato. Soffre per i continui tradimenti e ricadute di lui ma non riesce a mollare la presa. Stefano, infatti, la convince sempre a restare dicendo che per lui lei è essenziale, che non potrebbe vivere senza di lei e così il peso della malattia e dell’incapacità di stare al mondo di lui diventano anche di lei. Parafrasando una frase del libro: è come se si considerasse una vittima la persona che in realtà fa male proprio a noi. Ma Arianna questo non lo capisce, finché non viene abbandonata. 

In una vacanza sull’isola greca di Naxos, Stefano la pianta definitivamente in asso: fugge di punto in bianco a Londra con una turista incontrata lì sul posto, senza dare spiegazioni. L’abbandono è brutale proprio perché improvviso; Arianna si sente privata di una parte di se stessa e non capisce come il mondo possa sembrare sempre esattamente lo stesso, nonostante tutto il dolore che lei stessa sta patendo. 

Dallo strappo inevitabile che segue all’accaduto, Arianna inizia un lungo percorso di introspezione in se stessa: in questo nuovo viaggio la accompagneranno altri due uomini (uno è un certo Di, che Arianna conosce sempre sull’isola, e l’altro è appunto Damiano) che le faranno capire che il suo attaccarsi morboso ad una persona come Stefano deriva solo dal suo terrore di essere abbandonata, tanto che infatti una delle sue paure più grandi è sempre stata quella di perdere le persone care attorno a lei. Non era capace di vivere una fine, di amarsi in primis e di venire ricambiata come si meritava. 

La nostra Arianna, dunque, non è l’Arianna del mito: non è un’eroina ma è piena di contraddizioni e paure. È una persona molto ansiosa per il figlio e sempre insoddisfatta di se stessa, come donna e come madre. Ci si può identificare facilmente con lei perché soffre, patisce, ama disperatamente qualcuno che non può offrirle nulla e la fa soffrire a sua volta, cade e si dispera ma si aggrappa alla vita con tutta se stessa. E poi, con un figlio e quindi con una nuova vita che fa ricominciare tutto da zero, prova definitivamente a far ordine attraverso la scrittura e a ritrovare, una volta per tutte, la sua identità. 

Si rinasce anche cambiando l’acqua ai fiori

Se si va a cercare su Wikipedia il nome di Valérie Perrin, non si scopre molto della sua vita. Scrittrice, fotografa e sceneggiatrice francese, classe 1967, sposata a sua volta con uno sceneggiatore e regista francese, la Perrin ha scritto due romanzi nella sua vita, che hanno ottenuto entrambi numerosi premi: il primo è stato pubblicato nel 2015, con il titolo italiano Il quaderno dell’amore perduto (bellissimo il titolo in francese: Les Oubliés du dimanche), mentre il secondo è uscito in Francia nel 2018, Changer l’eau des fleurs, in italiano Cambiare l’acqua ai fiori, che ha riscosso un notevole successo nel nostro Paese di recente.
Senza dubbio questa scrittrice sa il fatto suo: il romanzo racconta una storia bellissima, mai monotona, tipicamente francese e malinconica al punto giusto. Sicuramente, l’anima da sceneggiatrice permette alla Perrin di avere un occhio più attento ai dettagli, alle piccole cose, alle descrizioni precise e vivide dei luoghi e dei personaggi del romanzo. Anche perché Violette, la protagonista, è proprio così: una donna che vive per la cura dei dettagli, e che sa gioire per qualsiasi gioia quotidiana. Violette d’altronde fa un lavoro che oggi pare quasi dimenticato, poiché è una guardiana di un piccolo cimitero in Borgogna. La sua vita è scandita da una sequenza di azioni giornaliere, quasi dei riti, che vengono praticati da anni: pulire le tombe, assistere alle sepolture, vendere i fiori e cambiarli sulle lapidi, offrire un caffè o qualcosa di più forte ai parenti e agli amici affranti dei defunti che vengono a trovare conforto nella sua piccola casetta. Violette è sempre gentile e ha sempre una buona parola per tutti; bada al suo piccolo orticello, tiene un registro dove riporta tutte le sepolture che avvengono nel cimitero, con i dettagli della cerimonia funebre. Riporta persino il tipo di legno utilizzato per la bara del defunto di turno.
Eppure, questa apparente vita tranquilla e ripetitiva nasconde dietro di sé molto altro. Infatti, Violette ha un passato tremendamente difficile alle spalle, che pian piano, con grande grazia e forza di volontà, ha saputo lasciar andare. Orfana fin dall’infanzia, Violette è passata da una famiglia affidataria all’altra, senza poter dire di aver mai avuto una vera famiglia. Ha conosciuto giovanissima un ragazzo più grande di lei, Philippe, che l’ha tirata fuori dal circolo degli affidi facendola sua troppo presto, e rendendola madre altrettanto prematuramente. Tuttavia, la gioia di poter accudire una figlia, Léonine, è stata più grande di qualsiasi altro sentimento provato da Violette in tutta la sua vita. I due giovani genitori diventano poi guardiani di un passaggio a livello (lavoro, questo, che oramai non esiste più); in realtà, è Violette che lavora, mentre Philippe esce sempre più spesso a «fare i suoi giri». E così la ragazza vede, giorno dopo giorno, la vita dei pendolari scorrerle davanti, in tutte le sue sfaccettature. Sogna anche lei di avere una vita diversa, più movimentata, piena di sorprese e soddisfazioni. Di lì a poco, invece, Violette sarà costretta a sopportare un vortice di eventi che la getteranno nella più totale disperazione e depressione.

Come ne uscirà? Cambiando l’acqua ai fiori. Accudendo una terra, un orto, quello del cimitero di cui successivamente diventerà guardiana. La vita di Violette diventa allora esemplare: è quella di una donna che ha sofferto tantissimo nella vita, e che però ha saputo rialzarsi, con grande fatica ma nello stesso tempo in silenzio, con estrema eleganza. È ripartita proprio da lì, dallo stretto legame che ci unisce alla terra, da cui veniamo e nella quale ritornano i defunti che la stessa Violette accoglie nel suo piccolo cimitero.

Cambiare l’acqua ai fiori è uno di quei libri per cui dispiace quando si arriva all’ultima pagina. Si sente immediatamente la mancanza di Violette, mancano la sua pacatezza e la sua gentilezza, qualità che ha mantenuto nel tempo nonostante la vita difficile che ha avuto. Senza dubbio, si tratta di uno di quei romanzi che comportano una riflessione successiva: sul valore degli affetti che ci circondano, sulla qualità della vita rispetto al momento della morte (tra l’altro, bellissimo il fatto che ogni capitolo del romanzo inizi con una specie di epitaffio che si potrebbe ritrovare su una tomba), ed infine, sulle innumerevoli possibilità di rinascere sempre e comunque, nella nostra esistenza, aggrappandoci con tutte le nostre forze a ciò che ci rende davvero vivi e presenti a noi stessi.

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